Dieci anni di illusioni:
storia del Sessantotto
Quando
il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli
UNA LUNGA CRONACA
Intorno
all'anno millenovecentosessantacinque, l'Occidente era la parte più ricca
e più libera del mondo.
Quasi tutti potevano mangiare tre volte al giorno. Quasi ovunque c'erano diritto
di voto e libertà di espressione. La possibilità di studiare era
di gran lunga cresciuta, e anche per i figli degli operai si erano aperte, finalmente,
le porte dell'università.
Sembra dunque che mai l'uomo fosse stato così bene come in quel periodo,
e in quella parte del mondo.
Eppure, fu proprio in quel periodo -1965 o giù di lì- e proprio
in quella parte del mondo che fermentò la grande rivolta che sarebbe
esplosa poco dopo. Dagli Usa alla Francia, dalla Germania all'Italia, un'intera
generazione mostrò di non accontentarsi affatto di quel mondo, «così
libero e così ricco», che i genitori avevano preparato per loro.
Diceva, il 16 giugno 1962, il primo manifesto programmatico della contestazione
studentesca, quello di Port Huron, Stati Uniti: «Siamo figli della nostra
generazione, cresciuti nel benessere, parcheggiati nelle università,
e guardiamo al mondo che ereditiamo con sconforto». E una delle ragazze
intervistate dalla «Zanzara», il giornale studentesco del liceo
Parini di Milano al centro, nel marzo del 1966, di uno scandalo nazionale: «Se
mi offrissero una vita solo dedita al matrimonio, alla casa e ai figli, piuttosto
di vivere così mi ammazzerei».
Nacquero, e dilagarono in tutto l'Occidente, i movimenti dei «beat»,
degli «hippies», dei «provos» e dei «figli dei
fiori». Contestavano l'autorità della famiglia e della scuola,
il servizio militare, l'esistenza delle carceri, l'integrazione nel mondo del
lavoro. Era scritto su un documento di «Onda Verde», uno dei più
influenti gruppi underground italiani: «Non ci vanno le autorità,
la famiglia, la repressione sessuale, l'economia dei consumi, la guerra e gli
eserciti, i preti, i poliziotti, i culturali, i pedagoghi e demagoghi. (...)
Noi vogliamo cambiare subito e con urgenza le situazioni in cui ci troviamo.
(...) La vecchia generazione, che detiene o sostiene o subisce il controllo
sociale e la repressione, deve morire prima di noi».
Sintomi, segnali di un qualcosa che sarebbe poi esploso, con singolare, misteriosa
sincronia, attorno al predestinato anno 1968. E che sarebbe passato alla storia,
appunto, come «il Sessantotto».
Il
Sessantotto durò dieci anni, fino al settembre del 1977, ed ebbe poi,
ancora per molto tempo, una tragica appendice con la lotta armata. Il perché
di questo record di durata è di difficile comprensione.
Il Sessantotto appare come qualcosa di molto complesso. Dove convivono, da ogni
parte, ragioni e torti. Dove s'intrecciano molti fattori: il bigottismo di una
società, quella pre-sessantottina, molto più attenta alle forme
e ai valori materiali che non agli ideali; la nuova, ulteriore crescita dei
ritmi di lavoro nelle fabbriche; una casta industriale che, abituata a molto
guadagnare e a poco rispettare le garanzie per i lavoratori, tardava ad adeguarsi
agli standard europei.
Ma anche la fisiologica voglia di menare le mani della prima generazione a non
aver mai vissuto una guerra; la semina di milieu intellettuali che
predicavano, dai salotti, Verbi obsoleti e ingannatori, che -in caso di vittoria-
avrebbero portato a società ben peggiori di quella che si voleva distruggere;
l'opportunismo dei molti che trovarono presto il «lato comodo» della
rivolta; l'accodamento inerte, infine, degli immancabili conformisti.
E c'è anche un aspetto quasi sempre dimenticato (oppure frainteso, equivocato)
quando si parla del Sessantotto. E cioè la secolarizzazione selvaggia,
l'immane crisi di fede collettiva di quegli anni. Fu per quella crisi che le
istanze più genuine e sincere dei giovani si indirizzarono verso la pretesa
della costruzione di una sorta di paradiso terrestre; e fu anche e soprattutto
per quella crisi che il disagio e la protesta degenerarono come degenerarono.
I - IL SESSANTOTTO
Cominciò
con una beffa.
I primi a far sul serio, infatti, furono gli studenti di sociologia di Trento;
loro diedero il la, all'inizio di novembre del '67, agli «stati di agitazione».
Davvero una beffa, perché quell'Università era stata voluta da
Flaminio Piccoli e da un gruppo di altri democristiani con lo scopo preciso
di farne una fucina di pensatori cattolici. Finalmente, pensavano i fondatori,
anche il cosiddetto mondo cattolico avrebbe avuto i suoi sociologi. E invece
quell'Università fu la culla non solo della contestazione, ma anche del
terrorismo. Lì si formarono, ad esempio, Renato Curcio e Margherita Cagol,
fra i genitori delle Brigate rosse.
Pochi giorni dopo -il 17 novembre, per la precisione- un altro ateneo venne
occupato: nientemeno che l'Università del Sacro Cuore di Milano, fondata
da padre Agostino Gemelli e considerata un fiore all'occhiello della cultura
cattolica italiana.
Il giorno dopo a cadere fu architettura, a Torino. E il 27 novembre, ancora
a Torino, palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche: gli studenti
rimasero dentro un mese esatto, fino all'intervento della polizia.
Nei primi due mesi del 1968 quasi tutte le più importanti università
italiane erano occupate. Secondo un'inchiesta fatta allora da «Tempi moderni»,
nell'anno accademico ‘67-‘68 furono 102 le occupazioni di sedi e
facoltà universitarie. In testa lettere (18 facoltà occupate su
22) e scienze, in particolare fisica (16 occupate su 22).
IN UN MARE DI GUI
Come
in tutte le guerre, anche qui ci fu un casus belli. Il governo, retto da Aldo
Moro, aveva presentato un progetto di riforma dell'università, chiamato
«progetto Gui» dal nome del ministro della Pubblica Istruzione Luigi
Gui, o «ventitré-quattordici» dal numero del disegno di legge,
che era 2314. Un progetto che partiva dalla constatazione che l'università,
in effetti, era vecchia e soprattutto inadeguata alle esigenze dei tempi nuovi.
Dal 1961 al 1968 la popolazione studentesca era cresciuta del 117 per cento.
Nel 1859, al tempo delle leggi Casati, c'erano mille cattedre e ottomila iscritti;
alla fine del 1967, 3000 docenti e 500.000 studenti. Le università di
Roma, Napoli e Bari avevano, rispettivamente, 60.000, 50.000 e 30.000 studenti,
mentre erano state costruite per accoglierne non più di cinquemila ciascuna.
L'ultima riforma universitaria risaliva al 1923.
Tutti d'accordo, dunque, sulla necessità di cambiare le cose. Ma gli
studenti bocciarono subito la «ventitré-quattordici» coniando
uno slogan: «Siamo in un mare di Gui».
Il ministro proponeva la creazione dei dipartimenti, aggregazioni di insegnamenti,
istituzione di tre gradi di laurea (diploma al termine del primo biennio, dottorato
di ricerca due anni dopo la laurea). Il Pci contestava, ma senza esagerare:
gli bastava qualche emendamento al disegno di legge.
Ben altro volevano gli studenti. Spiegava in un manifesto il «Movimento
per una università negativa» di Trento (di cui faceva parte lo
stesso Curcio):
«Solo il rovesciamento dello Stato permetterà una reale ristrutturazione
del sistema d'insegnamento. (...) Lo studente deve quindi, al di là del
suo status, agire, in una prospettiva di lungo periodo, per la formazione (stimolazione)
di un movimento rivoluzionario delle classi subalterne. (...) A un uso capitalistico
della scienza bisogna opporre un uso socialista delle tecniche e dei metodi
più avanzati ... ».
Questo documento, scritto in gran parte da uno studente di buona cultura destinato
a diventare uno dei cervelli di Lotta continua, Mauro Rostagno, chiamato il
«Che» di Trento, è -come si vede- già fortemente intriso
di ideologia. Molto più di quanto fossero gli studenti delle altre università
nei primi mesi del 1968. Il movimento studentesco di Trento -che fra i «cervelli»
aveva anche i cattolici Marco Boato e Paolo Sorbi, anche loro finiti poi in
Lotta continua- era affascinato, almeno nei suoi leader, dalla «teoria
critica della società» elaborata dai filosofi della Scuola di Francoforte.
Ma era davvero un fatto singolare che di «repressione universitaria»
si cominciasse a parlare proprio a Trento. Questa università fu la prima
(e a quel tempo rimaneva l'unica) facoltà umanistica ad ammettere anche
gli studenti provenienti dagli istituti tecnici. Se è vero che gli atenei
erano allora frequentati perlopiù da figli della borghesia (pur se molto
meno che in passato, come dimostrano le cifre sugli iscritti), è un fatto
che a Trento, nell'anno accademico ‘68-‘69, su un totale di 2813
iscritti, ben 2230 provenivano dagli istituti tecnici.
Un
altro documento «storico» sulle occupazioni universitarie è
Contro l'università, scritto sui «Quaderni Piacentini»
nel gennaio del 1968 da Guido Viale, uno dei leader del movimento torinese e
fra i protagonisti, quindi, della rivolta di palazzo Campana. Per Viale la scuola
era «di classe», e serviva al potere per omologare ai suoi disegni
le coscienze dei giovani: «L'università funziona come strumento
di manipolazione ideologica e politica teso a instillare negli studenti uno
spirito di subordinazione rispetto al potere, qualsiasi esso sia ... ».
Secondo il «movimento», all'università era impossibile elevarsi
in qualunque modo. I figli dei ricchi si preparavano a diventare dirigenti.
I figli degli operai, essendo figli di operai, avrebbero soltanto subito un
lavaggio del cervello. «Il movimento studentesco si muove dal rifiuto
della condizione di predeterminazione che il sistema assegna agli studenti»
scriveva Luigi Bobbio, anche lui fra i protagonisti delle occupazioni torinesi.
Si diceva che la laurea sarebbe servita solo a chi aveva una famiglia «bene»
alle spalle; per lo studente proletario, non c'erano speranze di un futuro migliore
rispetto alla vita dei genitori.
E si contestava, ovviamente, la formula dell'esame per valutare la preparazione
dello studente. Il docente che interrogava era visto come un poliziotto, un
inquisitore; lo studente come un imputato; l'esame stesso, come un moderno strumento
di tortura.
Al bando anche i libri, che in più di un'occasione finirono al rogo nei
cortili delle università. Erano considerati strumenti del «sistema»
per indottrinare la gioventù; e come alternativa a questo vecchio, obsoleto
e pericoloso metodo di insegnamento, si inventò l'«autoeducazione».
A «far cultura», in luogo dei libri, arrivarono quindi i volantini,
su cui si scriveva di tutto, dalle informazioni su cortei e occupazioni alle
analisi politiche. Il ciclostile diventò all'improvviso uno degli strumenti
più importanti della vita del paese. Di nuovo una testimonianza di Guido
Viale:
«Prima ciclostilati in poche centinaia di copie, e poi in migliaia [i
documenti delle occupazioni] si diffondono e circolano, anche da una città
all'altra, attraverso una serie di contatti e rapporti personali che coincide
con l'organizzazione stessa del movimento. Raggiungeranno presto, fino ad occuparle
del tutto, le pagine delle riviste culturali (di avanguardia e non) e politiche
(ufficiali e non). (...) La cultura del Sessantotto, se il Sessantotto ne ha
una, è questa, come quella dell'anno dopo sarà costituita soprattutto
dai volantini distribuiti nelle fabbriche. Un'intera generazione si forma quasi
solo su di essi, e ne risentirà pesantemente i limiti. Tutti gli altri
saranno costretti ad adeguarsi, o tacere, per alcuni anni».
C'ERA UNA VOLTA IL REGOLAMENTO
Dalle
università l'agitazione si estese molto presto alle scuole medie superiori.
Un liceo simbolo del Sessantotto è il Mamiani di Roma. Una scuola frequentata
da figli della borghesia, di cui non staremo a fare la cronaca delle occupazioni
(che videro fra i protagonisti Paolo Liguori, allora detto «Straccio»,
leader di un gruppo che si chiamava «Gli Uccelli»), delle assemblee,
degli sgomberi e delle sospensioni: una cronaca che è uguale a quella
di tanti altri licei. È interessante, invece, cercare di capire lo stacco,
il «gap» si dice oggi, fra la struttura di una scuola come quella
-simile a molte altre scuole, se non a tutte- e i tempi nuovi che incombevano.
È sufficiente leggere stralci del regolamento del Mamiani di allora:
«1. Gli ingressi sono separati: le femmine entrino esclusivamente da via
Brofferio entro le ore 8.20, i maschi da viale delle Milizie 28 dalle ore 8.20
alle ore 8.35.
«2. Le professoresse invitino le ragazze a presentarsi decorosamente,
con il grembiule nero o bleu e a non usare rossetti e cosmetici.
«7. Su ogni registro di classe sia diligentemente compilata la pianta
dell'aula, e i maschi siano separati, per quanto è possibile, dalle femmine.
«9. Gli alunni, tranne in casi eccezionali, non possono recarsi nei gabinetti
prima delle ore 11.20.
«10. L'intervallo dura quindici minuti e si svolge dalle ore 11.20 fino
alle ore 11.36. Per quanto possibile gli alunni e le alunne siano tenuti divisi
durante l'intervallo per elementari norme igieniche».
Basterà confrontare queste norme con quanto, come abbiamo già visto, scrivevano gli hippy su «Onda Verde» o i ragazzi sulla «Zanzara», per rendersi conto di che razza di conflitto stava scoppiando.
UN CALCIO AL MONDO DEI PADRI
Il
fatto è che la protesta contro la «ventitré quattordici»,
contro le «baronie» degli accademici, contro un'università
ritenuta classista e strumento del capitalismo e contro una scuola ancorata
a schemi e regole antiquate, non fu -come detto- che il casus belli.
Fra i giovani covava soprattutto il desiderio di ribellarsi all'Italia nata
con il «boom» economico, a una società vista come ingessata
e bigotta, a un futuro personale che appariva già disegnato dai padri
su valori ben lungi dall'appagare le aspirazioni di un ventenne. Le «tre
emme» su cui molti genitori volevano impostare l'avvenire dei figli -mestiere,
moglie e macchina- si prospettavano come una gabbia soffocante.
C'era la voglia di dire basta a un modo di essere che molti giovani consideravano
ipocrita, formalista, egoista. Francesco Guccini scrisse una bellissima canzone:
Dio è morto. Diceva: «(...) ai bordi delle strade Dio è
morto, nelle auto prese a rate Dio è morto, nei miti dell'estate Dio
è morto. Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò
che spesso han mascherato con la fede (...) perché è venuto ormai
il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte
di abitudini e paura, una politica che è solo far carriera, il perbenismo
interessato, la dignità fatta di vuoto ... ».
La Rai la censurò, e fu la dimostrazione del bigottismo del tempo. Infatti,
subito dopo il niet della Rai, Dio è morto fu trasmessa
dalla Radio Vaticana: al di là del Tevere avevano capito la religiosità
di una canzone che, fra l'altro, finiva così: «Tutti ormai sappiamo
che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge, in ciò che noi
crediamo Dio è risorto, in ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
nel mondo che vogliamo Dio è risorto, Dio è risorto».
Voglia
di dare un significato all'esistenza. E, di conseguenza, anche voglia di cambiare
le abitudini di vita quotidiana. Racconta Tiziana Maiolo, ex giornalista del
«Manifesto» ed ex deputato di Rifondazione comunista:
«Per me il Sessantotto è stato davvero, e soprattutto, il ribaltamento
delle abitudini di ogni giorno. Regalai quello che avevo agli amici. Non per
spirito di carità, ma perché ero davvero convinta che stavamo
cambiando il mondo e che certe cose non erano più importanti. Io, che
venivo da una famiglia benestante, regalai gli anellini, che pure mi piacevano
e mi piacciono tuttora; regalai i foulard di Hermès, che andavano di
gran moda. Me ne andai di casa, e andai a vivere in due stanze di un vecchio
palazzo di ringhiera. Non me ne fregava più niente, dei soldi».
E il vicedirettore della «Stampa» Gad Lerner, allora di Lotta continua:
«Quel movimento ti faceva sentire adulto. A quattordici anni ci vedevamo
già grandi, a diciotto già uomini fatti e finiti».
Questa è la testimonianza di Primo Moroni, gestore della libreria Calusca
di Milano, punto di riferimento dell'estrema sinistra negli anni della contestazione:
«Nel 1968 ero un importante dirigente della Vallardi, con tre segretarie.
Guadagnavo benissimo. Mi dimisi. Me ne andai perché non sopportavo più
di essere complice del padrone. Ormai avevo dimostrato a me stesso che ero capace
anche di fare i soldi: così, in futuro non avrei mai più potuto
pensare di essere comunista solo per una rivalsa personale, solo perché
io, nato e cresciuto povero, non ero riuscito a entrare nel "giro"
dei ricchi.
Con i soldi della liquidazione aprii in un antico palazzo di Milano, in via
San Maurillo 14, il club "Si o si". Era una specie di agorà
non ideologizzato, aperto un po' a tutti. Con noi c'erano preti-operai, le prime
femministe, ma anche insegnanti, commesse, studenti di licei, professionisti,
persino qualche democristiano. Avevamo 3800 soci. Facevamo spettacoli, incontri,
dibattiti. Aprivamo alle 9 del mattino e chiudevamo alle 2-3 di notte. Danilo,
barman della buvette del Piccolo Teatro, allora occupato da attori e tecnici
per protesta contro la politica culturale di Paolo Grassi, ci portò molti
attori. Ricordo Randone, la Proclemer, Buazzelli. Ma il club serviva anche come
rifugio durante le manifestazioni. Per sfuggire alla polizia, ci si infilava
nel portone del palazzo, che era in centro, e quindi in un'ottima posizione
strategica».
VITA IN BRANCO
Cambiò
naturalmente il modo di abbigliarsi. Basta con le giacche e le cravatte, basta
con i capelli corti, si a jeans, barba e capelli lunghi, fazzoletti rossi annodati
sul collo. Anche le ragazze abbandonarono trucco e abiti ricercati, passando
pure loro ai jeans, e ai maglioni larghi e agli stivali.
Poco più tardi arriverà l'eskimo, impermeabile grigioverde di
stile militaresco, in fibra sintetica con interno in finto pelo.
Ha scritto Guido Viale nel suo libro Il Sessantotto tra rivoluzione e restaurazione:
«Si vive in branco; si mettono in comune non solo le case (chi ce l'ha)
e gli averi; ma anche il sapere e le proprie storie individuali: ma solo quello
che di esse si ritiene importante... Si vive, si mangia, si dorme (poco) insieme.
Si sciolgono e si ricompongono le coppie con una libertà prima sconosciuta».
Ha detto al «Corriere della Sera» (23 gennaio 1993) Giuseppe «Popi»
Saracino, allora uno dei leader del Movimento studentesco della Statale di Milano,
poi divenuto piccolo imprenditore:
«Mi sento ancora sessantottino, al cento per cento. (...) Mi sono rimaste
nel cuore le occupazioni delle facoltà, le notti con le ragazze».
Naturalmente in tutto questo ribaltone c'erano, accanto alla voglia di ideali
e alla sete di assoluto, anche desideri più terra terra. Avere in tasca
le chiavi di casa, non dover sopportare i genitori che rompono», passare
le giornate nel cortile dell'università invece che in biblioteca a studiare,
rivendicare come un diritto il «sei politico» (cioè la sufficienza
sempre e comunque), cambiare ragazza o ragazzo quando fa comodo, fare del sesso
quando si vuole.
Franco Piperno, allora leader del movimento romano, intervistato dal «Corriere
della Sera» il 10 gennaio 1993, ha parlato di «sensualità»
del movimento. E l'ex leader trentino Paolo Sorbi, oggi fra i più severi
critici di quell'esperienza, commenta: «Il vero dramma di quella generazione
è stato l'avere avuto un ragionamento, che viene poi dalla Scuola di
Francoforte e da altri filoni del marxismo rivoluzionario, sostanzialmente radical-borghese.
Ci fu una totale incapacità di capire cosa significassero parole come
felicità, verità, libertà, menzogna. La famosa sensualità
di cui parla Piperno è diventata stile di vita generalizzato di tantissime
fasce della realtà del Paese. L'esito vero del Sessantotto è una
secolarizzazione selvaggia, con un narcisismo nel modo di vivere».
ASSEMBLEA UBER ALLES
E
se certi comportamenti rivelarono la realtà di un opportunismo che spesso
ebbe il sopravvento sull'impegno sincero, lo stesso modo di condurre la protesta
tradì in breve tempo lo spirito bellicoso dei giovani del movimento.
I quali, lo abbiamo visto, dicevano di voler combattere soprattutto l'autoritarismo,
e invocavano una democrazia «dal basso», diretta, senza mediazioni
e senza mediatori. Il nuovo ordine, questa finalmente autentica democrazia,
sarebbe stato reso possibile dalla continua, praticamente perpetua convocazione
di assemblee. Da Trento a Torino a Milano a Roma a Napoli, gli studenti universitari
e quelli medi non riconoscevano altro sovrano che, appunto, l'assemblea. Tonnellate
di documenti certificano il rifiuto della democrazia per delega, cioè
il rifiuto di eleggere un rappresentante che amministri fino a una nuova verifica
elettorale. Non ci doveva essere nessuno ad amministrare e nessuno a decidere,
neanche se democraticamente eletto. In ogni momento e per ogni circostanza,
doveva essere l'assemblea a stabilire, a maggioranza, cosa si doveva fare e
cosa non fare.
Scrisse allora il cattolico Gabrio Lombardi: «So bene la suggestione che
esercita sui giovani la prospettiva della democrazia diretta. So bene che il
meccanismo della rappresentanza è quanto di meno entusiasmante si possa
immaginare. Ma la rappresentanza è il sistema meno peggiore che secoli
di storia abbiano saputo elaborare per far vivere in termini di libertà
vaste comunità di milioni di uomini. (...) Se la rappresentanza non è
entusiasmante, l'assemblea per contro è decisamente mistificatrice: dà
l'impressione di un'immediata partecipazione generale e diretta, ed è
invece il luogo tipico in cui una minoranza decisa e abile conduce come vuole
e dove vuole. L'assemblea è il preludio inesorabile della dittatura di
una minoranza o addirittura di uno solo».
E infatti così avvenne, in un certo senso. Dopo le primissime, spontanee
esplosioni «dal basso», fu chiaro che a guidare la rivolta non era,
come si voleva far credere, la massa degli studenti. Ma, al contrario, manipoli
di agitatori, soggetti più dotati e più astuti degli altri. Al
vecchio e odiato autoritarismo dei professori se ne sostituì quindi un
altro, spesso ancor più intollerante. Come ha scritto lo storico di sinistra
Paul Ginsborg nella sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi:
«Gli studenti non erano esenti da difetti; spesso erano presuntuosi, arroganti
e intolleranti; accettavano troppo facilmente l'uso della violenza come mezzo,
e non misero mai in discussione, per molto tempo, la natura dei valori maschili
dominanti. Le assemblee spesso non erano il modello di democrazia diretta che
avrebbero dovuto essere, dato che gli interventi contrari al punto di vista
della maggioranza venivano più di una volta interrotti o addirittura
neppure permessi. Fu questo che fece temere al filosofo tedesco Habermas, tra
gli altri, l'avvento di un "fascismo di sinistra"».
II - DA VALLE GIULIA IN POI
L'esordio
in grande stile di questo «uso della violenza come mezzo» di cui
parla Ginsborg è il 1° marzo 1968, giorno degli scontri di Valle
Giulia, a Roma.
Quegli scontri, ancora oggi, vengono registrati come «incidenti fra studenti
e polizia»: non si specifica quasi mai, insomma, chi attaccò e
perché; si ripete lo stereotipo dello studente disarmato che vuole solo
protestare, e della polizia brutale che interviene per reprimere.
Ecco però (dal libro L'Orda d'oro di Nanni Balestrini e Primo
Moroni) il racconto di una fonte insospettabile, Oreste Scalzone, che partecipò
alla «battaglia di Valle Giulia» e che sarebbe diventato, in seguito,
un leader dell'Autonomia:
«Avevano serrato la facoltà di architettura, che era dunque in
mano alla polizia. La sera, la notte, alla riunione del comitato d'agitazione
dell'università decidemmo che saremmo andati a riprenderla. Ci svegliammo
presto e andammo, orgogliosi di aver messo in piedi un embrione di servizio
d'ordine ... Arrivammo sotto quella scarpata erbosa e cominciammo a tirare uova
contro i poliziotti infagottati, impreparati, abituati a spazzar via le manifestazioni
senza incontrare resistenza. Quando caricarono, non scappammo. Ci ritiravamo
e contrattaccavamo, sassi contro granate lacrimogene, su e giù per i
vialetti e i prati della zona, armati di oggetti occasionali, sassi, stecche
delle panchine e roba simile. Qualche "gippone" finì incendiato,
ci furono fermi e botte da orbi .. ».
Alla fine della battaglia, si registrarono 148 feriti fra gli agenti di polizia
e 47 fra i dimostranti. Quattro gli arresti, duecento le denunce. Certo non
si era ancora alla violenza organizzata, ai servizi d'ordine ben armati e addestrati,
né tantomeno alle P38: ma Valle Giulia, come ricorda Scalzone, fu una
tappa importante perché per la prima volta, in quel 1968 costellato da
occupazioni e sgomberi, furono gli studenti a prendere l'iniziativa dell'attacco.
E se -sempre come rammenta Scalzone- «qualche "gippone" finì
incendiato», evidentemente le bottiglie molotov avevano già fatto
la loro comparsa.
La
battaglia di Valle Giulia fu orgogliosamente considerata dal movimento come
un punto d'onore, una dimostrazione del proprio coraggio e delle proprie possibilità
rivoluzionarie. Paolo Pietrangeli compose allora una canzone destinata a diventare
una sorta di inno degli studenti: si chiamava Valle Giulia, ma per
tutti il vero titolo era la frase del ritornello, che diceva «Non siam
scappati più».
Ma a Valle Giulia sono legati anche altri versi. Scandalizzando il mondo della
cultura (e della sinistra), Pier Paolo Pasolini compose una poesia divenuta
famosa. Era rivolta agli studenti, e diceva:
Adesso
i giornalisti di tutto il mondo
(compresi quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di essere stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo
anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità. (...)
REPRESSIONE?
Da
Valle Giulia in poi, i moti di piazza non furono più gli stessi. Cambiarono
slogan e scritte murali. Gli studenti che all'inizio gridavano di volere «L'immaginazione
al potere» e che minacciavano «Una risata vi seppellirà»,
passarono ai più bellicosi: «Na-na-na-na-na-NAPALM!» e «Fascisti,
borghesi, ancora pochi mesi», oltre al militante «Viva Marx, viva
Lenin, viva Mao Tze Tung».
Cambiò anche l'atteggiamento di chi andava in corteo. I vecchi leader
del Sessantotto, esclusi quelli «pentiti», sostengono che la repressione
fu durissima, e che se nelle manifestazioni fecero la loro comparsa i servizi
d'ordine armati fu solo per difendersi dagli attacchi brutali della polizia.
Sta di fatto però, ad esempio, che gli arrestati di Valle Giulia furono
rilasciati subito dopo su pressione del governo, che diede incarico al rettore
D'Avack di riaprire l'Università di Roma. Gli studenti che il 1°
marzo avevano attaccato architettura per cacciare la polizia e far cessare la
serrata avevano dunque ottenuto il loro scopo.
E fu sempre un rappresentante del governo, il nuovo ministro della Pubblica
Istruzione Sullo, in dicembre, a condonare i provvedimenti disciplinari emessi
dal liceo Mamiani contro i duecento studenti protagonisti delle occupazioni.
E sta di fatto anche che nel 1968 la reazione della polizia e del governo italiano
fu di gran lunga meno dura di quanto avvenne in tutti gli altri Paesi del mondo.
Ad esempio, in Francia. Durante il «mitico maggio», gli studenti
occuparono strade e piazze, innalzarono barricate, incendiarono centinaia di
macchine. Solo durante gli scontri al Quartiere Latino, ci furono 123 feriti
fra i poliziotti e 1500 fra i civili (compresi molti passanti). Ma quando De
Gaulle decise che era venuto il momento di ripristinare l'ordine («La
chienlit c'est finie», la carnevalata è finita, disse) a Parigi
arrivarono i carri armati. Undici organizzazioni politiche furono messe al bando,
115 stranieri fra cui il tedesco Daniel Cohn-Bendit detto «Dani il rosso»,
capo del «Movimento 22 Marzo» e fra gli ispiratori della rivolta,
furono espulsi; il Parlamento venne sciolto per indire nuove elezioni, che si
rivelarono un trionfo per «il generale». In un mese di scontri,
furono cinque i morti fra i manifestanti. Urlavano gli studenti francesi durante
l'occupazione della Sorbona: «Ce n'est qu'un début, continuons
le combat», non è che l'inizio, continueremo a combattere. Ma il
loro Sessantotto durò poco più di trenta giorni.
E non durò molto di più in Germania o in Spagna, dove fu dichiarato
lo stato d'emergenza. O a Città del Messico, dove il 3 ottobre in piazza
delle Tre Culture la polizia aprì il fuoco con le mitragliatrici su diecimila
studenti in manifestazione: i morti furono trecento. Il 20 gennaio 1969, a Tokio,
la polizia entrò nell'università occupata e fece settecento arresti.
E non parliamo di ciò che accadde a Praga durante la famosa «primavera».
Solo in Italia il Sessantotto è durato più di dieci anni.
Certo sarebbe ingenuo spiegare la longevità della contestazione italiana
con la non eccessiva durezza della risposta delle istituzioni; e sarebbe criminale
dolersi del fatto che in Italia la polizia picchiò e sparò meno
che altrove. Ma resta il fatto che da noi la risposta dello Stato alla contestazione
fu meno dura che all'estero, e parlare di repressione è esagerato. Senz'altro
le forze dell'ordine italiane reagirono in alcuni casi con durezza eccessiva
o anche sciagurata: ma non nei primi mesi del 1968, non all'inizio della protesta.
E comunque non si può sostenere che quella del «movimento»
fu solo una violenza di legittima difesa. Una volta ideologizzata e incanalata
nei binari del marxismo-leninismo o del maoismo, la protesta non poté
che diventare rivoluzionaria e, quindi, aggressiva e violenta.
Ma di questo parleremo più avanti.
CAPANNA E LE SUE MASSE
Torniamo
al dopo-Valle Giulia. Il 10 e l'11 marzo all'Università Statale di Milano
ci fu uno storico «Convegno nazionale degli studenti in lotta».
«Storico» perché segnò un passaggio importante del
movimento degli studenti. Ha scritto Guido Viale: «Il convegno di Milano
è importante, non tanto per le cose che si dicono, ma perché con
esso il movimento si pone dichiaratamente al di fuori del sistema politico italiano;
fuori e contro la logica parlamentare e la mediazione di partiti e sindacati».
La relazione introduttiva venne tenuta dagli studenti milanesi di architettura,
quella principale dai trentini. L'assemblea decise, per la prima volta, di intervenire
politicamente sulla classe operaia, saltando i sindacati. Cominciò così
l'epoca degli «studenti e operai uniti nella lotta».
Il
25 marzo fu un'altra giornata storica. Per la prima volta, fu Milano ad assistere
a un grande scontro fra studenti e polizia. Accadde in largo Gemelli, di fronte
all'ingresso dell'Università Cattolica.
Tre giorni prima la polizia aveva sgomberato lo stesso ateneo, la Statale di
via Festa del Perdono e il Politecnico. Tutte e tre le università rimanevano
temporaneamente chiuse.
Il pomeriggio del 25 gli studenti si piazzarono davanti all'ingresso della Cattolica.
Li guidava lo studente Mario Capanna, già espulso dalla stessa università
insieme con altri due studenti, Luciano Pero e Michelangelo Spada. Megafono
in mano, Capanna intimò ai poliziotti di andarsene («Avete cinque
minuti di tempo per sciogliervi») e avvisò il rettore che aveva
un quarto d'ora per riaprire l'università: «Altrimenti provvediamo
noi».
E infatti, trascorso inutilmente il quarto d'ora, gli studenti cercarono di
sfondare i cancelli. Intervenne la polizia e furono scontri durissimi, al termine
dei quali rimasero feriti 86 agenti e 30 studenti. Capanna e altri compagni
vennero fermati e portati nelle celle di sicurezza della questura. Un fermo
di poche ore: alle due di notte furono rimessi tutti in libertà, e la
mattina dopo poterono partecipare a un'altra grande manifestazione, in piazza
Duomo.
Ma
chi era, questo Capanna? Protagonista dell'occupazione della Cattolica del 17
novembre '67 (prima protesta: per l'aumento delle tasse universitarie) e poi
della Statale (l'ateneo pubblico, a Milano, fu tranquillo finché non
arrivò lui), è forse considerato oggi l'uomo-simbolo di quegli
anni, che lui chiama «formidabili». E' ed era dotato di buona cultura,
ma non fu uno dei cervelli del movimento: da questo punto di vista, altri leader
del Sessantotto gli furono senz'altro superiori. Ad esempio Guido Viale, Mauro
Rostagno e soprattutto Adriano Sofri, studente della Normale di Pisa e futuro
numero uno di Lotta continua.
Capanna, tuttavia, era dotato di un carisma particolare, adattissimo, per quegli
anni, a trascinare gli studenti. O, come amava dire lui, «le masse».
Barba, kefiyeh palestinese al collo, mantello nero e immancabile megafono in
mano, era il vero «capo» delle assemblee, anche se ha sempre rifiutato
questa etichetta. Parlava con la sua «bella voce fonda, perentoria e scandita,
nella quale par di sentire non solo i punti, non solo le virgole, ma anche i
punti e virgola», ha scritto Camilla Cederna riprendendo un'idea di Oreste
del Buono. E la gente lo seguiva.
Veniva da Badia Petroia, 476 abitanti, provincia di Perugia. L'agiografia ufficiale
lo voleva proveniente da una famiglia poverissima, orfano di un fabbro e fratello
di un meccanico di biciclette. In realtà il padre, morto quando lui aveva
sette anni, era un meccanico, e la famiglia era proprietaria di un bar, di un'officina
per la riparazione di auto e trattori e di una stazione di servizio della Shell.
Alla Cattolica, di Milano arrivò con due lettere di raccomandazione:
una del vescovo monsignor Luigi Cicuttini, l'altra del parroco del suo paese,
don Giuseppe Bologni. «Era il migliore della parrocchia,» raccontò
don Giuseppe al «Corriere d'Informazione» in un'intervista nel 1973,
«una fede come pochi altri. Faceva la comunione tutte le domeniche e spesso
anche nei giorni feriali, era felice di servire la messa. Si confessava da me
e dopo passavamo pomeriggi interi a parlare all'oratorio.»
Una volta arrivato a Milano, dal cattolicesimo passò presto al dissenso
cattolico; poi alle massime di Mao («Ribellarsi è giusto»).
Ripeteva instancabilmente: «Sono le masse popolari che fanno la storia
e non gli uomini e i duci». Dallo Stato, riceveva il presalario: 360 mila
lire (di allora) all'anno.
Capanna ha ricordato e raccontato molte volte le sue lotte di quegli anni. Ma
più che il linguaggio delle rievocazioni vale quello immediato, diretto,
dell'epoca. Ecco cosa pensava e diceva allora Capanna sull'università
e sul movimento degli studenti. Sono stralci di un'intervista rilasciata alla
«Domenica del Corriere» dell'11 marzo 1969:
«Il movimento nasce non tanto come movimento di contestazione universitaria,
per un miglioramento della scuola, bensì come un movimento che dalla
scuola prende consapevolezza dei problemi sociali, di sfruttamento e di alienazione
che ci sono (...).
«Noi diciamo che (l'università) è classista per due motivi:
primo perché esclude da sé la stragrande maggioranza della popolazione
giovanile (nel sistema sociale in cui viviamo l'85 per cento della popolazione
universitaria proviene dalle classi agiate...); secondo perché alleva
in modo classista quella parte di studenti che vi entra. Vi si insegna, infatti,
soprattutto con criteri atti ad imparare a ubbidire oggi per comandare domani.
L'esame è una forma di imposizione, lo stesso la lezione cattedratica».
Ed ecco la soluzione che Capanna proponeva:
«Una radicale trasformazione dell'università è impossibile
senza un analogo e contemporaneo radicale mutamento dei sistema sociale: ecco
il binomio "contestazione globale", e subito dopo rivoluzione. Cioè
rovesciamento dei rapporti di potere, cioè abbattimento del capitalismo.
Il problema di fondo è uno solo, cioè fare la rivoluzione, in
quanto essa è l'unico strumento valido per mutare radicalmente i rapporti
di potere. (...) Gli studenti non potranno mai farla da soli, ma solo insieme
con gli operai, con i contadini, con il ceto medio che si sta proletarizzando.
(...)
«Auspichiamo una società di tipo dichiaratamente socialista, ove
per socialismo non si intenda che ci riferiamo a Paesi oggi esistenti, i cosiddetti
Paesi socialisti dell'Est europeo. (...) Siamo per un socialismo che riusciamo
a definire in alcuni suoi elementi abbastanza generici. La definizione concreta...
di esercizio del potere, uscirà nel corso della lotta.(...) Il marxismo,
nella sua accezione più vasta, da Marx a Mao fino a Fidel Castro anche,
è a tutt'oggi la teoria più scientifica, più plausibile,
più realistica, se vogliamo la più semplice, per chi voglia rendersi
ragione fino in fondo dei complessi problemi della società attuale».
IL PCI E I NIPOTI RIBELLI
Per
creare la società comunista Capanna, così come l'intero movimento,
non contava certo sul Pci.
I giovani, che pure accettavano il marxismo o le sue rielaborazioni, vedevano
nel grande, vecchio Partito comunista una sorta di relitto storico o, nel migliore
dei casi, uno strumento inadeguato alle loro lotte.
Diffusa era poi la convinzione che il Pci avesse tradito gli ideali della Resistenza,
rinunciando alla promessa rivoluzione che avrebbe portato il socialismo in Italia.
Il Pci, dicevano quelli del movimento, si era convertito al riformismo, e anzi
era ormai inquinato da una mentalità borghese.
E il Pci, come reagì? La storia di quel periodo che noi chiamiamo Sessantotto
e che abbraccia dieci anni, è una storia di incomprensioni e spesso di
scontri violenti fra il Partito comunista e i giovani dei vari movimenti extraparlamentari.
Ma all'inizio della contestazione a Botteghe Oscure quegli «scalmanati»
erano visti di buon occhio, dato che la protesta era comunque «di sinistra»,
e bisognava cercare di cavalcarla. I giovani vennero blanditi, nella convinzione
che poi, con un «lavoro politico», sarebbero stati completamente
ricondotti nella migliore tradizione del partito di Gramsci e di Togliatti.
Scrisse il segretario nazionale Luigi Longo su «Rinascita» del 3
maggio 1968: «Io non considero affatto come un arbitrio, come un qualche
cosa che non spetta agli studenti in quanto tali, passare dalle considerazioni
dei loro problemi più specifici a quelli più generali della rivoluzione
italiana. Al contrario, questa estensione del proprio campo di indagine e di
lotta è del tutto naturale, da salutare e da incoraggiare».
Ancora alla fine del 1968, dopo i gravissimi incidenti alla Bussola di Viareggio
(di cui parleremo più avanti), il Pci aveva preso le difese degli estremisti,
tanto da meritarsi un rimbrotto addirittura dall'«Avanti!»: «Non
li invitiamo [i comunisti] a dire che cosa pensino della politica di sistematica
persecuzione che in molti Paesi comunisti, e nell'Urss in primo luogo, si va
svolgendo contro i movimenti giovanili di protesta. Ci limitiamo a domandare
loro se essi credono sul serio che la contestazione giovanile abbia sempre e
comunque ragione, quali ne siano le forme, i modi e gli obiettivi ... »
scrisse il quotidiano socialista.
Ma
all'interno del Pci c'era una spaccatura sulla posizione da prendere. Una buona
parte, forte anche del fatto che il Pc francese aveva subito preso le distanze
dagli estremisti di maggio, volle esprimere chiaramente la propria disapprovazione
nei confronti dei «sessantottini».
A rendere palese questa spaccatura fu Giorgio Amendola, esponente dell'ala moderata
del partito, con un articolo pubblicato su «Rinascita» del 7 giugno
1968 e intitolato Necessità della lotta sui due fronti.
«Bisogna notare» scrisse Amendola «una nostra debolezza nel
condurre una lotta coerente contro le posizioni estremiste e anarchiche affiorate
nel movimento studentesco, e di qui diffuse anche in certi settori del movimento
operaio. In realtà tutto il nostro fronte di sinistra è restato
a lungo scoperto, per il modo debole e incoerente con il quale viene condotta
la lotta sui due fronti. Ora la lotta sui due fronti è una necessità
permanente del movimento comunista. La lotta contro l'opportunismo socialdemocratico
è efficace se essa viene accompagnata da un'azione coerente contro il
settarismo, lo schematismo e l'estremismo.»
Amendola contestava «la tesi, che solletica la vanità di certi
strati studenteschi, di una pretesa iniziativa rivoluzionaria che spetterebbe
al movimento studentesco», e sosteneva che il Pci doveva «richiamare
e valorizzare, davanti a un rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie
posizioni anarchiche, il patrimonio ideale che abbiamo accumulato in decenni
di dure esperienze. (...) Già Lenin aveva ammonito a non giocare con
l'insurrezione!».
Né il pur moderato Amendola accettava -a proposito di Lenin- la posizione
dei sessantottini sul socialismo reale dell'Urss: «Ora v'è un tratto
che lega le varie posizioni estremiste ed anarchiche: ed è, più
che la critica, che a volte può essere doverosa, la polemica astiosa
e calunniosa antisovietica. Quando a Pechino la manifestazione dei giovani in
solidarietà con gli studenti francesi si muove dietro uno striscione
nel quale si dichiara la volontà di lottare "contro gli Stati Uniti
e contro l'Unione Sovietica", ebbene si compie un'azione assurda, e noi
non possiamo permettere che senza una nostra resistenza simili calunnie penetrino
nel movimento giovanile, circolino fra i lavoratori, creino nuovi motivi di
confusione e di divisione».
Amendola chiuse l'intervento su «Rinascita» sostenendo che la funzione
del Pci era quella di «indirizzare questa forza in un senso giusto».
La funzione di guidare la protesta dei giovani, diceva Amendola, «spetta,
storicamente, al Partito comunista».
Fu giudicato incauto, ai vertici del Pci, quell'intervento di Amendola, che
si poneva a muso duro di fronte agli studenti. Passò solo una settimana
e «Rinascita» diede al segretario Longo l'opportunità di
una replica.
«Il nostro Comitato centrale» disse Longo «ha già definito
chiaramente la posizione da prendere nei confronti del movimento studentesco:
considerarlo come un momento e un aspetto della lotta e del movimento anticapitalistici,
di cui deve essere apprezzato l'apporto che può dare e l'autonomia di
organizzazione e di iniziativa, che deve essere rispettata e che costituisce
la condizione di sviluppo del movimento stesso».
Longo apriva il «dialogo» (parola sua) con il movimento. O meglio,
reagiva duramente a chi, all'interno del suo partito, questo dialogo voleva
condurlo stando dalla parte del maestro pronto a bacchettare sulle dita gli
alunni.
Più tardi il Pci cercò di negare l'appoggio dato al movimento,
e di far dimenticare i suoi tanti tentativi di blandirlo. Intervistato dal «Corriere
della Sera» il 10 gennaio 1993, l'ex leader del movimento studentesco
romano ed ex fondatore di Potere operaio Franco Piperno, quando gli fu chiesto
se il Pci, almeno in una prima fase, offrì aiuto al movimento, rispose:
«Altroché. Ricordo che una volta al Comitato d'agitazione viene
Occhetto e fa un discorso. E ricordo che Pajetta critica parecchio la nostra
espulsione. All'inizio ci mettono a disposizione la sede della Federazione per
ciclostilare, per le riunioni. Ci danno l'assistenza legale in caso d'arresto.
Anche i radicali ci aiutano, ma non c'è paragone in quantità».
DA VALDAGNO AD AVOLA
Le
maniere forti, nel 1968, la polizia le usò, molto più che con
gli studenti, durante le manifestazioni operaie.
La prima lotta operaia del Sessantotto (che nelle fabbriche comincerà
nel 1969, soprattutto con l'autunno caldo) non scoppiò in una grande
metropoli, non scoppiò nel tradizionale triangolo industriale Torino-Milano-Genova,
ma sulle colline venete, a Valdagno. Alla periferia, dunque, dell'impero industriale.
A promuoverla furono gli operai della Marzotto, industria tessile fondata nel
1836. Le cose erano sempre andate bene fino a quando, per citare ancora lo storico
di sinistra Paul Ginsborg, «la famiglia Marzotto l'aveva diretta con criteri
paternalistici di stampo cattolico». Ma poi, scrive ancora Ginsborg, «a
questa lunga tradizione cominciò ad affiancarsi, nel corso degli anni
'60, una profonda ristrutturazione dell'organizzazione del lavoro. Come avvenne
in tante altre fabbriche, i ritmi di lavoro crebbero dopo l'introduzione dell'analisi
tempi e metodi, i premi del cottimo divennero meno accessibili, i salari reali
diminuirono e l'amministrazione minacciò circa 400 licenziamenti».
Al rischio di perdere il posto, gli operai reagirono il 19 aprile con una grande
manifestazione: quattromila dimostranti, in maggioranza donne, attraversarono
Valdagno in corteo e abbatterono la statua del conte Gaetano Marzotto. La polizia
intervenne arrestando quarantadue dimostranti. Il consiglio comunale di Valdagno
-compresa la Dc, che aveva la maggioranza- chiese l'immediata scarcerazione
degli operai arrestati e l'intervento del governo per salvare i posti di lavoro
in pericolo.
Molto
più gravi furono i fatti di Avola, provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre
si svolse una manifestazione di diecimila braccianti, che chiedevano il rispetto,
da parte degli agrari, delle norme previste dal contratto di lavoro. I dimostranti
bloccarono le strade d'accesso alla città. La polizia, arrivata in forze
da Catania e da Siracusa, sparò uccidendo due braccianti, Giuseppe Scibilia
di quarantasette anni e Angelo Sigona di ventotto. Il giorno dopo, in tutta
Italia, cortei di protesta e di condanna.
Ma i fatti di Avola e Valdagno sembrano inseriti, più che nel Sessantotto,
nel contesto di una tradizione precedente, quella degli interventi, appunto,
della polizia durante le manifestazioni operaie. Sembrano più il retaggio
di un vecchio modo di rispondere alle istanze degli operai: un modo a cui non
era ovviamente estraneo l'atteggiamento di una buona parte dell'imprenditoria
italiana, che negli anni Sessanta aveva spesso peccato di ingordigia. Non a
caso Mario Capanna, commentando a distanza di vent'anni i fatti di Avola, ha
scritto che gli sembrò, allora, che «si fosse tornati ai tempi
bui di Scelba». A qualcosa, insomma, del passato.
L'ASSALTO AL «CORRIERE DELLA SERA»
In
pieno stile «sessantottino», e anzi in pieno stile di quella che
sarebbe poi stata la degenerazione del Sessantotto, fu invece -il 7 giugno-
l'assalto alla sede del «Corriere della Sera».
Il «Corriere», che dal mese di febbraio era diretto da Giovanni
Spadolini, era ancora il tradizionale giornale della borghesia milanese, oltre
che l'unico vero quotidiano a diffusione nazionale. Non aveva accolto con molta
simpatia i moti di piazza; così come, durante la precedente gestione
(direttore: Alfio Russo), non aveva guardato con simpatia ai primi contestatori:
gli «hippy», i «beat», i «figli dei fiori»,
giovani ancora non ideologizzati che il «Corriere» chiamava, con
un certo disprezzo, «capelloni».
All'inizio di giugno i nuovi contestatori, che avevano già sostituito
i vecchi slogan «Fate l'amore non fate la guerra» e «Dipingi
di giallo il tuo poliziotto» con altri motti meno innocui, decisero di
impedire, per un giorno, l'uscita del «Corriere». Allora le rotative
erano ancora nella stessa sede della redazione, nella centralissima via Solferino:
e da lì, di notte, partivano i camion carichi di giornali da portare
alle edicole e alle stazioni ferroviarie.
Il piano era quello di boicottare la spedizione del «Corriere».
Scattò nella notte fra il 7 e l'8 giugno: furono ore di guerriglia, e
si conclusero con undici arresti e 250 fermi.
Uno dei protagonisti dell'assalto al «Corriere», Andrea Valcarenghi,
nel suo libro Underground: a pugno chiuso!, ha spiegato che l'azione
fu decisa durante una riunione ristretta, una dozzina di persone in tutto, e
ha aggiunto che la notizia era comunque trapelata, fino ad arrivare alle orecchie
della polizia, che ebbe tempo di preparare la controffensiva. Si decise così
di tenere segrete almeno le modalità dell'attacco, e di modificare il
classico schema raduno-corteo-occupazione. Da piazza Duomo partirono verso via
Solferino circa tremila studenti.
«Dovevamo avere tutto: catenelle per unire le auto in mezzo alla strada,
razzi di segnalazione, biglie per ostacolare le cariche dei pi-esse» ha
raccontato Valcarenghi.
«Alle 23.20 un razzo luminoso parte da largo Treves e scoppia in cielo:
è il segnale. In cinque o sei incominciamo a mettere le auto in mezzo
alla strada. (...) In qualche minuto la barricata è fatta: cinque auto
incatenate per i paraurti e noi dietro a preparare le bottiglie. L'ordine era
di non tirare ai poliziotti. Le bottiglie dovevano servire a incendiare le barricate
per ritardare le cariche dei pi-esse, coprirci la fuga e avere il tempo di ricostruire
una seconda barricata con le auto più indietro e così via. Da
via Solferino a tutto il centro, Milano doveva essere messa a ferro e fuoco,
ma il "Corriere" non sarebbe uscito.
«Ecco la carica: (...) si vedono avanzare i "carruba" roteando
le bandoliere. Sono in pochi, una cinquantina e forse è anche per questo
che prima esitavano. Da dietro le auto parte una raffica di porfidi sbucati
da chissà dove. (...)
«Fino alle quattro del mattino abbiamo impegnato il battaglione "Padova",
il terzo celere di Alessandria, insomma i migliori, quelli specializzati nel
pestaggio degli operai. Certo non è stata una vittoria completa. Il "Corriere
della Sera" ricoperto di teloni di garza plastica antisasso, che la direzione
aveva acquistato dopo la dichiarazione di guerra, non era stato conquistato.
E i giornali, seppure su camioncini resi anonimi da una mano di vernice sulla
scritta "Corriere della Sera", uscirono alle cinque del mattino...
Ma almeno quattro ore di ritardo eravamo riusciti a procurargliele.»
CAVALLERO BANDITO ROSSO
L'esaltazione
della guerriglia e della violenza rivoluzionaria stavano dunque già contagiando
il movimento degli studenti. E non solo quello. Ne è una dimostrazione
il «caso Cavallero».
Pietro Cavallero -ex operaio della «barriera» torinese ed ex dirigente
di una sezione del Pci- insieme con i complici Adriano Rovoletto, Sante Notarnicola
e il giovanissimo Donato Lopez, il 25 settembre 1967 aveva guidato la più
sanguinosa rapina del dopoguerra, un massacro che poi ispirò un famoso
film, Banditi a Milano.
Cavallero e la sua banda avevano portato a termine l'ennesimo «colpo»
della loro carriera: a un'agenzia del Banco di Napoli nei pressi della Fiera.
Nel tentativo di sfuggire alla polizia, i banditi fecero fuoco sulla folla,
uccidendo quattro persone e ferendone altre venti. Rovoletto, a sua volta ferito,
fu arrestato immediatamente; Lopez fu catturato il giorno seguente, Cavallero
e Notarnicola il 3 ottobre.
Sui giornali Cavallero fu descritto come «l'assassino che ride»,
perché si diceva che «sghignazzava» quando sparava. Vero
o no che fosse, certo è comunque che la sua banda aveva all'«attivo»
numerose rapine, dal '64 in poi, con un omicidio (il 16 gennaio 1967 uccise,
sempre in una rapina, il dottor Giuseppe Gaiottino, medico condotto di Ciriè)
e diversi ferimenti. Mai, però, si era dato alle imprese della banda
Cavallero un significato politico.
Ma il 4 giugno 1968, in pieno clima di «contestazione globale»,
davanti alla Corte d'assise che processava lui e i suoi complici, Pietro Cavallero
fece pubblica dichiarazione di fede nel comunismo, e disse che le rapine servivano
per finanziare la rivoluzione.
«Ero giunto alla determinazione» disse Cavallero ai giudici «di
attaccare le banche per raccogliere fondi per le future azioni e, nello stesso
tempo, compivo un attacco al capitale, al servizio più chiaro del capitalismo
finanziario e a quelle forze dell'apparato repressivo, poliziesco, che è
al servizio del sistema, per dimostrarne l'impotenza.»
E ancora: «C'era la necessità assoluta di portare la nostra sfida
a quelli che consideravo i miei avversari: la polizia e il capitalismo».
Cavallero, Notarnicola e Rovoletto furono condannati all'ergastolo l'8 luglio
1968. Alla lettura della sentenza scattarono in piedi intonando un canto anarchico.
Negli anni successivi Pietro Cavallero ha manifestato più volte -anche
con i fatti- il proprio pentimento.
UOVA ALLA SCALA, PIOMBO ALLA BUSSOLA
Due
manifestazioni chiusero il 1968: la più famosa è quella organizzata
in piazza Scala a Milano dal Movimento studentesco della Statale la sera del
7 dicembre, festa di Sant'Ambrogio, patrono della città; l'altra, meno
ricordata nelle rievocazioni del Sessantotto, ma maggiormente foriera di conseguenze
a causa del suo tragico epilogo, è quella della notte di Capodanno alla
Bussola di Viareggio.
La «prima» della Scala era un'occasione da non perdere, per Mario
Capanna e i giovani universitari «impegnati». Appena cinque giorni
dopo i fatti di Avola, tutta la Milano-bene si sarebbe riversata al tempio della
lirica più per far sfoggio di pellicce e gioielli che non per gustare
il Don Carlos di Giuseppe Verdi. infatti i veri melomani, quella sera, erano
ben pochi: come sempre accade la sera della «prima».
In piazza Scala si diedero appuntamento tre-quattrocento studenti («Una
miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione»
commentò poi Capanna) sfidando freddo e umidità. Ai primi arrivi
dal gruppo degli studenti si alzò un cartello: «I braccianti di
Avola vi augurano buon divertimento». Passarono solo pochi attimi, e cominciò
il lancio di uova e cachi: le cronache dell'epoca assicurano che furono molti
i capi di sartoria rovinati, se non per sempre, almeno per la sera per cui erano
stati concepiti.
La polizia, pure presente in forze, non reagì. Capanna attribuisce la
mancata carica alla sua capacità di persuasione. Impugnando il solito
megafono, il leader del Movimento studentesco aveva arringato i poliziotti,
dicendo che non ce l'avevano con loro, e che anzi volevano farli riflettere
sul fatto che, in cambio di un misero stipendio, dovevano stare lì al
freddo a difendere i ricchi, «quelli che vi hanno costretti ad abbandonare
il paese e che affamano le vostre famiglie».
«La maggior parte di voi viene dal Sud» aveva urlato Capanna «e
sappiamo quanto la vostra vita sia difficile. Avete dovuto vestire la divisa
per il pane. Cinque giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti,
dove magari c'erano i vostri padri o i vostri fratelli. Lottiamo insieme, e
insieme con i lavoratori, per avere giustizia».
Capanna giura che un poliziotto andò ad abbracciarlo piangendo e confidandogli
«Sono di Lentini», un paese vicino ad Avola. Andrea Valcarenghi,
pure presente, ha scritto che «non si capiva bene fino a che punto fosse
pioggia quel bagnato che inumidiva gli occhi di molti agenti».
Fatto sta che la manifestazione si concluse senza incidenti, e che quella contestazione
della «prima» della Scala è rimasta nella storia del Sessantotto
come uno dei momenti di maggior consenso o quanto meno di minor dissenso, raggiunti
dal movimento. Indro Montanelli e Mario Cervi, certo non sospettabili di simpatie
extraparlamentari e fortemente critici verso il Sessantotto, nel loro libro
L'Italia degli anni di piombo hanno attribuito «una connotazione
goliardica» al «lancio di pomodori e uova contro gli spettatori
che s'avviavano alla rappresentazione inaugurale della Scala, il giorno di Sant'Ambrogio
del 1968». «Lo scandalo» hanno scritto Montanelli e Cervi
«fu grande, ma qualcuno poté trovare l'iniziativa divertente, anche
se aveva colpito uno dei simboli sacri di Milano».
Senza incidenti si chiuse anche l'ultima iniziativa di Capanna prima della fine
del 1968: il sit-in davanti alla Rinascente di Milano, per protestare contro
le eccessive spese natalizie, dettate dai «bisogni indotti» dalla
mentalità capitalistica.
Molto
peggio, purtroppo, andarono le cose alla Bussola di Viareggio.
Lo scopo della manifestazione, indetta da il Potere Operaio (organizzazione
diversa dal Potere operaio degli anni successivi), era lo stesso: contestare
lo spreco di denaro che si faceva per una mondanità qual era -al pari
della «prima» della Scala- il veglione di Capodanno.
La Bussola era ed è un famoso locale notturno. La zona in cui sorge aveva
allora particolare rilevanza «politica», essendo non lontana da
Pisa, centro attivissimo della contestazione anche e soprattutto per la presenza,
appunto, de Il Potere Operaio, uno dei primi gruppi a tentare di stabilire contatti
fra scuole e fabbriche. Co-fondatore de Il Potere Operaio era Adriano Sofri.
Sempre a Pisa uscì in quegli anni una rivista che ebbe un ruolo non marginale,
«Nuovo Impegno», diretta dall'ex redattore dell'«Avanti»
Luciano Della Mea e dagli assistenti della Normale Umberto Carpi e Romano Luperini.
E quella è anche la zona dove dal 1966 operavano i primi «cinesi»
d'Italia, Fosco Dinucci e Osvaldo Pesce (a Livorno), e da sempre gli anarchici
(a Carrara).
La contestazione alla Bussola era stata ampiamente annunciata a Pisa e in molti
centri della Versilia con centinaia di volantini. «Gli sfruttatori, i
potenti, i parassiti (sono) pronti a sfoggiare la ricchezza accumulata sulla
miseria e sul lavoro altrui, a sprecare in una sera quanto basta a migliaia
di famiglie per vivere un anno intero» era scritto sul volantino de Il
Potere Operaio del 29 dicembre 1968. E su quello del giorno dopo si esortava:
«Ebbene, compagni, festeggiamoli questi nostri padroni, andiamo tutti
alla Bussola, alla Capannina, da Oliviero, a vederli sfilare con le loro signore
col vestito nuovo da mezzo milione, a consumare una cena da 50 mila lire, annaffiata
da 50 mila lire di champagne. Ai grassi padroni e alle loro donne impellicciate
vogliamo quest'anno porgere personalmente i nostri auguri. Sarà solo
un piccolo simbolico omaggio ortofrutticolo, per prepararli a un 1969 denso
di ben altre emozioni».
Ma non fu, come alla Scala, solo «un piccolo omaggio ortofrutticolo».
Gli scontri furono durissimi: da una parte circa cinquecento dimostranti, dall'altra
cinquanta carabinieri e cinque poliziotti. Finì con cinquantacinque fermi,
con otto automezzi delle forze dell'ordine bruciati o danneggiati, con numerose
auto di privati rovesciate, con barricate, lanci di sassi. Soprattutto, con
una pallottola nella schiena dello studente sedicenne Soriano Ceccanti, di Pisa,
che rimase paralizzato.
Dicono le cronache di allora che i «contestatori» avevano cominciato
a lanciare ortaggi e uova contro i clienti della Bussola, e che i carabinieri
-«in normale assetto, cioè senza elmetti e senza tascapane per
le bombe lacrimogene»- erano rimasti ai margini, senza intervenire. Le
cose precipitarono quando i dimostranti aggredirono un fotografo e i due carabinieri
intervenuti in suo soccorso. Lì cominciò tutto: il lancio di pietre,
le vetrate del locale in frantumi, le auto e le barche incendiate con le bottiglie
molotov, le barricate. E infine la pallottola che colpì Soriano Ceccanti.
Chi fu, a sparare? Il giorno dopo il questore di Lucca Mario Bernucci e il comandante
del gruppo dei carabinieri, colonnello Giulio Caroppo, diffusero un comunicato
per assicurare: «Le forze dell'ordine non hanno fatto uso delle armi».
Caroppo aggiunse che, la sera stessa, appena saputo del ferimento di Ceccanti,
ordinò un'ispezione sulle armi di tutti i carabinieri presenti alla Bussola:
«Le dotazioni di cartucce erano intatte, le canne non rivelavano tracce
di polvere da sparo». «Dalle testimonianze raccolte, potemmo appurare
che parecchi colpi di arma da fuoco erano stati esplosi invece dai manifestanti»
aggiunse.
Una testimonianza in tal senso la diede il 1° aprile 1969, in tribunale,
il benzinaio Roberto Calistri, che gestiva una pompa di fianco alla Bussola.
Disse che un paio di colpi di arma da fuoco colpirono il suo chiostro: «Non
ho visto chi avesse sparato, ma sono sicuro che i colpi venivano dalla barricata».
E anche Sergio Bernardini, proprietario della Bussola, disse di aver visto sparare
dalla parte dei manifestanti, aggiungendo però di ritenere che fossero
«colpi a salve».
Un altro testimone, l'aiutante ufficiale giudiziario Bigicchi, disse invece
di aver visto «un agente della polizia stradale trarre dalla fondina la
rivoltella e fare fuoco in aria, cinque o sei volte. Altri colpi, una trentina,
furono esplosi dai suoi compagni sul piazzale del distributore di benzina accanto
alla Bussola». Gli agenti della stradale smentirono seccamente. Altre
persone presenti alla manifestazione si dissero invece certe che a sparare furono
le forze dell'ordine.
Nel settembre del 1971 Francesco Tamilia, giudice istruttore del tribunale di
Lucca, concluse l'inchiesta sul ferimento di Soriano Ceccanti dichiarando il
«non doversi procedere per essere rimasti ignoti coloro che hanno commesso
il reato».
«Fin dal primo momento» scrisse il giudice Tamilia nella sentenza
«le indagini per accertare la dinamica dei fatti e l'identificazione del
responsabile del ferimento del Ceccanti si presentavano irte di difficoltà.
«Sta di fatto che davanti e nei pressi della Bussola» si legge ancora
nella sentenza «vi erano diverse centinaia di persone, per cui se fosse
vero quanto dichiarato da qualche teste, e cioè che i carabinieri spararono
molti colpi in direzione dei manifestanti impugnando le pistole all'altezza
della vita e con traiettoria parallela al terreno, non vi è dubbio che
ci saremmo dovuti necessariamente trovare in presenza di una strage e non di
fronte al ferimento del povero Ceccanti: costui, è rimasto accertato,
si trovava nella prima barricata, quella più a nord, unitamente ad altri
manifestanti mentre la polizia era, per dichiarazione dello stesso Ceccanti
e di altri, a una distanza di circa quaranta metri.
«La distanza pertanto in cui si trovavano le forze di polizia, la circostanza
che pur nelle sue contraddizioni la stessa parte lesa non aveva formulato accuse
specifiche e l'attestazione ufficiale che nell'occasione non erano state usate
armi in dotazione, come da controllo effettuato, portavano a escludere quale
possibile autore del fatto un appartenente alle forze dislocate per l'ordine»
concluse il giudice.
Gli
incidenti della Bussola diedero a molti politici l'occasione per intraprendere
una campagna che, negli anni successivi, sarebbe diventata un cavallo di battaglia
delle sinistre: quella sul disarmo della polizia.
Comunisti e socialproletari (c'era, allora, il Psiup) attribuirono subito alle
forze dell'ordine, senza alcuna esitazione, il ferimento di Ceccanti, organizzarono
manifestazioni di protesta e chiesero la convocazione anticipata delle Camere
per discutere, appunto, un loro progetto finalizzato a togliere le armi alla
polizia. Anche il sindacato a maggioranza comunista, la Cgil, in un ordine del
giorno approvato all'unanimità dal suo direttivo, espresse «la
più ferma condanna per i violenti interventi della polizia che si verificano
in occasione di manifestazioni sindacali e studentesche», sollecitando
il divieto alle forze dell'ordine «di portare armi da fuoco durante le
manifestazioni democratiche». Alle posizioni della sinistra si allineò
una parte dei deputati democristiani: Ines Boffardi si disse convinta che la
polizia, durante le manifestazioni per conflitti di lavoro, doveva presentarsi
disarmata. E qualche settimana dopo i fatti di Viareggio fu proprio un gruppo
di deputati della Dc a presentare una proposta di legge per disarmare la forza
pubblica durante le manifestazioni.
Curioso il fatto che queste istanze risultavano tutt'altro che gradite agli
estremisti di sinistra. A chi, cioè, in piazza a fare le manifestazioni
ci andava sul serio, e sempre più spesso.
Comunisti, socialproletari e una parte dei democristiani vedevano i giovani
dimostranti come vittime della violenza della polizia, come soggetti passivi
costretti ad accettare gli scontri; e ritenevano che, disarmando la polizia,
tutto sarebbe poi filato liscio. Ma gli estremisti non erano d'accordo. Proprio
Il Potere Operaio di Pisa, quello che organizzò la manifestazione della
Bussola, alla proposta di togliere le armi alla polizia rispose con un documento
in cui si affermava: «... consideriamo opportunista e controrivoluzionaria
la richiesta di disarmo della polizia, e quella di affidare ai sindaci le funzioni
di tutela dell'ordine pubblico. Lo Stato borghese userà ancora, almeno
sul tempo breve, la violenza armata per reprimere i movimenti di massa. E l'apparente
disarmo della polizia... richiederà come contropartita necessaria il
disarmo politico e ideologico delle masse, che le proposte sbagliate di oggi
servono a preparare, e un controllo molto più rigido sui loro movimenti
a livello economico e sociale, ottenuto magari attraverso la diretta collaborazione
e il definitivo inserimento delle cosiddette organizzazioni operaie nelle istituzioni
dello Stato borghese.
«A questa prospettiva di disarmo» proseguiva il documento de Il
Potere Operaio «le avanguardie rivoluzionarie operaie e di base socialista
devono opporsi oggi unite alle masse, evitando la sconfitta delle lotte operaie
e studentesche degli ultimi anni ... »
Il Potere Operaio non sembrava quindi affatto disposto a una pace disarmata
con lo Stato, e scriveva che l'obiettivo era «contribuire alla formazione
di nuovi organismi politici di massa e rivoluzionari».
Sembra quasi un segno del destino il fatto che gli incidenti della Bussola avvennero nella notte di Capodanno, a cavallo quindi fra il 1968 e il 1969. La violenza degli scontri, e il loro tragico epilogo, appartengono infatti più agli anni successivi che non alla prima fase della stagione della contestazione. Per la prima volta si sparò: durante tutto il 1968 (Avola, come abbiamo visto, nulla ha a che fare con la protesta studentesca) né la polizia né gli extraparlamentari, in Italia, erano arrivati a tanto. Se a Valle Giulia si inaugurò la stagione della violenza, quella della Bussola fu la prima manifestazione a concludersi in dramma. Come sempre più frequentemente avverrà negli anni seguenti.
III - I CATTOLICI ALLA RISCOSSA
In
Italia furono i cattolici i primi a guidare la rivolta.
Cattolici i primi due atenei occupati nell'anno accademico '67 - 68: a Trento
e a Milano.
Cattolici, o perlomeno di formazione cattolica, tutti i primi leader della contestazione:
Renato Curcio, Marco Boato, Mauro Rostagno, Nello Casalini (entrato poi nell'ordine
dei Frati Minori), Francesco Schianchi, Luciano Pero. Lo stesso Mario Capanna:
scrivono Primo Moroni e Nanni Balestrini che nel '67 Capanna preparò
«un trattato di 70 cartelle per convincere la propria ragazza che i rapporti
sessuali prematrimoniali sono compatibili con l'insegnamento di san Tommaso
d'Aquino».
E ancora, cattoliche le origini di «Lavoro Politico», rivista nata
nel '62 a Verona su iniziativa di Walter Peruzzi e punto di riferimento per
il movimento trentino.
Ed è pubblicato addirittura da un prete, don Lorenzo Milani, il libro
più letto nel 1968 durante le occupazioni: Lettera a una professoressa,
scritto dagli alunni della scuola di Barbiana di Vicchio Mugello, in provincia
di Firenze. Questo libro, ha sostenuto l'ex leader di Lotta continua Guido Viale,
«eserciterà un'influenza decisiva durante tutti gli anni del movimento».
I professori Carlo Oliva e Aloisio Rendi, dopo essersi definiti «militanti
radicali» ed «extraparlamentari», scrissero allora che il
libro di don Milani era, «purtroppo», «l'unico manifesto di
lotta contestativa nel mondo politico italiano».
IL «MANIFESTO» DI DON MILANI
Quando
Lettera a una professoressa cominciava a girare fra le università
occupate e ad assurgere al rango di libro sacro della contestazione studentesca,
il suo ispiratore non c'era già più.
Don Milani era morto il 26 giugno 1967, a soli quarantaquattro anni. Diventò
subito una sorta di mito delle sinistre, che gli affibbiarono tutti gli stereotipi
riservati ai sacerdoti che si mettono contro la Chiesa: «prete scomodo»,
«prete ribelle» e soprattutto «profeta».
Della tensione religiosa, della sete di assoluto che don Milani certamente aveva
(era un ebreo battezzato durante le leggi razziali, un non credente che all'improvviso
entrò in seminario con tutto il radicalismo evangelico del convertito),
alle sinistre non importava pressoché nulla. Importavano invece gli attacchi
che questo prete aveva portato alla gerarchia della Chiesa. Tutto ciò
che don Milani diceva e scriveva veniva puntualmente sfruttato dal Pci, fino
a consolidare un rapporto imbarazzante. Nel 1965 papa Paolo VI, nel mandare
un'offerta in denaro alla scuola di Barbiana, pregò il latore di «far
notare delicatamente a don Lorenzo l'inopportunità di scrivere articoli
su "Rinascita"», rivista, appunto, del Pci.
A Barbiana, don Milani era arrivato nel 1954, dopo essere stato allontanato
da San Donato di Calenzano. Un trasferimento che ebbe un peso determinante nella
sua posizione nei confronti della Chiesa. La Curia, disse, «è un
ente che vive delle sole informazioni di calunniatori, spie, adulatori».
All'arcivescovo di Firenze, il cardinale Ermenegildo Florit, riservò
accuse pesantissime («Un deficiente indemoniato»). Scrisse nel 1964
al suo confessore, don Bensi: «Lei, poi, sa bene che il comportamento
della Curia verso di me... è semplicemente criminale. (...) Il vescovo
e il vicario non sono atei come pare, ma solo pazzi, non son venduti come pare,
ma solo deficienti».
Anche il patriarca di Venezia Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, reagì
con preoccupazione alle iniziative di questo sacerdote destinato a diventare
uno degli ispiratori della rivolta studentesca. Nel 1958, quando uscì
Esperienze pastorali, il primo libro di don Milani, Angelo Roncalli scrisse
al vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi: «Ha letto, Eccellenza, la "Civiltà
Cattolica" del 20 settembre circa il volume Esperienze Pastorali?
L'autore del libro deve essere un pazzo scappato dal manicomio. Guai se si incontra
con un confratello della sua specie. Ho veduto anche il libro. Cose incredibili».
E
così, da questo prete sceso in guerra contro la gerarchia, e affascinato
dall'altra grande fede del tempo, il comunismo, venne nel 1968 il manifesto
dell'antiscuola. Lettera a una professoressa contestava il ruolo dei
docenti e la loro autorità, chiedeva l'abolizione della bocciatura, accusava
di classismo l'intera scuola. «Era» ha scritto Alcide Cotturone
su «Studi Cattolici» in occasione del venticinquesimo anniversario
della morte di don Milani, «una specie di libretto di Mao, dove erano
concentrati odio di classe, populismo, proletarismo, operaismo, demagogia, violenza
ideologica e l'istigazione al linciaggio dei professori. Il manicheismo pauperistico
portò don Milani a quest'affermazione antievangelica: "Non si può
amare tutti gli uomini. Si può amare solo una classe".»
Opinioni da conservatore, quelle di Cotturone? Non si direbbe, visto che anche
Pier Paolo Pasolini la pensava nella stessa maniera. Intervenendo nel 1968 a
un dibattito, disse agli animatori della scuola di Barbiana: «La vostra
posizione è più simile al maoismo che alla nuova sinistra americana...
più simile alle posizioni delle Guardie Rosse».
RIVOLTA ALL'ISOLOTTO
E
se il libro di don Milani fu una sorta di bibbia del contestatore, un altro
caso destinato, in quel 1968, ad alimentare tensioni e proteste fra i cattolici
fu quello di don Enzo Mazzi.
Don Mazzi, figlio di operai, era il parroco dell'Isolotto, uno dei quartieri
più poveri di Firenze, popolato da manovali, emigrati del Sud, profughi
dell'Istria e della Grecia. Vi fu mandato a fare il parroco nel 1954 dal cardinale
Elia Dalla Costa. Il quartiere era nuovo, la chiesa non c'era e don Mazzi cominciò
a dir messa in una baracca di legno. Riuscì a coagulare intorno a sé
una comunità vivace e anche numericamente significativa.
I guai cominciarono il 22 settembre 1968, quando nella chiesa parrocchiale dell'Isolotto
venne distribuito un volantino in cui si esprimeva solidarietà nei confronti
di coloro che, otto giorni prima, avevano occupato il Duomo di Parma. Il volantino,
condiviso da don Mazzi, era indirizzato anche al papa e al vescovo di Parma.
Si diceva, in quel documento, di «concordare pienamente» con la
scelta dell'occupazione del Duomo: un'occupazione decisa in segno di protesta
contro l'accettazione, da parte del vescovo di Parma, di un contributo offerto
da una cassa di risparmio per la costruzione di una nuova chiesa in città.
La Chiesa, diceva il volantino, non poteva accettare quel contributo, e doveva
fare «una scelta discriminante fra coloro che sono dalla parte del Vangelo
dei poveri e coloro che servono due padroni, Dio e il denaro».
Ma la solidarietà nei confronti dei «cattolici del dissenso»
di Parma era solo l'occasione per esprimere considerazioni più generali:
«Viviamo in una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi,
i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia. (...) Il Papa, i vescovi
e spesso anche i sacerdoti e i laici più qualificati sono ricolmi di
onori, di potere, di prestigio, di privilegi, di amicizie influenti, di cultura
e in ultimo anche di beni».
L'arcivescovo di Firenze, l'allora sessantasettenne Ermenegildo Florit, un friulano
di famiglia contadina, il 30 settembre scrisse a don Mazzi chiedendogli di ritrattare
la lettera-volantino, e dandogli un mese di tempo «per riflettere».
Ma a don Mazzi si contestava anche -e forse soprattutto- un catechismo da lui
preparato e pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina, Incontro a Gesù.
Florit invitò il parroco dell'Isolotto a correggere le «deviazioni
dottrinali». Inutile fu la mediazione del Vaticano, e inutili furono anche
gli appelli all'obbedienza rivolti a don Mazzi da altri preti che tempo prima
erano stati richiamati dalla gerarchia, come don Zeno Saltini, il fondatore
di Nomadelfia. Don Mazzi non ritrattò e non corresse nulla, e fu rimosso
dalla parrocchia. Furono centotré, nella sola diocesi fiorentina, i preti
che firmarono un appello di solidarietà nei suoi confronti.
Don Mazzi continuò comunque a dir messa all'Isolotto: non più
in chiesa, dove celebrava il nuovo parroco, ma all'aperto, sul sagrato, circondato
dai vecchi fedeli. Una messa evidentemente contagiata dall'assemblearismo dell'epoca,
secondo il quale non c'era una Verità da ascoltare e da inseguire, ma
una verità da decidere autonomamente attraverso il dibattito. Da una
cronaca dell'epoca: «Quella sul sagrato è una funzione religiosa
in cui si dibattono i temi del giorno, i problemi del quartiere, del Paese,
della Chiesa, dei poveri, delle donne e così via. Accanto al prete parlano
studenti, casalinghe, operai, sindacalisti. (...) Già all'inizio, con
il metodo catechistico dei giovani, negli anni sessanta, l'Isolotto diede inizio
a una mezza rivoluzione: si insegnava il Vangelo anche con le parole e gli esempi
di Danilo Dolci, Luther King, Malcolm X».
IL PARADISO? QUI E ORA
Molte
scintille di quell'«anno dei miracoli» che è considerato
il 1968 vennero dunque da uomini e ambienti del cosiddetto mondo cattolico.
Si pensa che ciò sia dovuto alla naturale propensione del cattolico a
cercare la giustizia, a eliminare le diseguaglianze tra gli uomini e a cercare
il «Regno di Dio».
Ma se tanti cattolici decisero di scatenare la protesta, non fu per una
naturale conseguenza della loro fede, bensì -al contrario- per le
conseguenze di una crisi di fede.
Una crisi di fede collettiva, che investì buona parte della Chiesa negli
anni del post-Concilio; una crisi di fede esplosa nel momento in cui la secolarizzazione
stava trasformandosi da fenomeno di élite a fenomeno di massa.
Non è un caso se il prestigioso Almanacco Letterario Bompiani, tradizionalmente
dedicato a questioni di stretta attualità, nell'edizione del 1969 (e
quindi incentrata sui fatti dell'anno precedente, il 1968) fu intitolato L'inquietudine
religiosa. E non è un caso se il primo capitolo di quel volume aveva
per titolo La secolarizzazione.
Dal 1965, ossia dalla fine del Concilio Vaticano II, il numero dei preti si
era dimezzato, le vocazioni ridotte a un decimo. Invano la Chiesa cercò
di far fronte a questo vero e proprio «8 settembre» infittendo le
discussioni sul ruolo dei laici, sul valore del sacerdozio, su come deve vestire
il prete, sulla liturgia. Il punto era un altro: la fede nella divinità
di Gesù -anzi, nella stessa esistenza di Dio- non era più un fatto
scontato, una realtà comunemente accettata.
Fu allora che una grande massa di cattolici passò dalla fede nel Figlio
dell'Uomo alla fede nell'uomo. E cercò di darsi una giustificazione «orizzontalizzando»
la prospettiva di fede. Pensò che il cristianesimo non fosse tanto credere
nella Trinità, nella resurrezione e nella vita eterna: ma darsi da fare
per il povero, per l'handicappato, per l'operaio.
Questo passaggio dalla dimensione «verticale» della fede a quella
«orizzontale», o meglio, questo privilegiare l'aspetto orizzontale
rispetto a quello verticale, è testimoniato dalle scelte di quasi tutti
i cattolici che si posero alla guida della contestazione.
Don Enzo Mazzi spiegò in un'intervista: «Per certa teologia il
battesimo è lo strumento per togliere il peccato originale e per donare
la grazia. Noi (...) cerchiamo di donargli un significato attuale, un contatto
con i bisogni reali del bambino. Quali sono? Che abbia la sua dignità
nella società, che venga considerato un essere umano dotato di diritti,
che possa usufruire di strutture umane, sociali e anche materiali che gli permettano
di crescere nella libertà e nell'autonomia, di non essere represso e
di crescere attraverso uno sviluppo di tutta la sua personalità. Battezzare
per noi significa, più che togliere il peccato individuale, togliere
un peccato sociale...».
Ecco
perché il «timbro» cattolico alla contestazione è
più apparente che reale. Non furono tanto i cattolici, quanto gli ex
cattolici (o comunque i cattolici condizionati dalla confusione del post-Concilio)
a dare un'impronta al Sessantotto, e a rimanere a loro volta condizionati e
travolti dal Sessantotto stesso.
Fu proprio adottando uno dei più famosi slogan del tempo -«Qui
e ora»- che tanti cattolici rinunciarono a proiettare nell'eternità
la speranza cristiana, e si adoperarono per costruire subito, in questa vita
e su questa terra, il paradiso.
E questo progetto non poté che finire con l'abbraccio con l'ideologia
del momento -della quale parleremo più avanti-, al punto da far nascere
una nuova dottrina, ricordata come «cattocomunismo».
IL CATTOCOMUNISMO
«Cattolicesimo
del dissenso» e «cattocomunismo» sono due fenomeni strettamente
legati fra loro. Perlomeno, nell'Italia -e, più in generale, nel mondo
occidentale- degli anni Settanta. Il cattolico del dissenso era uno che contestava
la gerarchia e il magistero, e che al tempo stesso credeva fosse possibile -anzi,
doveroso- adeguarsi, almeno in politica, alla dottrina comunista.
Fu, quello, un fenomeno che investì fortissimamente gli stessi vertici
ecclesiali. Si pensi -è solo un esempio, anche se ai più oggi
sembrerà incredibile- che l'infatuazione fu tale che nel messale ufficiale
della Conferenza episcopale francese, il Missel des dimanches, a pagina 139
fu inserito in quegli anni Karl Marx fra i nomi di cui i cattolici devono fare
memoria. E così il 14 marzo, giorno della morte -e quindi, per la Chiesa,
dies natalis, giorno della nascita alla vera vita- la Chiesa francese invoca,
fra i tanti santi e beati del giorno, anche colui che è definito dallo
stesso messale «il fondatore del comunismo».
In Italia il primo testo-base del cattocomunismo fu Marxismo e cristianesimo,
libro scritto nel 1966 da don Giulio Girardi, un salesiano che insegnava all'università
del suo ordine. Girardi sosteneva che marxismo e cristianesimo erano entrambi
riconducibili allo stesso ideale umanitario di libertà, e che fosse necessaria
una lotta comune per il rovesciamento della società capitalistica. Per
questa lotta, sosteneva Girardi, il marxismo offriva irrinunciabili strumenti
scientifici. Nel 1969 fu allontanato dall'Università Salesiana. Si fece
poi assumere dalla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), sciogliendo
definitivamente il suo legame con la Chiesa.
Ma grande importanza, nel cattolicesimo del dissenso, ebbe anche «Testimonianze»,
rivista fondata e diretta dal padre scolopio Ernesto Balducci. E altri personaggi
di spicco di quel mondo sono stati Mario Gozzini e Raniero La Valle, che a metà
degli anni Settanta vennero eletti in Parlamento, come indipendenti di sinistra,
nelle liste del Pci.
Non erano certo emarginati, questi personaggi, dalla nomenklatura ecclesiale.
Gozzini ebbe un ruolo significativo nella redazione del catechismo per adulti
della Conferenza episcopale italiana, Signore, da chi andremo?. La Valle era
stato direttore del quotidiano cattolico bolognese «Avvenire d'Italia»,
che diede poi origine, con la fusione con «L'Italia» di Milano,
al quotidiano dei vescovi «Avvenire». E fra i cattolici del dissenso
-a dimostrazione del loro peso nella Chiesa di quegli anni- va annoverato pure
qualche vescovo, come monsignor Luigi Bettazzi, di Ivrea, che volle come collaboratrice
teologica un'altra nota «contestatrice», Adriana Zarri.
Ma
forse il personaggio più rappresentativo della sterzata a sinistra della
Chiesa, in quegli anni, è il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo
di Torino dal '65 al '77. In quei dodici anni la diocesi torinese fu la vera
Mecca del cattolicesimo del dissenso. Lì trovarono ospitalità
tutti coloro che si erano scontrati con la gerarchia a causa della loro simpatia
per il comunismo, come lo stesso don Girardi.
Pellegrino era un intellettuale, un prete che della vita di parrocchia -e quindi
del comune «popolo di Dio»- non aveva esperienza, essendo passato
direttamente dal seminario all'università, e dall'università,
a sorpresa, direttamente alla cattedra di una delle diocesi più importanti
del mondo. Quando fu nominato, infatti, Pellegrino insegnava letteratura cristiana
all'Università di Torino: un noto patrologo, un uomo di cultura, ormai
già ultrasessantenne, che pareva destinato, quindi, a proseguire la sua
vita da studioso. Per questo, quando Paolo VI lo nominò, furono in molti
a stupirsi.
Applicò risolutamente il Concilio, o meglio ciò che lui pensava
fosse il Concilio. Era convinto che si fosse arrivati a una svolta epocale,
e non esitò -in ossequio al rinnovamento, al cambiamento, alla modernizzazione-
a prendere decisioni traumatiche per i fedeli. Ritenendo che la Chiesa non dovesse
avere nulla a che spartire con il Capitale, ordinò il ritiro dei cappellani
dalla Fiat, e l'abolizione dei pellegrinaggi a Lourdes che da anni mobilitavano
migliaia di operai.
Soprattutto, giunse a bloccare -in una diocesi che, con Napoli, vantava il primato
mondiale di santi e beati- tutti i processi di beatificazione in corso, fra
cui quelli di Francesco Faà di Bruno e Piergiorgio Frassati, che solo
anni dopo -e con altri vescovi- poterono salire agli altari della Chiesa. Forse,
si credeva allora che proclamare la santità di un cristiano fosse un
gesto «poco ecumenico», e urtasse i fedeli delle altre religioni.
Fu lui, Pellegrino, a scrivere alla metà degli anni Settanta quello che
viene considerato il vero documento ufficiale -perché firmato nientemeno
che da un cardinale- del cattocomunismo italiano, la lettera pastorale Camminare
insieme, che non a caso fu stampata e diffusa gratuitamente dalla giunta di
sinistra di Torino. Quella giunta capeggiata da Diego Novelli che, molti anni
dopo, verrà travolta dal «caso Zampini», una storia di mazzette
che può essere considerata come una Tangentopoli ante litteram.
Il cardinal Pellegrino -ma lui si faceva chiamare «padre», rifiutando
ogni titolo onorifico- si dimise, in anticipo, nel '77, e Paolo VI, che pure
l'aveva voluto, si affrettò ad accettare quelle dimissioni. Fosse o no
dipeso dalle scelte pastorali di questo discusso arcivescovo, la diocesi torinese
era passata, in quei dodici anni, da uno stato di eccezionale fecondità
(quanti santi, a Torino, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento!)
a una drammatica situazione di crisi. L'apertura al comunismo non aveva provocato
conversioni nelle fabbriche -dove, anzi, molti operai protestarono per certe
scelte come il ritiro dei cappellani- e aveva, al contempo, intaccato quel patrimonio
tutto torinese rappresentato dal cattolicesimo sociale di san Giovanni Bosco
e san Leonardo Murialdo, e dal cattolicesimo liberale nato col Risorgimento.
Fu allora che Torino cominciò ad essere una delle città con il
più basso indice di pratica religiosa.
Si pensi che nel 1965 i giornali «La Voce del Popolo» (settimanale
diocesano torinese) e «Il Nostro Tempo» (settimanale della intellighenzia
cattolica di Torino) avevano toccato -dopo anni di crescita continua- la punta
più alta della loro diffusione, arrivando rispettivamente a 16.000 e
a 10.000 copie. Bene: nel 1973, dopo otto anni dalla fine del Concilio e dall'arrivo
di Pellegrino, «La Voce del Popolo» era scesa a poco più
di 9000 copie, e «Il Nostro Tempo» a meno di 6000. Complessivamente,
insomma, i due settimanali cattolici torinesi erano passati dalle 26.000 copie
del 1965 alle 15.000 del 1973. E si tenga presente che tra il 1953 e il 1973
la popolazione di Torino era raddoppiata.
E, questo sulla diffusione dei giornali cattolici, un dato certamente limitato
a un fenomeno particolare, ma sicuramente esemplare di tutta la situazione.
Del resto, lo stesso Pellegrino riconobbe il fallimento, pur consolandosi con
una citazione di sant'Agostino: «Quanti che sembrano essere fuori sono
dentro; quanti che sembrano essere dentro in realtà sono fuori».
La
caduta della pratica religiosa nella città-laboratorio del dissenso cattolico
[Torino] dimostra, in fondo, che quei tentativi di rendere più «moderno»
il cristianesimo, e magari di farlo sposare con il marxismo, non riuscirono
mai a conquistare il popolo, la massa dei fedeli. Certe ardite teologie, certe
«concessioni» al nuovo, rimasero perlopiù un'elaborazione
di pochi intellettuali, che non scaldarono il cuore della gente semplice -i
credenti più autentici, secondo il Vangelo- e oltre tutto ebbero l'effetto
di spaccare in due il clero. Pellegrino, ad esempio, non solo non fece proseliti
fra i laici, ma si inimicò gran parte dei suoi preti, fra i quali girava
allora la battuta velenosa secondo cui l'arcivescovo «parlava come un
comunista, comandava come un fascista e viveva come un liberale». Di fronte
a una Chiesa divisa e litigiosa -a Torino e altrove- i credenti non poterono
far altro che aspettare che i preti si mettessero d'accordo fra di loro: e,
nell'attesa, si misero «in sonno», disertando le parrocchie.
Il crollo nella frequenza testimonia anche che la contestazione di certo clero
non ha creato, come si sperava, dei «cristiani adulti», ma degli
agnostici; non ha creato una «Chiesa aperta», ma una Chiesa vuota.
DALLA PARROCCHIA AL PARTITO
Il
tentativo di far incontrare cristianesimo e marxismo ebbe, ovviamente, effetti
pratici nell'impegno e nelle scelte dei cattolici in politica.
S'è detto dell'elezione di La Valle e Gozzini nelle liste del Pci, quali
indipendenti di sinistra. Non furono casi isolati, decisioni personali. Gran
parte del mondo cattolico fu attirato, in quegli anni, dalla sinistra. E non
sembri, questa, una contraddizione con quanto detto prima sulla scarsa «presa»
che il cattocomunismo ebbe sulla gente comune: i cattocomunisti, infatti, erano
«già» militanti del mondo cattolico; non erano ex agnostici
o ex comunisti affluiti, grazie alla nuova dottrina, nelle organizzazioni cattoliche.
Vogliamo dire che il cattocomunismo ingrossò le file dei marxisti, ma
non fece nessun nuovo cattolico praticante. Molti cattolici, insomma, si fecero
ammaliare dal comunismo, fino a scavalcare a sinistra i vecchi compagni e fino
-non di rado- a perdere la fede. Ma non risultano casi di percorsi inversi,
cioé di comunisti che, in quegli anni, tornarono in chiesa per merito
del cattocomunismo.
Si pensi -può essere indicativo- alla sorte che ebbe la Cisl, il sindacato
tradizionalmente cattolico, quando si unì nella Triplice con i due sindacati
«rossi», Cgil e Uil. Mai s'è avuta notizia, almeno per quanto
riguarda le decisioni dei vertici, di una differente strategia della Cisl rispetto
ai soci di ispirazione comunista e socialista; mai la Cisl ha preso deliberazioni
tali da porsi in contrasto con Cgil e Uil per ribadire la sua identità
cattolica. L'unione dei tre sindacati ha portato a un appiattimento in cui l'unica
idea forte e visibile era quella di sinistra.
Il
caso più eclatante di impegno politico a sinistra è forse quello
delle Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori. Nate nel '45 su iniziativa
di Pio XII per controbilanciare l'influenza dei comunisti nelle fabbriche, le
Acli avevano perlopiù un compito formativo e ricreativo. Nel '59 potevano
contare su un milione e mezzo di aderenti, e il loro giornale, «Azione
sociale», era uno dei più diffusi periodici italiani. Negli anni
Sessanta, gli aclisti divennero ufficialmente una corrente della Dc, chiamata
«Rinnovamento».
Ma ecco il vento del Sessantotto a ribaltare tutto. Al congresso di Torino del
1969 le Acli proclamarono «la fine del collateralismo» con la Dc,
e ruppero ogni legame con il partito; l'anno dopo, 1970, arrivò «l'opzione
socialista». Livio Labor, presidente delle Acli dal 1961, abbandonò
l'organizzazione e fondò allora il Mpl, Movimento politico dei lavoratori:
una formazione che voleva diventare il punto di raccolta, in politica, dei cattolici
del dissenso, e che ebbe però vita breve, non riuscendo ad avere i consensi
elettorali sperati.
La reazione della Chiesa, almeno per una volta, sembrò decisa. La Cei,
Conferenza episcopale italiana, negò alle Acli il diritto di proclamarsi
«movimento cristiano»; nella primavera del '71, poi, la Santa Sede
le sconfessò ufficialmente. Il risultato fu una scissione, e 300.000
aclisti fondarono il Mcl, Movimento cristiano dei lavoratori. I 500.000 che
rimasero nelle Acli, sotto la presidenza di Emilio Gabaglio, nel febbraio del
'72 al congresso di Cagliari ribadirono la «scelta di classe», opponendosi
all'interclassismo della Dc. Chiesero la fine del sistema capitalistico, l'autogestione
e la proprietà socialista dei mezzi di produzione. Nel '74, al referendum
sul divorzio, la maggioranza delle Acli si schierò a favore della libertà
di scelta politica: non obbedì, quindi, al richiamo della gerarchia.
Un altro movimento di cattolici di sinistra fu quello dei Cps, Cristiani per
il socialismo.
Nacquero, in realtà, non in Italia ma in Cile, nel '71, come gruppo d'appoggio
al governo di Allende. Da noi arrivarono nel '73, precisamente in settembre,
quando a Bologna si tenne il convegno che ne sancì la costituzione. Aderirono
la sinistra delle Acli e la Cisl. Uno dei leader fu proprio quel don Giulio
Girardi che -lo abbiamo visto- vanta una sorta di paternità del cattocomunismo
italiano. Padre Balducci e il cardinale Pellegrino furono simpatizzanti, ma
non esplicitamente. Aderì, invece, senza esitazioni, dom Giovanni Franzoni.
UN ABATE NEL PCI
Dom
Giovanni Franzoni era un monaco benedettino, abate della basilica di San Paolo
fuori le Mura, una carica equiparata a quella di vescovo. Contestò la
proprietà privata e si schierò, all'epoca del referendum, a favore
della legge sul divorzio. Nel 1974 fu sospeso a divinis.
«Per anni» si legge sull'«Osservatore Romano» del 3
maggio 1974, «egli ha rimproverato alla Chiesa di essere supporto del
sistema capitalistico e di ispirarsi a modelli di potere oppressivo, contrapponendovi
l'immagine di una Chiesa utopistica, vagamente carismatica, ma impegnata nella
lotta di classe di ispirazione marxistica. Venne così a concepire una
Chiesa a sfondo prevalentemente sociale, oppure con caratteristiche soltanto
spiritualistiche, astratte e soggette al relativismo morale e religioso, secondo
il mutare dei tempi ... »
Fu ridotto allo stato laicale il 2 agosto 1976, dopo essersi pronunciato a favore
anche della legalizzazione dell'aborto e dopo aver pubblicamente (con un articolo
sulla rivista «Com-Nuovi Tempi») fatto dichiarazione di voto per
il Pci. Il cardinal Poletti gli scrisse una lettera affettuosa, dicendogli:
«Oggi molti forse ti applaudono, ti invitano a resistere. Sei molto più
sulla strada della pubblicità umana che dell'umiltà evangelica!
Ma verranno anche per te i giorni della delusione, della prova, della solitudine.
Sarai allora veramente "un povero" e potrai sempre ritornare, se rinnovato
nel cuore, con umiltà e fiducia alla casa del Padre, dove il Papa e molti
fratelli ti aspettano e ti riceveranno con gioia. Tra i fratelli spero di esserci
anch'io che, oggi come sempre, cerco di capirti e che, anche nella dura correzione,
prego per te».
Nel novembre del 1988 dom Franzoni si è iscritto al Pci. Nell'aprile
del 1990 si è sposato -a Tokio, con rito civile- con l'interprete giapponese
Yukiko Ueno.
TEOLOGI «D'AVANGUARDIA»
La
contestazione non toccava certo le sole scelte politiche. Furono, per la Chiesa,
anni di confusione generale. Le basi stesse della fede, come abbiamo detto,
erano messe in discussione: fiorirono catechismi che solo pochi anni prima sarebbero
stati considerati eretici, e la stessa liturgia fu rivoluzionata, in un ribaltone
di cui la messa con le chitarre e certe eucarestie con cibi «alternativi»
non furono che l'aspetto più folcloristico.
La confusione era dovuta in buona parte a teologi del dissenso, a biblisti e
a esegeti che -forse temendo che la fede non potesse reggere all'urto della
secolarizzazione- scrissero testi poderosi per cercare di adattare il Vangelo
alla modernità, alla Ragione, a tutto ciò che insomma contraddistingueva,
in quel momento, «il mondo». Libri come il Catechismo olandese,
che cercava appunto di conciliare la fede con il razionalismo dell'uomo moderno,
sono considerati oggi fra le cause dello sfascio della Chiesa d'Olanda; ma allora
erano ritenuti testi d'avanguardia, espressione di un cristianesimo «finalmente»
illuminato.
Disse Mario Capanna in un'intervista (al «Resto del Carlino», 25
gennaio 1976) in cui ricordava gli anni all'Università Cattolica: «Ci
eravamo ribellati anche al metodo con cui era insegnata teologia, fummo i primi
a dire che, oltre ai teologi che si studiavano, ce n'erano altri che andavano
approfonditi, i tedeschi e gli olandesi per esempio». Ed evidentemente
fu seguendo certi nuovi teologi che lo stesso Capanna poté pensare -come
disse nel marzo 1969 alla «Domenica del Corriere»- che «si
vive l'esperienza evangelica in ogni momento dell'esistenza, quindi non solo
e non necessariamente a messa, ma dovunque, nelle assemblee, ad esempio, picchiando
i fascisti ... ».
Come molti di coloro che allora dicevano di sapere qual era il modo giusto per
vivere il cristianesimo, anche Capanna ha poi abbandonato la fede. Ha spiegato
all'«Avvenire» il 31 marzo 1993: «Io ero cattolico e aggiungo
che vivevo la dimensione di fede in un modo che posso definire poetico, per
nulla dozzinale o fideistico nel senso del trasporto assoluto. E' stato a seguito
delle lotte studentesche, per via di una mia maturazione culturale, filosofica
e politica, che mi sono reso conto della infondatezza del credere religioso».
Dice oggi il già citato Paolo Sorbi, cattolico e intellettuale di Lotta
continua negli anni della contestazione:
«A quell'epoca avevamo pasticci teologici drammatici, che ci avvicinavano
alle posizioni di certe chiese protestanti e che ci hanno portato a scelte sciagurate
sul divorzio e sull'aborto.
«La secolarizzazione, alla metà degli anni Sessanta, era ancora
patrimonio di alcune élites, non aveva ancora conquistato il "cuore"
del popolo italiano. Noi l'abbiamo fatta diventare carne e sangue, modo di vivere
quotidiano. Io sono pronto a farmi una doverosa autocritica, ma ci sono fior
fiore di certi personaggi, vescovi, teologi, biblisti oggi ben inseriti e ben
integrati nelle varie nomenklature clericali, che dovrebbero avere la dignità
di fare un passo indietro».
HARAKIRI NELLA CHIESA?
Di
fronte al «nuovo» che irrompeva, anche parte della gerarchia della
Chiesa, insomma, vacillò.
Ma era proprio necessario, in quel momento, rimettersi in discussione, farsi
autocritiche, inseguire la modernità? Ha scritto nel 1978 Emanuele Samek
Lodovici: «Che cosa fece il cattolicesimo ufficiale? Inventò la
crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura; si sentì coinvolto
in una dissacrazione, quella inizialmente scatenata dalla contestazione, nei
confronti della quale non aveva nessuna ragione per credersi oggetto. Forse
che la tecnologia forsennata, la mercificazione dell'amore, la cultura professorale,
la distruzione dei piccoli mestieri, la criminalità, l'abbrutimento pubblicitario,
l'infame devastazione della natura, erano un portato o una conseguenza del cristianesimo?».
Nella Chiesa, spiegava ancora Samek Lodovici, «si credette che le urla
dei contestatori fossero la vox populi e si trasferì la crisi del pensiero
laico all'interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente
in crisi. (...) Si scambiò la mancanza di rigore nel riproporre integralmente
la dottrina cristiana sulla società, come un atteggiamento di "moderazione",
come un atteggiamento "positivo"; si giustificò il fatto di
non dire tutta la verità con il rifiuto che l'interlocutore prestava
ad essa. (...) Non si ebbe il coraggio di essere fino in fondo se stessi.»
Non
diversamente la pensa oggi il più noto scrittore cattolico italiano,
Vittorio Messori: «Ho un terribile sospetto. Se la Chiesa avesse tenuto
duro ancora tre-quattro anni, forse invece che travolta dal Sessantotto e messa
in un angolo dai contestatori, sarebbe stata riscoperta almeno da una certa
ala sessantottina come una sorta di dimensione profetica.
«Mi spiego. Il Concilio Vaticano II rappresenta, per certi aspetti, le
nozze della Chiesa con la modernità. Quella Chiesa che per due secoli,
vittoriosamente, era stata fedele alla Tradizione, misteriosamente -la Provvidenza
è strana- non solo accettò la modernità, ma la sposò
con l'entusiasmo del neofita. Eppure, la modernità stava morendo. Nel
momento stesso in cui i preti-sociologi dell'Università di Lovanio scrivevano
la Gaudium et Spes, cioè scrivevano come la Chiesa doveva porsi di fronte
al mondo moderno, in quello stesso momento la modernità era già
in agonia, e tre anni dopo sarebbe morta.
«Perché dico che almeno una certa ala sessantottina forse avrebbe
trovato ciò che cercava in una Chiesa fedele alla propria Tradizione?
Perché noi pensiamo spesso il Sessantotto sotto una lettura modernizzante.
Ma in realtà l'anima del Sessantotto è in gran parte tradizionalista.
Nel senso che cercò di ritrovare certi valori che la modernità
non dava più. Pensiamo ad esempio al fatto che con il Sessantotto nacque
un certo ecologismo: nacque cioè il desiderio di un mondo nuovo che non
sta davanti, ma sta dietro. Perché il verde, checché se ne pensi,
non è un qualcosa di complementare al rosso, ma è il contrario
del rosso. Mito del rosso è il progresso, la megalopoli; mito del verde
è la conservazione della natura, il villaggio. L'uomo del futuro, per
un certo Sessantotto, non è Gagarin, non è l'astronauta, ma è
il pastore sardo, è il contadino, l'operaio saggio...
«Il Sessantotto, almeno in parte, fu insomma il tentativo di recuperare
una tradizione. Quella Tradizione che la Chiesa fino ad allora aveva tenacemente
difeso e che nel 1965 ha abbandonato».
TRAMONTA L'AC, NASCE CL
E
a ulteriore dimostrazione del clima da «tutti a casa» che nel 1968
investì la Chiesa, si pensi che la più importante organizzazione
laicale del mondo cattolico, cioè quell'Azione cattolica che tanta importanza
aveva avuto nei decenni precedenti per quanto riguarda l'impegno dei credenti
nella politica e nella società, passò dai tre milioni di iscritti
del 1960 a un milione e 657.000 iscritti nel 1970, e infine a soli 635.000 iscritti
nel 1975.
Il fenomeno più significativo di resistenza e di reazione a questo sfacelo
fu la nascita di Comunione e liberazione, sorta nel 1970, anche se il primo
grande convegno pubblico è del 1973. In un momento in cui altri cattolici
o abbandonavano la fede o teorizzavano il suo nascondimento, CL coagulò
attorno a sé quei cattolici che vollero continuare a essere presenti
nella società senza rinunciare -anzi, sbandierandola- all'obbedienza
al tradizionale magistero della Chiesa. Molti anni più tardi, alcune
delle scelte politiche del Movimento popolare, vale a dire il braccio secolare
di CL, sono state molto discusse e criticate anche all'interno del mondo cattolico.
Ma è indubbio, e questo nessuno lo contesta, che negli anni del post-Concilio
e della contestazione studentesca CL è stata (in Italia) la principale
presenza «visibile» dei cristiani nelle scuole e, più in
generale, fra i giovani.
Ha detto il suo fondatore, don Luigi Giussani: «Nel '68-69 noi ci siamo
trovati come "fuori casa". Eravamo in tutte le scuole -eravamo l'associazione
più forte presente nella scuola- eppure ci siamo trovati "fuori
casa".
«Perché? Perché il rovesciamento operato dall'ideologia
marxista attribuiva alle sue varie formazioni mentali prospettate nel futuro
la sola speranza che l'umanità potesse avere. Tutto il resto, vale a
dire tutto ciò che non nasceva dall'ideologia marxista nelle sue varie
flessioni, non aveva valore, specialmente il cristianesimo.
«"Gioventù Studentesca" -così si chiamava allora
il nostro movimento- fu spazzata via da questo momento. Più della metà
si affiliò alle sette marxiste. Gli altri rimasero come irrigiditi, intimiditi,
e chiusi tra loro. (...) Un giorno, mi pare del 1970, un gruppetto di tre o
quattro universitari insorse con un volantino (il primo volantino, per dir così,
"controrivoluzionario"); quella volta, forse perché erano in
tre o quattro soltanto, non furono picchiati a sangue. Era intitolato «Comunione
e liberazione"».
IV - ARRIVA L'IDEOLOGIA
Orfano di Dio, il movimento non poté che finire rapidamente nelle braccia del suo surrogato: l'ideologia. Anche la ribellione più spontanea e genuina, anche le istanze più sincere e giustificabili, finirono presto ingabbiate dentro gli schemi di un «pensiero forte».
CHE (VECCHIA) IDEA: IL MARXISMO-LENINISMO
Non
era certamente con il comunismo che i primi contestatori, i pre-sessantottini,
pensavano di migliorare le cose. Anzi, del comunismo (non solo del Pci: di tutta
l'ideologia comunista) non ne volevano proprio sapere.
Si legge in quel già citato documento di «Onda Verde» che
uno dei «rischi del movimento della nuova generazione in Italia»
era quello di farsi strumentalizzare «da parte di forze politiche organizzate.
Un'operazione di questo tipo è particolarmente adatta al Pci e alle varie
sette paracomuniste».
Tuttavia, su quell'humus fecondo del bisogno di menare le mani e su quell'istintivo
rifiuto di una società fondata principalmente sul denaro, si innestò
presto la prospettiva della lotta di classe. E per abbattere il vecchio mondo
e costruire un futuro migliore, i giovani del Sessantotto, specialmente in Italia,
fecero ricorso -sembra una contraddizione, ma così fu- proprio a uno
strumento già antiquato e inadeguato come l'ottocentesco marxismo-leninismo,
seppure variamente aggiornato, corretto, aggiustato. Il primo manifesto programmatico
della contestazione giovanile italiana, le Tesi della Sapienza elaborate nel
febbraio del 1967 durante l'occupazione dell'Università La Sapienza di
Pisa, poneva già la questione universitaria «in termini di lotta
fra capitale e lavoro», e considerava lo studente «una figura sociale
interna alla classe operaia».
A queste nozze fra il movimento e la galassia dei molteplici Verbi di derivazione
marxista non fu estraneo un certo milieu intellettuale, attivo fin dall'inizio
degli anni Sessanta. Libri e giornali inizialmente semiclandestini vennero via
via diffusi -anche grazie a grossi editori- in centinaia di migliaia se non
in milioni di copie, andando a influenzare un'intera generazione. Né
va scordato quanto dice Piperno, e cioè che il Pci, sperando di poter
sfruttare la situazione a suo vantaggio, all'inizio sovvenzionò e aiutò
abbondantemente la protesta.
Ma le riviste che contribuirono alla diffusione del «marxismo critico»
furono opera, perlopiù, di dissidenti del Pci, di comunisti che avevano
vissuto lo choc dell'invasione sovietica in Ungheria (1956) e che comunque contestavano
le strategie e le strutture dei tradizionali partiti di sinistra.
La prima di queste riviste fu «Quaderni Rossi», fondata nel 1961
da Raniero Panzieri: vi collaboravano fra gli altri Mario Tronti, Alberto Asor
Rosa, Massimo Cacciari, Toni Negri, Vittorio Foa, Romano Alquati, Sergio Bologna,
Vittorio Rieser. Della linea, come si diceva allora, «operaista»,
non fu solo una tribuna di intellettuali dissidenti, ma una guida per molti
giovani che cercavano una nuova identità del comunismo. Nel 1964 una
parte della redazione si staccò fondando un'altra rivista, «Classe
Operaia», diretta da Mario Tronti.
Rigorosamente (e dichiaratamente) fedeli all'ortodossia marxista-leninista furono
invece le Edizioni Oriente, fondate nel 1963 a Milano da Maria Regis.
Già l'anno prima, a Padova, un gruppo emme-elle (così venivano
chiamati, allora, i marxisti-leninisti) avevano fondato il primo giornale di
corrente, dal nome inequivocabile: «Viva il Leninismo». Ma «Viva
il Leninismo» era stato, quanto a diffusione, un fenomeno limitato. Ben
altro peso ebbero le Edizioni Oriente, che pubblicarono le riviste «Vento
dell'Est» e «Quaderni delle Edizioni Oriente», il mitico Libretto
Rosso con le massime di Mao, le antologie delle opere dello stesso Mao e gli
scritti dei dirigenti vietnamiti.
Nel 1964 nacque un'altra rivista marxista-leninista, «Nuova Unità»,
con Ugo Duse alla direzione e Lodovico Geymonat alla vicedirezione. Nel primo
numero vennero pubblicate le Proposte per una Piattaforma dei marxisti-leninisti
d'Italia. La redazione si spaccò all'inizio del 1965 e Ugo Duse se ne
andò fondando «Il Comunista», che oltre a criticare la classe
operaia occidentale, accusata di essersi imborghesita, sostenne la necessità
di appoggiare i guerriglieri africani, asiatici e sudamericani, e lanciò
una campagna per l'arruolamento di volontari per la guerra del Vietnam.
Altre riviste che forgiarono la generazione della rivolta furono «Giovane
critica» di Pio Baldelli, «La Sinistra» di Lucio Colletti,
«S» (la rivista dei «situazionisti», intellettuali e
artisti che propugnavano un «uso creativo e innovativo del marxismo originario»),
«Quindici» e soprattutto i «Quaderni Piacentini».
I MODELLI DEI «QUADERNI»
Fondati
nel 1962 da Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, i «Quaderni Piacentini»
uscirono inizialmente in poche copie ciclostilate e distribuite dagli stessi
redattori; ma divennero rapidamente -anche grazie all'arrivo di rinforzi eccellenti
come il critico cinematografico Goffredo Fofi e il poeta e saggista Franco Fortini-
un fenomeno editoriale e culturale di livello nazionale. Nel '68, cervelli della
contestazione come Guido Viale, Carlo Donolo, Sergio Bologna e Michele Salvati
trovarono ospitalità sui «Quaderni», ormai arrivati a quindicimila
copie di diffusione e, soprattutto, ormai inseriti nel «giro» delle
citazioni sulle terze pagine dei grandi quotidiani.
I «Quaderni» erano considerati all'avanguardia perché avevano
«rotto» con il Pci e si mettevano in una posizione critica nei confronti
dell'Urss. Ha detto Bellocchio al «Corriere della Sera» del 26 settembre
1992: «La polemica con il partito comunista è stato uno dei leitmotiv
della rivista fin dall'esordio. Tra noi c'era di tutto, dai trotzkisti agli
anarchici. Non avevamo una linea politica definita. Ma nell'insieme rappresentavamo
l'area della sinistra non istituzionale Quel che rimproveravamo ai comunisti
era la doppiezza, la fedeltà alla dottrina unita al tatticismo, la non
volontà di fare opposizione dura, la tendenza al consociativismo. (...)
Davamo per scontato che in Urss non ci fosse il vero socialismo, che quel sistema
fosse un fallimento (...)».
Visione profetica, socialismo illuminato? Non pare propriO, perché anche
l'area della «sinistra non istituzionale» dei Quaderni Piacentini»
si ispirava a regimi che pochi anni dopo si sarebbero rivelati come spietate
dittature. Ancora Bellocchio al «Corriere della Sera», stessa intervista:
«I nostri modelli erano la Cina di Mao, Cuba, il Vietnam».
E non è un caso se quelli diventarono poi i modelli anche della contestazione
del Sessantotto e degli anni seguenti. Fu anche grazie a queste riviste che
il movimento finì con il riporre nel marxismo-leninismo-maoismo le sue
speranze di un mondo migliore, e con il colorare di rosso la sua voglia di Guerra».
MARCUSE E IL GRANDE RIFIUTO
Ma
il vero profeta della protesta è un uomo che sbucò quasi dal nulla.
Nato a Berlino nel 1898 ed emigrato negli Usa subito dopo l'ascesa al potere
di Hitler, Herbert Marcuse era, nei fatidici anni Sessanta, un professore di
filosofia all'Università di San Diego, in California.
Discepolo di Heidegger e collaboratore di Horkheimer e Adorno, esponente della
Scuola di Francoforte, prima di approdare a San Diego aveva insegnato alla Columbia
University di New York e alla Brandeis University di Boston. Aveva pubblicato
alcuni saggi: Ragione e rivoluzione nel 1941, Eros e civiltà nel 1955,
Marxismo sovietico nel 1958. Libri che lo avevano portato, alla soglie dei sessant'anni,
a una qualche notorietà. Ma negli ambienti degli addetti ai lavori, e
non certo, s'intende, fra le grandi masse.
Fu solo negli anni della contestazione, e quindi quando era ormai vicino ai
settant'anni, che questo professore di filosofia diventò un «caso»
mondiale.
Alla ribalta della notorietà planetaria, Marcuse arrivò grazie
a quel L'uomo a una dimensione che fu la sacra scrittura dei contestatori di
tutto il mondo. Pubblicato nel 1964, L'uomo a una dimensione venne qualche anno
dopo tradotto in decine di lingue e trovò, praticamente in ogni paese
dell'Occidente, un editore pronto a favorirne una prodigiosa diffusione (Einaudi,
in Italia).
Nacque così il «ma-ma-maismo», un'ideologia composita derivata,
appunto, dalla triade Marx Mao Marcuse, ed eletta dai sessantottini al rango
di nuovo Vangelo. Cos'avesse da spartire Marcuse con Marx e Mao, non è
facile da comprendere, e pare che lui stesso non lo capì mai. Nei suoi
saggi, il professore non risparmiò severe critiche a questi due personaggi
che poi sarebbero diventati suoi imbarazzanti compagni di viaggio.
Certo, Marcuse respingeva la società dei consumi di tipo nordamericano,
ma la proclamava, tuttavia, preferibile agli stati totalitari di sinistra. Scrisse
infatti nel suo La tolleranza repressiva (1965): «Con tutte le sue limitazioni
e le sue distorsioni, la tolleranza democratica è in ogni circostanza
più umana di un'intolleranza istituzionalizzata che sacrifica i diritti
e la libertà delle generazioni viventi a vantaggio delle generazioni
future».
Non bisogna stupirsi se venne infilato, nonostante queste sue precisazioni,
fra i profeti della rivoluzione comunista. Marcuse non è facile da capire
(«Un sociologo che oggi va per la maggiore e che usa esprimersi in formule
più indecifrabili dei logaritmi» scrisse allora di lui Indro Montanelli),
e forse è proprio per questo che fece tanta presa. Nulla attrae i giovani,
in certi casi, più del sofisma. E nei sofismi, Marcuse era straordinario.
Ad esempio quando, dopo aver sostenuto la tesi che sopra abbiamo riportato fra
virgolette, faceva presente che la società industriale avanzata reprime
la libertà attraverso la tolleranza: Marcuse, insomma, diceva che la
concessione della libertà di espressione è una forma di repressione,
perché evita il possibile insorgere di una protesta o di una rivolta,
e garantisce pertanto il mantenimento dell'ordine costituito.
Benché (indebitamente) associato a Marx e Mao Tze Tung, e benché
(giustamente) considerato un ideologo, Marcuse va tuttavia ricordato come l'ispiratore
solo del primo Sessantotto, di quello non ancora egemonizzato dall'idea-progetto
di una società comunista. Marcuse incitava alla rivolta ma non proponeva
un preciso modello di Stato. Vagheggiava un indefinito mondo futuro nel quale
fosse possibile un'assoluta libertà. Per risolvere i mali della società,
proponeva un Grande Rifiuto che doveva portare a un mondo post-tecnologico,
di integrale individualismo e umanesimo.
Ciò che Marcuse propugnava, pur confusamente (in ogni sua opera viene
concessa ampia possibilità di salvezza a quelle persone e quelle istituzioni
contro cui dice di scagliarsi), non era certo collocabile sui binari dell'ortodossia
comunista. «Marcuse» scrisse allora Raffaello Franchini «è
soprattutto un pensatore perplesso di fronte alla smentita che la nostra epoca
ha dato delle previsioni di Marx». E infatti proprio il suo libro più
famoso, L'uomo a una dimensione appunto, esordiva con una dimostrazione di quanto
fosse ormai superata l'analisi marxista della società.
Ha scritto Lucio Colletti: «Povera di indicazioni politiche, la Scuola
di Francoforte era tentata, alternativamente, o dal vagheggiamento del ritorno
puro e semplice all'età patriarcale, oppure dall'idea che l'emancipazione
dell'uomo dovesse realizzarsi attraverso un tipo di scienza e di tecnica radicalmente
nuovo, difficilmente immaginabile e tuttavia completamente diverso da quello
che la scienza e la tecnica erano state finora».
IL PASTICCIO
Quanto
i giovani del Sessantotto fossero consapevoli di questo pasticcio, non è
facile dirlo. Fermo restando che, come sempre accade, la maggioranza si accodò
senza approfondire troppo, e che furono in pochi a tirare le fila ideologiche
della contestazione, restano due fatti che sembrano dimostrare una certa contraddizione
interna al movimento.
Il primo fatto -lo abbiamo visto- è che nei cortei si inneggiava a Marx,
Lenin, Mao Tze Twng e a Marcuse; e il professore di San Diego veniva così
affiancato a personaggi in cui non si riconosceva.
Il secondo fatto è che, pur gridando «Viva Marx e viva Lenin»,
nessun sessantottino volle mai riconoscersi nel sistema che in quel momento
-lo si voglia ammettere o no- rappresentava l'ortodossia marxista-leninista,
e cioè l'Unione Sovietica di Breznev. E il partito che in quel momento
era ancora il custode dell'eredità marxista-leninista in Italia, cioè
il Pci, ebbe con i sessantottini (dopo gli iniziali tentativi di aggancio, presto
falliti) un rapporto conflittuale e spesso di scontro.
È sintomatico che i miti del Sessantotto non siano stati quelli delle
grandi conquiste dell'impero comunista, ma, piuttosto, eroi terzomondisti: Ho
Chi Minh, Che Guevara, Fidel Castro, Nelson Mandela, il prete-guerrigliero Camillo
Torres. La stessa Cina di Mao veniva considerata qualcosa di «altro»,
di più «evoluto» rispetto al socialismo reale dell'Urss.
E infatti Jean-Paul Sartre, un altro pensatore a cui si ispirò buona
parte del Sessantotto anche italiano, ebbe sempre un rapporto pessimo con il
Partito comunista francese e quindi con l'ortodossia marxista leninista: ma
nel 1970 andò a dirigere «La cause du Peuple» che era un
giornale di ispirazione, appunto, maoista.
Anche se tutta collocabile nell'area dell'estrema sinistra, l'ideologia del
Sessantotto fu -in definitiva- complessa e frastagliata. Convivevano da una
parte il mito tutto illuminista del mondo nuovo e della società perfetta,
che l'ideologo ridisegna a tavolino secondo Ragione; e, dall'altra, il sogno
dell'utopia al potere, del rifiuto di ogni autorità.
Nella confusione, ben pochi sapevano in realtà a cosa credevano e cosa
volevano. Tutti si dicevano marxisti. Ma, come osservò Raymond Aron,
i giovani avevano «la particolarità di ignorare l'economia politica
del tempo». Di Marx, gli studenti avevano letto tutt'al più le
poche pagine del Manifesto del 1848, non certo i tre volumi del Capitale.
Si pensava che per dirsi marxisti bastasse volere il socialismo o il comunismo,
essere anticapitalisti, battersi per una vita modesta e libera in una società
egualitaria. Non a torto la scrittrice Vittoria Ronchey, ragionando sull'esperienza
dell'insegnamento in un liceo, nel 1975 intitolò Figlioli miei, marxisti
immaginari un suo libro divenuto famoso.
V - I GRUPPI
Confusioni
e contraddizioni ideologiche a parte, resta il fatto che, come detto, il movimento
del Sessantotto è tutto collo cabile all'estrema sinistra, e già
dopo le primissime battute -lo abbiamo visto dalle dichiarazioni dello stesso
Capanna- imboccò la strada che doveva portare alla «società
comunista». Per realizzare la quale, dopo la fase dello spontaneismo,
si passò a quella dell'organizzazione.
La logica era quella di sempre, secondo cui le verghe hanno più forza
se riunite in fascio. Ma -secondo la tradizione della sinistra italiana- i litigi,
le divisioni la radicalizzazione delle proprie convinzioni portarono alla nascita
non di un'unica forza Rivoluzionaria», bensì a una nebulosa di
gruppi e gruppuscoli, alcuni dei quali composti magari da poche decine di persone,
spesso in aperto contrasto fra loro. Nel solo 1968 -si calcola- nacquero circa
cento gruppi. D'altra parte, se nel cosiddetto arco costituzionale la sinistra
era frammentata in quattro partiti (Pci, Psi Psiup e Psdi), non c'è da
stupirsi se nell'area extraparlamentare lo sminuzzamento raggiunse livelli a
volte paradossali.
C'È MOVIMENTO E MOVIMENTO
In
fondo, il salto dal Sessantotto a ciò che ne seguì sta in un'iniziale
che da minuscola diventò maiuscola. Il salto, insomma, ci fu quando il
movimento studentesco diventò Movimento studentesco.
Quello che doveva essere, appunto, un «movimento» degli studenti
che «prendevano coscienza» prima delle inadeguatezze della scuola
e poi di quelle della società, si trasformò in una vera e propria
organizzazione politica. Il Ms di Mario Capanna, Luca Cafiero e Salvatore Toscano
non era già più, nel 1969, l'espressione di «tutti»
gli studenti e di «tutta» la rivolta. Era una formazione, una sorta
di partito con idee, progetti e finalità. Che non tutti condividevano.
E dalle costole del movimento studentesco (con la minuscola) nacquero -oltre
al Ms- Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio e così via.
C'è da dire che anche prima della contestazione gli studenti avevano
le loro brave organizzazioni: le quali non erano però che la proiezione,
nelle università, dei partiti istituzionali. L'Agi rappresentava i democristiani,
il Glui i liberali, l'Ugi i socialisti e i comunisti. Tutta roba che in pratica
non contava quasi niente, e che il Sessantotto spazzò via in breve tempo.
Paradossalmente (ma non troppo) l'unica a resistere fra le vecchie organizzazioni
universitarie fu quella di estrema destra, il Fuan: tagliati fuori prima della
contestazione, i fascisti rimasero nel ghetto anche e ancor di più dopo
l'esplosione del «movimento». E quindi poterono continuare la loro
isolatissima battaglia senza dover cambiare nome. Estremisti da emarginare erano
considerati prima, quando governava il miniparlamento Ugi-Agi-Glui, ed estremisti
da emarginare continuavano a rimanere anche dopo.
I
capi della contestazione non fecero alcuna fatica a sbarazzarsi dei vecchi organi
rappresentativi degli studenti. Il primo movimento studentesco si consolidò
soprattutto a Milano, alla Statale.
Cinque, sei, al massimo dieci persone dotate di carisma particolare riuscirono
ad attirare sotto le proprie bandiere la stragrande maggioranza degli studenti
decisi a «far casino». Di Capanna e delle sue doti oratorie s'è
detto. Michelangelo Spada non gli era da meno, quanto a capacità di far
presa: soprattutto sulle ragazze, che se lo contendevano. E quando proprio lui
-il più bello- portò via la donna a un compagno, qualcuno nel
movimento commentò che, in fondo, non era cambiato niente. E' un episodio
banale, ma dimostra come le tanto disprezzate scale di valori del mondo borghese
si riproponevano spesso, paro paro, anche fra i rivoluzionari. Quel piccolo
fatto fece riflettere i più attenti.
Luciano Pero era invece l'intelligente, il colto, l'ideologo.
E al di sotto di questo triumvirato Capanna-Spada-Pero si muovevano altri personaggi
di vario calibro. Popi Saracino, futuro capo dei «katanga», il servizio
d'ordine del Ms il cui motto, «Prendi la spranga e diventa katanga»,
si ispirava ai mercenari congolesi affiancati alla repressione della rivoluzione
anticoloniale. L'assistente Luca Cafiero, considerato dai compagni un sincero
rivoluzionario ma preso un po' in giro perché educato a Oxford e perché
girava in Triumph. Poi Ivan Della Mea, e qualche altro.
Le prime assemblee, pletoriche e osannanti, assomigliavano molto -anche se ai
sessantottini questo paragone apparirà senza dubbio odioso- a certe adunate
oceaniche dell'Italia e della Germania anni Trenta. Nella Milano del 1969 la
meta a cui tutto sacrificare non era più la grandezza della Patria, ma
la società comunista: non variava tuttavia l'assoluta e a volte acritica
adesione alle direttive del «capo».
Il movimento studentesco diventò Movimento studentesco proprio quando
venne meno questo aspetto plebiscitario e quando le diversità fra gli
studenti cominciarono a prendere corpo e nome. Quando, appunto, altri leader
adottarono all'unico Verbo le variazioni che ritenevano indispensabili per il
trionfo finale delle masse di studenti e operai. Quando, insomma, nacquero gli
altri gruppi.
E ALLORA LOTTA
Di
questi altri gruppi, Lotta continua fu il più significativo, e quello
destinato -nel decennio 1968-1977- a lasciare il solco più profondo.
Nacque nel 1969 dalle ceneri de Il Potere Operaio di Pisa (lo ripetiamo a costo
di essere noiosi: è altra cosa rispetto al Potere operaio di Franco Piperno
e Toni Negri), su iniziativa di colui che poi, di Lotta continua, diventerà
l'indiscusso leader, Adriano Sofri.
Triestino di origine ma toscano di adozione, laureato alla Normale, già
venuto alla ribalta per una clamorosa contestazione «in diretta»
a Palmiro Togliatti venuto all'università per tenere una lezione-conferenza,
Sofri faceva in quel tempo il professore di lettere. Piccolo, smilzo, nervoso,
molto combattivo e molto dotato quanto a intelligenza, cultura e capacità
dialettica, era venerato come un «piccolo Lenin» dai suoi seguaci,
che non di rado tenevano una sua fotografia appesa alle pareti delle sezioni.
Lasciò il gruppo de Il Potere Operaio con il progetto di allargare la
contestazione dagli atenei alle fabbriche, e andò egli stesso, insieme
con alcuni compagni, a volantinare davanti alla Saint Gobain a Pisa, alla Ercole
Marelli, alla Falck, alla Breda e alla Pirelli a Milano, alla Fiat a Torino.
Molti di quei volantini finivano con la frase «... e la lotta continua»,
che diventò poi il nome del movimento.
Non è facile definire il pensiero e la linea politica di Lotta continua,
così come degli altri gruppi. Perché non è facile districarsi
nel guazzabuglio dell'estrema sinistra di quegli anni, e cogliere le differenze
fra un gruppo e l'altro senza cadere in errore.
Forse un po' grossolanamente, si può dire però che Lotta continua,
almeno nei suoi primi anni, fu il più libertario e anarcoide dei gruppi;
quello più fedele alla scintilla movimentista e spontaneista del 1968;
quello più allergico all'idea del partito-guida, anche se poi in partito
-con un capo, una segreteria nazionale e tante sezioni locali- alla fine si
strutturò.
Come molte altre organizzazioni dell'area extraparlamentare, sosteneva che il
sistema democratico-borghese si stava sempre più venando di fascismo.
Che il vero pericolo di una dittatura di destra non veniva dal Msi o da settori
golpisti dell'esercito, quanto dalla trasformazione, in senso sempre più
autoritario, del capitalismo e dei partiti di governo. Il vero fascismo che
incombeva, sosteneva dunque Lotta continua, era una forma più moderna
e più mascherata rispetto a quello del ventennio: e non a caso proprio
Lotta continua coniò il termine di «fanfascismo» durante
un'accesissima campagna promossa nel 1972 per ostacolare l'elezione di Amintore
Fanfani alla presidenza della Repubblica.
E come altri gruppi, Lotta continua riteneva l'imperialismo mondiale avviato
verso una crisi ormai irreversibile. Il momento della rivoluzione era ormai
vicino, e nei cortei i «lottatori» cantavano: «E allora lotta,
lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà».
Ciò che differenziava Lc dagli altri era la strategia disegnata per la
presa del Palazzo d'Inverno. Se Avanguardia operaia, ad esempio, era leninista,
Lotta continua era marxista. La prima sosteneva che il partito doveva essere
l'avanguardia delle masse, la guida verso la rivoluzione; la seconda diceva
invece che le masse non avevano alcun bisogno di essere guidate, e che dovevano
fare esse stesse la rivoluzione. Mentre Lenin diceva: «Bisogna porsi alla
testa delle masse», Sofri ribatteva: «Bisogna essere alla testa
delle masse».
Lotta continua dava così l'idea di una vera democrazia dal basso, e di
massa. Anche per quanto riguarda il discorso della violenza. Per Lotta continua,
la violenza delle masse era la risposta naturale a quella che considerava la
violenza interna, ontologica del sistema borghese. Si alla lotta armata, quindi,
ma nelle piazze, popolo contro servi dei borghesi, e non con le bombe o con
gli attentati compiuti da avanguardie organizzate come le Brigate rosse. Lotta
continua fu così protagonista di innumerevoli scontri con la polizia
e il suo servizio d'ordine è ricordato come uno dei più violenti
e spietati: ma, a parte l'omicidio del commissario Calabresi (per il quale comunque
i militanti di Lc coinvolti sono stati tutti assolti, sia pure dopo quattro
processi: manca solo la sentenza definitiva da parte della Cassazione), non
sono mai stati attribuiti a Lc episodi di terrorismo.
Ma
paradossalmente, proprio quello che deteneva, con vanto, l'immagine di non-partito,
di movimento tutto spontaneismo, poteva esibire un'organizzazione potente e
precisa come nessun altro gruppo. Ha scritto Massimo Fini in una «mitica»
mappa dei gruppi extraparlamentari pubblicata su «Linus» nell'ottobre
del 1973:
«Lotta continua è strutturata come un partito politico. C'è
una segreteria, un esecutivo nazionale, un comitato centrale. Le dimensioni
sono nazionali, le sedi più di duecento con prevalenza al Sud, dove Lc
raccoglie molti adepti nel sottoproletariato. Capo assoluto è ancora
Adriano Sofri (34 anni). Nella complessa gerarchia del gruppo seguono Giorgio
Pietrostefani (29), Guido Viale (28), Luigi Bobbio (30), Mauro Rostagno (32)...
Se Sofri è Mao, Pietrostefani è il Lin Piao della situazione,
il braccio destro politico e la formidabile mente organizzativa del gruppo.
Viale è lo storico mentre Bobbio è il superteorico, l'ideologo
alla Suslov che sta dietro le quinte e comanda senza parere. In quattro anni
Pietrostefani (figlio del prefetto di Arezzo, n.d.a.) ha costruito una rete
organizzativa territoriale capillare, con delegati per scuola, per fabbrica,
per quartiere. Sono state create commissioni nazionali di studio (commissione
scuola, commissione fabbrica, commissione quartiere, commissione esteri). I
lottatori sono attivissimi nelle caserme con i PID (Proletari in Divisa) e nelle
carceri con "I dannati della terra"».
Lotta continua ebbe anche due giornali. Il primo, chiamato appunto «Lotta
continua», cominciò le pubblicazioni come settimanale il 1°
novembre 1969: dodici pagine, molte foto e fumetti, 65.000 copie diffuse dai
militanti. Direttore era Piergiorgio Bellocchio, lo stesso dei «Quaderni
Piacentini». Si leggeva nella presentazione: «L'idea di questo giornale
è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli
studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale, in una prospettiva
rivoluzionaria». «Lotta continua» diventò quotidiano
l'11 aprile 1972 e visse fino agli anni Ottanta.
Il secondo giornale era invece un settimanale diffuso solo al Sud, e si chiamava
«Mo' che il tempo s'avvicina». Il titolo -a tutta pagina- del primo
numero nel novembre del 1971, era sbrigativo: Gli sfruttati del Sud Per i padroni:
Tutti delinquenti.
«Mo' che il tempo s'avvicina» ebbe vita breve: quattro mesi. Ma
già nel gennaio del 1972 poté annunciare l'apertura, al Sud, di
26 sedi del movimento.
MOLOTOV E CHAMPAGNE
Il
problema di Potere operaio era quello di trovare qualche operaio. Almeno per
esibirlo durante le manifestazioni.
Figlio anch'esso de Il Potere Operaio di Pisa, era perlopiù composto
da borghesi, intellettuali, figli di papà. Tremila adepti (secondo una
stima del 1972), sessanta sezioni in tutta Italia, un esecutivo di trentacinque
membri e un ufficio politico di sei: questa la «macchina» schierata
per una rivoluzione che andava fatta, secondo una sferzante battuta messa in
giro da altri gruppi dell'estrema sinistra, «con molotov e champagne».
E proprio con una bottiglia di champagne (Moet et Chandon, per la precisione)
era confezionata una delle 250 molotov sequestrate dalla polizia, a capodanno
del '72, a Milano, nel corso di un'operazione in cui furono arrestati due militanti
di «Potop», come veniva chiamato allora Potere operaio: il marchese
Francesco Mori Ubaldini degli Alberti Lamarmora, ventunenne con palazzo nobiliare
a Biella, e Francesco Bellosi, figlio di un sindaco socialista della provincia
di Como.
Capi dell'organizzazione, all'inizio degli anni Settanta, erano soprattutto
tre: Franco Piperno, fisico ricercatore all'Università di Roma; Oreste
Scalzone, ex leader del movimento studentesco della capitale, e Toni Negri,
docente universitario a Padova, considerato l'ideologo del gruppo. Nomi più
tardi ricomparsi in inchieste sul terrorismo. Del gruppo veneto faceva parte
anche, inizialmente, Massimo Cacciari, poi rifluito nel Pci. Emilio Vesce era
invece il direttore del settimanale.
Potere
operaio fu un gruppo violento, zeppo di cattivi maestri: di questo, loro stessi
non fecero mai mistero. Si leggeva sul loro giornale, «Potere operaio»:
«Organizzando la nostra violenza possiamo avere tutto quel che vogliamo...
L'unica soluzione è la violenza aperta, e dimostrare che la violenza
paga... Come diceva Lenin, la democrazia è il fucile sulle spalle degli
operai».
In quest'ottica persino il servizio militare veniva, contrariamente a quanto
pensavano quasi tutti gli altri gruppi di estrema sinistra, considerato utile.
Sempre dal loro giornale: «Riteniamo che il servizio militare possa servire
ai proletari: è giusto imparare a maneggiare le armi e a combattere;
si tratta di nozioni utili. Una forza di masse armate può avere anche
un altro uso. Diventeremo i soldati rossi dell'insurrezione».
Proclami sterili? Minacce a cui non seguivano i fatti? Evidentemente no. Il
giornale di Potere operaio non si limitava alle enunciazioni di idee e propositi,
ma teneva informati i lettori anche con «bollettini militari delle lotte».
Come quello pubblicato nel marzo 1971 in cui si elencavano le azioni dei due
mesi precedenti, azioni definite «primi passi della lunga marcia che si
concluderà con l'eliminazione fisica, oltre che dei servi in borghese
e in divisa, di chi li usa, li paga e li protegge».
Il resoconto delle «azioni» era lungo e dettagliato. Prima una serie
di aggressioni e devastazioni a persone e sedi ritenute «fasciste»,
e poi: «Ottantasette poliziotti picchiati e feriti, sabotaggi gappisti
alla Pirelli, alla Ignis, alla Fiat, alle raffinerie Garrone di Rivalta Scrivia,
alla Necchi di Pavia; bruciati dalle Brigate rosse tre camion di gomme Pirelli
a Lainate e incendiate tre auto di spioni alla Pirelli; a Roma incendiata la
portineria della casa di Restivo, ministro di polizia, distrutte tre "gazzelle"
della polizia e l'auto del preside fascista Liberti, devastato l'ufficio di
Valerio Borghese, attaccate le filiali della Banca d'America e d'Italia, del
Banco di Roma, del Banco di Napoli, del Banco di Santo Spirito, della Fiat,
della Gulf».
Stando così le cose, non poté che abortire, nel gennaio del 1971,
un tentativo di alleanza con il gruppo del Manifesto, che definì la linea
di Potop «politicamente ingiustificata» e «un suicidio politico».
Nel luglio del 1973, a Rosolina, quattrocento delegati sancirono, di fatto,
la fine di Potere operaio: lo sfaldamento e la scissione in più gruppi
fu tale da seppellire armi e bagagli.
Ma in , realtà i «potopisti» continuarono ad agire in gruppi
diversi, spesso sommersi, e torneranno a far parlare di sé alla fine
degli anni Settanta nei «collettivi padovani» e nella rivista «Rosso»
di Toni Negri, nell'altra rivista «Rosso nel movimento» di Oreste
Scalzone, e nell'Autonomia operaia.
Il lungo black-out dei quadri di Potere operaio si interruppe infatti con il
movimento del Settantasette, e nei periodi bui del dopo-sequestro Moro. Si leggeva
nel 1979 su una rivista molto vicina ai «potopisti», «Preprint»:
«Coniugare la terribile bellezza del 12 marzo 1977 per le strade di Roma
con la geometrica potenza dispiegata in via Fani diventa la porta stretta attraverso
cui può crescere o perire il processo di sovversione in Italia».
Ma qui siamo già in un'altra storia.
DURI E PURI
Torniamo
al 1968 e dintorni. E ai militanti «duri e puri» per eccellenza,
quelli di Avanguardia operaia.
Nata a Milano proprio nel '68 (dirigenti di spicco: Massimo Gorla e Silvana
Barbieri), verso il 1973 Avanguardia operaia poteva vantare, nella costellazione
extraparlamentare, la maggioranza numerica nel capoluogo lombardo, dove contava
settemila militanti. Il nucleo originario era formato da trotzkisti transfughi
della quarta Internazionale e approdati al marxismo-leninismo dopo aver «lavorato»
(ma solo politicamente) con gli operai delle fabbriche del Nord. Avanguardia
operaia era molto forte nelle fabbriche medio-piccole, aveva egemonizzato i
Cub (Comitati unitari di base) della Pirelli, e nonostante tutto aveva cercato
di non perdere il contatto con gli studenti.
Sempre intorno al '73, si era data una struttura nazionale, facendo proseliti
soprattutto a Torino, a Porto Marghera, a Roma e a Palermo, e «assorbendo»
il Circolo Lenin di Mestre, il Circolo Rosa Luxemburg di Venezia, il Circolo
Carlo Marx di Perugia, i circoli Lenin di Umbertide e di Foligno, l'Unità
proletaria di Verona e la Sinistra operaia di Sassari.
Entrare in Ao non era facile. Bisognava, innanzitutto, essere presentati da
un compagno; poi occorreva passare per una specie di noviziato e, infine, sostenere
veri e propri esami ideologici. Tutto ciò perché Ao aveva il terrore
degli «infiltrati», cioè di fascisti, poliziotti, agenti
segreti, spie e quant'altro potesse minare, dall'interno, l'organizzazione.
Ma tanto scrupolo nella selezione dei militanti aveva anche un'altra ragion
d'essere. Avanguardia operaia, come detto, era il coté leninista della
sinistra extraparlamentare: cioè il partito-guida, l'avanguardia delle
masse. La struttura, pertanto, era molto rigida, con una scuola-quadri efficientissima,
e un indottrinamento degno di quello sovietico.
C'era, anche qui, un giornale, che anche qui si chiamava come il gruppo; e poi
una rivista teorica, chiamata «Politica comunista».
E anche qui il ricorso alla violenza era prassi. Se Lotta continua era specialista
negli scontri di piazza, e quindi nella guerriglia con la polizia durante le
manifestazioni, e se Potere operaio flirtava con i primi terroristi, Avanguardia
operaia si distingueva nelle imboscate ai «fascisti», nelle aggressioni
venti-contro-uno, negli agguati, insomma, contro bersagli precisi. L'assassinio
del diciannovenne missino Sergio Ramelli e l'attentato al bar di largo Porto
di Classe a Milano -di cui parleremo più avanti- furono opera di «commando»
di Avanguardia operaia, e rimangono nella storia di quegli anni -terrorismo
a parte- come due degli episodi più vili e incomprensibilmente crudeli.
Verso la metà degli anni Settanta, Avanguardia operaia comincerà
una serie di trasformazioni e fusioni che porterà poi alla nascita di
Democrazia proletaria.
I FIGLI DI CAPANNA
S'è
detto che il movimento studentesco, a un certo punto, diventò Movimento
studentesco. Dell'antico triumvirato Capanna-Spada-Pero rimase solo il primo,
essendo il secondo e il terzo emigrati in Lotta continua. Dell'antico spirito
movimentista non rimase, invece, più nulla.
Il Movimento studentesco, rispetto alla massa di giovani ribelli che incarnava
nel 1968, non aveva che il nome. Ma guai, allora, a farlo notare a Capanna e
ai suoi fedelissimi, che del Sessantotto si consideravano gli unici veri eredi.
Per loro, Lotta continua, Avanguardia operaia e compagni non erano, rispetto
alla «contestazione globale», che figli di secondo letto.
Sta di fatto, però, che il Ms dei primi anni Settanta era cosa ben diversa
dalla massa eterogenea del '68, e non riuscì mai a prendere la guida
della contestazione come sperava, tanto da rimanere arroccato alla Statale di
Milano, via Festa del Perdono, senza «sfondare», al massimo, che
in qualche liceo.
I militanti a tempo pieno non erano più di cinquecento, fra cui i temibili
«katanga» di cui s'è accennato: sprangatori dediti, spesso,
più al pestaggio di altri giovani di estrema sinistra che non a quello
dei «fascisti». «Fascista», del resto, veniva dal Ms
etichettato chiunque la pensasse in modo diverso.
Fra i pestaggi «storici» del Ms alla Statale si ricordano quello
del sindacalista della Uil Giuseppe Conti, accusato tra l'altro -con sorprendente
moralismo bacchettone- di alzare il gomito e amare la notte. Poi quello dello
studente Joseph Israeli, colpevole di essere ebreo in un momento in cui c'era
il mito della causa palestinese: il Movimento studentesco lo definì,
in un volantino, «uno dei responsabili dei servizi segreti israeliani
incaricati in Italia di svolgere opera di spionaggio e di organizzare gli arruolamenti
nell'esercito israeliano». Quindi quello di alcuni militanti di Lotta
continua che s'erano permessi di volantinare davanti alla Statale.
Scrisse allora il giornalista Massimo Fini: «Se questo tipo di violenza
piace molto ai katanga (i picchiatori più temuti di tutta la sinistra
extraparlamentare), piace molto meno a Mario Capanna, costretto ad acrobazie
verbali e ideologiche per giustificarla. Ma Capanna non è più,
da anni, il padrone del Ms. Ne è il leader carismatico, osannato, idolatrato,
riverito ma anche mummificato. Il vero padrone del Movimento studentesco si
sussurra sia Turi Toscano. Più potente di Capanna si dice sia anche Luca
Cafiero, l'attuale capo dei katanga. E più non dimandare. Dietro a questi
tre, ma a notevolissima distanza, si affanna Emanuele Criscione, che rincorre
da sempre una poltrona di leader».
Spiega ancora Massimo Fini che «se gli Lc sono marxisti e gli Ao sono
leninisti, gli Ms sono stalinisti. Non per niente davanti alla Statale si può
sentire urlare lo slogan rabbrividente "Viva Stalin Viva Beria Viva la
Gpu" (la Gpu, per chi non lo sapesse, era la famigerata polizia politica
di Stalin che, sotto Beria, raggiunse nefasti da Gestapo)».
Non
a caso, fra i tanti movimenti extraparlamentari, il Ms fu quello che più
a lungo flirtò con il Pci. Dopo le prime dichiarazioni di guerra del
'68, Capanna pensò che in fondo il Parlamento era anch'esso un luogo
di lotta, anche se non il principale, e il lavoro politico da compiere era quello
di spostare a sinistra il Partito comunista.
Un lavoro, tuttavia, che era destinato a fallire, e a trascinare nella bancarotta
anche il suo stesso ideatore. La linea morbida, cioè l'apertura ai partiti
della sinistra tradizionale, costò a Capanna la leadership e persino
la stessa permanenza nel Ms.
Mario Capanna fu addirittura espulso dal Ms (anche se ufficialmente si parlò
di dimissioni) il 5 febbraio 1974, al termine di una sorta di «25 luglio»
del Movimento studentesco, cioè di un ribaltone interno che portò
Luca Cafiero e Salvatore Toscano al governo del movimento. Per le sue aperture,
Capanna venne accusato di «deviazionismo di destra» e buttato fuori
insieme con gli amici Giuseppe Liverani e Fabio Guzzini.
La spaccatura fu, tra l'altro, sul nome di Giuseppe Stalin: ripudiato da Capanna
e i suoi, venerato da Cafiero e Toscano. I quali vinsero la battaglia del Ms
soprattutto perché, mentre Capanna si era premurato di guardare all'esterno,
e di tenere ottime public relations con stampa e intellettuali, loro si erano
preoccupati di conquistare i quadri organizzativi del movimento, compreso il
servizio d'ordine dei katanghesi. E così, quando -il 2 febbraio 1974-
i quattrocento militanti del Ms si riunirono in assemblea per decidere quale
delle due linee politiche dovesse prevalere, Capanna fu messo in minoranza.
La fine del barbuto leader del Sessantotto, comunque, precedette solo di poco
quella della sua creatura. Il Movimento studentesco di Cafiero e Toscano non
durò a lungo, e a Milano il divario numerico a favore di Avanguardia
operaia divenne presto schiacciante. Nel febbraio del 1976, il Ms scomparve
definitivamente per dar vita al Mls, Movimento lavoratori per il socialismo.
IL CLUB DEI RIBELLI
Più
che un movimento, il Manifesto fu -ed è- una sorta di circolo di intellettuali,
non privo di caratteristiche fortemente elitarie, che vuol fungere, oltre che
da fronte d'opposizione, da coscienza critica per tutta la sinistra.
«Manifesto» è innanzitutto il nome del giornale (rivista
dal giugno del 1969, quotidiano dall'anno successivo) fondato dal gruppo di
Rossana Rossanda che uscì dal Pci -sbattendo la porta- nel 1968, dopo
una durissima polemica sull'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Secondo
la maggioranza del partito, i carri armati dell'Armata Rossa non erano entrati
a Praga per seppellire le istanze di libertà soffocate dal socialismo
reale, ma rappresentavano piuttosto il solito «aiuto fraterno» che
la grande Unione Sovietica portava alle popolazioni sobillate da agenti provocatori
al servizio dell'imperialismo americano. E così quando la Rossanda -con
Magri, Pintor, Natoli e altri- chiese che il partito prendesse energicamente
posizione contro l'intervento sovietico, in comitato centrale la discussione
fu durissima, e Natta propose per i contestatori l'immediata radiazione.
La scissione fu la conseguenza inevitabile. Nacque così la rivista che
già nel primo numero attaccò duramente l'Urss e la visione ortodossa
del comunismo, sostenendo fra l'altro che occorreva rivedere la propria fede
alla luce dei cambiamenti del capitalismo e della società.
Non che fossero illuminati, la Rossanda e gli altri, dal dono della profezia:
accanto alla reprimenda antisovietica, infatti, si esaltava la Rivoluzione culturale
cinese, cioè uno dei più bestiali tentativi di lavaggio del cervello
di massa, accompagnato da un massacro dalle proporzioni ancora incalcolabili.
Ma il Manifesto era comunque, nell'ambito della sinistra, una formazione nuova,
che criticava l'ortodossia comunista e al tempo stesso prendeva le distanze
dai movimenti extraparlamentari che predicavano, e praticavano, la violenza.
Numericamente, il Manifesto non è mai stato un gruppo molto significativo.
Un test esemplare fu quello delle elezioni politiche della primavera del '72,
quando il gruppo decise di presentarsi con una lista propria, anche con lo scopo
di mandare in Parlamento (e quindi di far uscire dal carcere) l'anarchico Pietro
Valpreda, detenuto per la strage di piazza Fontana.
Fu un buco nell'acqua: la lista del Manifesto prese 220.000 voti e nessun seggio.
Valpreda rimase in galera, e il movimento dovette riporre nel cassetto il sogno
di guidare un'estrema sinistra finalmente unita.
Non rimase dunque che tentare una guida, se non politica, almeno culturale.
Il che attirò al Manifesto non poche ironie da parte degli altri gruppi,
che lo chiamavano «la pulce sull'elefante sindacale» per la sua
pretesa di dettare la linea alle confederazioni sindacali in tema di lotte operaie.
Fedele al cliché che la vuole sempre divisa e sempre litigiosa, la sinistra
non guardò mai di buon occhio questi intellettuali un po' snob. Quando
uscì il primo numero del quotidiano (formula rivoluzionaria, quattro
pagine e 50 lire), «Lotta continua» lo salutò con un editoriale
dal titolo Un giornale che non interessa e il Pci, che come al solito badava
soprattutto al sodo, chiese: «Chi li paga?», insinuando il sospetto
che il giornale fosse finanziato dagli agrari.
Il «manifesto», inteso come giornale, è tuttavia quanto di
più professionalmente valido sia nato in quegli anni: e il fatto che
a quegli anni sia sopravvissuto è un segno inequivocabile della sua superiorità
sugli altri fogli partoriti dalla sinistra extraparlamentare.
BIGOTTI ROSSI
Fra
tutti i gruppi dell'epoca, il più rigido e il più esigente fu
senz'altro il P.C.(m.l.)I., sigla macchinosa che sta a indicare il Partito Comunista
(marxista leninista) Italiano.
Nato a Livorno nel 1966, il P.C.(m.l.)I. diventò poi, nell'estate del
1968 a Milano, l'Unione dei marxisti leninisti italiani. Unione stava a indicare
la fusione di due gruppi di fuoriusciti dal Pci, Falce e Martello e Bandiera
Rossa. Leader erano Luca Meldolesi, Aldo Brandirali (negli anni Novanta passato
a Comunione e liberazione e alla Democrazia cristiana) e Fausto Lupetti. Un
posto non trascurabile lo occupava Enzo Lo Giudice, l'avvocato che nel 1992,
durante l'inchiesta Mani pulite, ha difeso l'allora segretario socialista Bettino
Craxi.
Come se non bastasse la confusione che regnava nell'area della sinistra ultrà,
i militanti di questo gruppo -che come abbiamo visto aveva già due nomi:
Partito Comunista (marxista leninista) Italiano e Unione- venivano chiamati
in un altro modo, gli «emme-elle» (marxisti-leninisti, appunto);
ma il gruppo stesso è addirittura ricordato con un'altra denominazione:
Servire il Popolo. Che era poi la testata del settimanale dell'organizzazione.
E poiché non c'è nome senza soprannome -il lettore ci perdoni:
a questo punto si sarà già perso, ma non è colpa nostra-
il Partito Comunista (marxista leninista) Italiano/Unione dei marxisti leninisti
italiani/emme-elle/Servire il Popolo veniva beffardamente chiamato «Servire
il pollo».
Gli altri gruppi si divertivano infatti a sfottere questo movimento che, pur
essendo nato nel 1968, con lo spontaneismo e l'anarchismo del Sessantotto ben
poco aveva a che fare. Il Partito Comunista marxista leninista aveva una struttura
e una gerarchia rigidissime, disegnate in carta carbone su quelle del Partito
comunista cinese, considerato quanto di meglio l'umanità avesse potuto
produrre. Mao era il dio assoluto, per quelli di Servire il Popolo, che si proponevano
principalmente di assolvere a una funzione di propaganda. La verità era
quella, e bisognava diffonderla fra gli operai, fra tutti i proletari.
Violentissimi, ma più a parole che nei fatti, quelli di Servire il Popolo
esigevano dai loro militanti una disciplina estremamente dura. Nessuno poteva
tenere per sé più di settantamila lire al mese (il rimanente,
ça va sans dire, andava al partito); bisognava sottoporsi periodicamente
a una confessione (autocritica) collettiva e persino i rapporti sessuali erano
rigidamente regolati: «I compagni è bene che si sposino fra di
loro». E questi matrimoni marxisti-leninisti, con il loro rigidissimo
rituale, involontaria parodia degli aborriti sposalizi borghesi, furono una
delle creature più grottesche di quegli anni.
Se
Servire il Popolo viveva nel culto idolatrico di Mao, quelli di Lotta comunista
erano invece fortemente antimaoisti. Dicevano che Mao valeva Hitler, che il
Vietnam del Nord era un paese imperialista e la Cina una repubblica socialfascista.
Tanto bastò ai «lottatori comunisti» per attirarsi l'inevitabile
qualifica di «fascisti» e per farsi massaggiare il cranio, non poche
volte, con le famigerate «aste» (vere e proprie mazze spacciate
per bandiere) e con le ancor più famigerate «Hazet 36», chiavi
inglesi solitamente usate contro i fascisti veri.
Nata nel '69 e attiva soprattutto fra Milano e Genova, Lotta comunista era composta
da poche centinaia di militanti, a loro volta ben agguerriti quanto a menare
le mani. Non ha inciso che in modo estremamente marginale, nella storia di quegli
anni. Va detto che ai «lottatori comunisti» gli altri estremisti
dovrebbero quantomeno delle scuse: l'analisi di Lotta comunista su Mao, sulla
Cina e sul Vietnam del Nord non era poi così sbagliata.
VI - A SCUOLA E IN FABBRICA
Questo,
dunque, sia pur riassunto per sommi capi, è il panorama dei movimenti
che dettavano legge nell'immediato post-1968.
Come si può notare, il numero dei militanti «effettivi» non
era poi elevatissimo: e anche sommando quelli di Lc con quelli del Ms con quelli
di Ao eccetera, non si ha una «milizia» sufficientemente agguerrita,
sulla carta, per tenere in scacco la scuola e le piazze per così tanto
tempo.
Ma come sempre accade, se la maggioranza è in sonno, una minoranza particolarmente
intraprendente basta a soggiogare anche un'intera nazione.
LA MAGGIORANZA SOMMERSA
Chi
frequentò licei e università in quegli anni -parliamo delle grandi
città- può ricordare che, in fondo, la stragrande maggioranza
dei giovani continuava a inseguire la vita di sempre, e non aveva alcuna voglia
di fare la rivoluzione. Per vivere la giovinezza, in un Paese certo non sofferente
per condizioni economiche generali, bastavano -ai più- il campionato
di calcio e le ragazze, le motociclette e le vacanze, la paghetta settimanale
dei genitori e un diploma per assicurarsi il tanto disprezzato avvenire piccolo-borghese.
Questa massa sommersa di studenti indifferenti, tuttavia non risultava e non
risaltava; non si vedeva, non faceva notizia. Sulle scuole sventolavano (a volte
non metaforicamente) le bandiere rosse, e a nessuno dei «tiepidi»
saltava in testa di andare a buttarle giù.
Viltà? Quieto vivere? Anche. In fondo, ai sessantottini tutti dovevano,
comunque, qualcosa. La contestazione aveva introdotto il «sei politico»,
per cui la promozione era più certa e meno faticosa. Aveva introdotto
il diritto all'assemblea e allo sciopero, per cui ogni settimana c'erano montagne
di «ore buche»: bastava che in Spagna, o in Cile (non all'Est, s'intende)
venisse violato qualche diritto civile, e le lezioni si bloccavano; e mentre
i militanti andavano in corteo, gli altri potevano giocare a pallone. Aveva
aperto (e non poco) gli orizzonti a chi era a caccia delle prime esperienze
sessuali. Aveva sancito la libertà di fumare in classe. Aveva rovesciato
le gerarchie familiari, per cui guai al padre che osasse opporsi a una vacanza
da soli in autostop.
Da un certo punto di vista, la vita quotidiana dello studente degli anni Settanta
era dunque ben più comoda e spensierata di quella del decennio precedente.
E se il movimento poté, nonostante l'inferiorità numerica, dominare
una maggioranza di studenti «disimpegnati», questo avvenne anche
perché lo stesso movimento arrivò a godere di un pur tacito consenso
di comodo.
Ma va anche detto che opporsi ai «rossi», come venivano sprezzantemente
chiamati i contestatori, voleva dire rischiare la scatola cranica. Mai i reparti
craniolesi ebbero tanti clienti come in quegli anni: ci furono giovanissimi
sprangati solo per non aver preso un volantino, o per aver scritto un tema in
classe non «in linea». E gli studenti che avrebbero voluto reagire
alla tracotanza di chi si arrogava il diritto di scelta sui manifesti da affiggere
e quelli da cestinare, incontrarono schiere di professori pavidi, che tutto
consentirono a chi dimostrava di saper alzare la voce, e le mani.
Dopo non aver saputo dire quei «si» che nel 1968 andavano detti,
la scuola non seppe dire neppure quei «no» che andavano urlati.
Se tanti sgabuzzini dei licei (pateticamente chiamati «aule studenti»)
poterono essere adibiti a depositi di spranghe e di bastoni, lo si deve a presidi
ben più vili di quella maggioranza di studenti che si fece sopraffare
dalla minoranza extraparlamentare. Persino nel linguaggio molti professori si
adeguarono al nuovo clima, e si videro attempati docenti infarcire di volgarità,
per essere «moderni e democratici», le loro lezioni.
Nel 1987 i giudici della Corte d'assise di Milano, nel motivare la sentenza
con cui condannarono gli assassini del giovane missino Sergio Ramelli (ucciso
nel 1975), ebbero parole durissime nei confronti della scuola di allora: «Non
meno sgomento prende nel vedere come il diciottenne Ramelli fu lasciato solo,
isolato ed espulso come corpo estraneo grazie all'assenza o alla pavida quiescenza
di una pubblica istituzione che tutto tollerò».
SEQUESTRO ALL'UNIVERSITA'
D'altra
parte, quei pochi professori che cercarono di opporsi alle violenze degli extraparlamentari
dovettero a loro volta correre dei rischi. Un fatto divenuto simbolico è
quello del sequestro del professor Pietro Trimarchi, ordinario di diritto alla
Statale di Milano.
L'11 marzo 1969 Trimarchi fu tenuto sotto sequestro, per quattro ore e mezza,
nell'aula 208 dell'Università, da un gruppo di studenti della facoltà.
Il docente era colpevole di aver trattenuto (come la legge gli imponeva di fare)
lo statino a uno studente che si era presentato impreparato all'esame. La mancata
restituzione dello statino faceva si che lo studente non avrebbe potuto ripetere
l'esame nell'appello immediatamente successivo. Trimarchi fu dunque sequestrato
e «processato» da Capanna e compagni, e fu liberato solo in seguito
all'intervento della polizia.
Pochi giorni prima, di un episodio analogo era rimasto vittima un altro docente
della Statale, il professor Antonio Amorth, ordinario di diritto amministrativo.
E dieci giorni dopo, il 21 marzo, Trimarchi fu aggredito e preso a sputi e insulti
in via Albricci, nei pressi dell'Università.
Per questi tre fatti, la magistratura milanese ordinò tredici arresti,
la maggior parte dei quali fu eseguita all'inizio di giugno. In carcere finirono
Mario Capanna e altri «capi» o semplici militanti del Ms.
Immediata la reazione del movimento, con una manifestazione di millecinquecento
giovani davanti a palazzo Marino, sede del Comune. E la Camera del Lavoro -a
dimostrazione della tattica doppiogiochista tenuta dal Pci nei primi anni della
contestazione- emise un comunicato in cui, con indignazione, si denunciava:
«La mano pesante della giustizia si è abbattuta su un gruppo di
studenti, colpevoli di avere lottato e manifestato per fare diversa la scuola
e diversa la società».
Dalla cronaca degli arresti apparsa sul «Corriere della Sera» del
10 giugno 1969: «Bussando alle porte di alcuni dei ricercati, gli agenti
si sono trovati davanti austeri maggiordomi che chiedevano se era proprio il
caso di disturbare, a quell'ora, "il signorino"».
STUDENTI E OPERAI UNITI NELLA LOTTA
Il
movimento degli studenti, a un certo punto, ritenne che l'alleanza con gli operai
fosse un momento fondamentale del processo rivoluzionario, tanto più
che nelle fabbriche i motivi per aprire una stagione di contestazione e di rivendicazioni
non mancavano.
Intanto era ripresa -massicciamente- l'immigrazione dal Sud verso il Nord. Nel
1967 il cosiddetto «saldo migratorio» aveva superato le 120.000
persone; e, fino al 1974, si mantenne sempre al di sopra delle 100.000 unità
all'anno. Il momento economico non era tale da poter soddisfare la richiesta
di lavoro di masse così imponenti di immigrati, spesso costretti a sistemazioni
di fortuna, in appartamenti privi di servizi igienici e persino di acqua corrente,
come rivelò un'indagine in corso Garibaldi a Milano.
L'operaio-tipo, poi, era sensibilmente diverso da quello degli anni Cinquanta.
La scuola gli aveva garantito un'istruzione senz'altro superiore. E tanto più
era istruito, tanto meno era disposto a sopportare il nuovo clima introdotto
nelle fabbriche dalla crescente meccanizzazione e dall'aumento dei ritmi di
lavoro. La nuova organizzazione industriale aveva accentuato le differenze all'interno
della stessa classe operaia, ed era nata la figura del capo-squadra, incaricato
anche di sorvegliare i suoi sottoposti, e da questi, logicamente, malvisto.
I salari, infine, erano mediamente fra i più bassi dei moderni paesi
occidentali. C'era insomma, nelle fabbriche, la materia per l'esplosione di
una protesta collettiva. Ce n'era più lì, a voler ben vedere,
che non nelle scuole e nelle università.
E infatti la protesta esplose. Con un anno di ritardo rispetto agli studenti,
perché il Sessantotto degli operai è il 1969, più precisamente
l'autunno del 1969, l'«autunno caldo».
LA RIVOLUZIONE DEI CUB
Quanta
parte abbiano avuto, i giovani sessantottini, nella decisione degli operai di
scendere in piazza, è difficile dirlo. E' difficile, cioè, dire
se senza il Sessantotto degli studenti ci sarebbe stato il 1969 degli operai.
Certi sono, tuttavia, due fatti. Il primo è che un legame fra le proteste
era quasi naturale, e c'è anzi da stupirsi se in Italia la lotta degli
operai seguì di un anno quella degli studenti. In Francia, ad esempio,
le due contestazioni furono contemporanee.
Il secondo fatto è che la protesta operaia del 1969 fu senz'altro un
elemento di rottura rispetto al passato. Sia stato l'influsso degli studenti,
o sia stato un nuovo clima generale a cui nessuno poteva sottrarsi, sta di fatto
che le lotte operaie del 1969 non si svilupparono secondo la loro tradizione,
cioè sempre e soltanto sotto il controllo «centrale» del
sindacato.
L'operaio del 1969 era in un certo senso «figlio» degli incidenti
di piazza Statuto del '62. Non si accontentava di delegare le proprie rivendicazioni
a un rappresentante, e non intendeva sottostare a un contratto nazionale di
lavoro per l'intera categoria: voleva, al contrario, continuare la sua battaglia
in fabbrica.
Forse l'esempio più illuminante è quello della Pirelli di Milano.
Nel febbraio del 1968 il sindacato aveva siglato il contratto nazionale dei
lavoratori della gomma: dopo tre giorni di scioperi, erano stati sanciti alcuni
aumenti salariali invero piuttosto modesti. Nel giugno del 1969 un gruppo di
operai e di impiegati della Pirelli, «assistiti» da Avanguardia
operaia (ecco qui il lavoro dei movimenti extraparlamentari nelle fabbriche),
fondarono i Cub, Comitati unitari di base, un sindacato autonomo che aveva il
compito di proseguire a livello di fabbrica quella lotta che il sindacato ufficiale
aveva già chiuso a livello nazionale. I Cub crebbero e si moltiplicarono
in moltissime fabbriche italiane.
Si inaugurò così una stagione del tutto nuova. I Cub si battevano
affinché il salario diventasse una «variabile indipendente»
dalla situazione economica generale e dell'impresa. Si battevano perché
la paga fosse la stessa in ogni regione d'Italia; per diminuire il divario fra
le buste-paga degli impiegati e quelle degli operai; perché ciascun lavoratore
passasse automaticamente, dopo un certo numero di anni, a una categoria superiore;
perché le condizioni di lavoro fossero meno pesanti e meno pericolose.
Nuova era poi la strategia per raggiungere questi obiettivi. Dagli universitari
fu mutuata la pratica delle assemblee, dove gli operai potevano esprimere direttamente,
senza che lo decidesse un sindacalista, cosa volevano e come lo volevano; fu
infranta la regola secondo cui bisognava sospendere le agitazioni durante le
trattative fra sindacato e azienda, e anzi venne introdotta una serie di nuove
forme di scioperi: quello a singhiozzo, che prevedeva il ripetersi di piccole
interruzioni durante la giornata; e quello a scacchiera, una specie di turnazione
delle astensioni, con la quale in ogni momento c'erano reparti che lavoravano
e altri no.
Anche nelle fabbriche, così come nelle scuole, le forme di lotta venivano
sovente imposte con la forza. Il «picchettaggio» davanti agli ingressi,
spesso compiuto con l'aiuto degli studenti, impediva l'accesso in fabbrica ai
«crumiri» che non volevano scioperare; e, come ha osservato lo storico
Paul Ginsborg, «spesso capetti e dirigenti di basso rango erano minacciati
di violenza fisica, e talvolta venivano picchiati fuori dalla fabbrica da gruppi
di operai (i cosiddetti "pestaggi di massa")».
«COSA VOGLIAMO? TUTTO»
L'«autunno
caldo» ebbe ovviamente prodromi importanti. Già nei mesi di maggio
e giugno alla Fiat Mirafiori operai «selvaggi e incazzati», come
li definì «Lotta continua», avevano organizzato una serie
di scioperi per migliorare le condizioni di lavoro. Le lotte erano coordinate
da un'assemblea di studenti e operai che si teneva alla facoltà di medicina.
Quando, all'inizio di luglio, i sindacati ufficiali proclamarono uno sciopero
generale contro il caro-affitti, gli operai e gli studenti riuniti in assemblea
decisero di organizzare una sorta di polemica contromanifestazione: «Secondo
questi signori la lotta di classe si fa solo certi giorni dell'anno, come le
feste comandate, e sono loro a decidere quando. Ma noi non aspettiamo il permesso
di nessuno».
Così il 3 luglio 1969 per le strade di Torino, a fianco degli operai
iscritti al sindacato, che chiedevano affitti meno onerosi, sfilò un
corteo formato dagli studenti e dai giovani operai di Mirafiori che gridavano:
«Che cosa vogliamo? Tutto». Altro che affitti a buon prezzo. Ci
furono scontri durissimi con la polizia e barricate fin quasi all'alba, in corso
Traiano.
Uno dei protagonisti delle lotte operaie a Mirafiori fu Leonardo Marino, l'ex
militante di Lotta continua venuto alla ribalta della cronaca nel luglio del
1988, quando confessò di essere uno degli autori dell'omicidio del commissario
Luigi Calabresi. Racconta:
«Lavoravo alla catena di verniciatura dell'officina 54, e non ero iscritto
al sindacato. Quando cominciarono gli scioperi, io ero uno dei più scalmanati.
Ai cancelli venivano a volantinare quelli del Movimento studentesco e di Potere
operaio, che però avevano scarsissimo seguito fra gli operai, e Lotta
continua, a cui io aderii.
«Durante l'autunno caldo la Fiat sospese 120 operai. Io facevo parte di
quel gruppo. I sindacati organizzarono una manifestazione al Palazzetto dello
Sport. Presi la parola a nome di tutti i sospesi e contestai i sindacati».
LA RIVINCITA DEI SINDACATI
Tuttavia,
nonostante questa influenza che i gruppi del Sessantotto esercitarono nelle
fabbriche, la storia dell'«autunno caldo» e in genere delle lotte
operaie degli anni Settanta seguì una strada diversa da quella della
contestazione giovanile.
I sindacati, infatti, alla lunga si mostrarono molto più abili dei partiti.
Riuscirono a cavalcare la tigre della protesta operaia molto meglio e molto
più di quanto il Pci e le altre forze della sinistra tradizionale non
furono in grado di fare con la contestazione studentesca. Cgil, Cisl e Uil seppero
dare l'impressione di una concreta autonomia rispetto a Pci, Dc e Psi. In particolare
la Cisl riuscì a sganciarsi dal suo partito di riferimento, la Dc, e
accolse elementi estremisti che spesso, da «cattolici-rivoluzionari»,
scavalcavano a sinistra la stessa Cgil.
I sindacati seppero far proprie molte istanze della «base» e sposarono
-salvo poi pubblicamente pentirsene- scelte azzardate come quella del «salario
come variabile indipendente», che a conti fatti si rivelò suicida.
Accettarono di dar battaglia sul diritto d'assemblea in orario di lavoro, sulla
riduzione dell'orario di lavoro, sugli aumenti uguali per tutti. E il contratto
nazionale dei metalmeccanici, firmato nel dicembre del 1969, alla fine di una
serie di scioperi che coinvolse un milione e mezzo di lavoratori, rappresentò
un'indubbia vittoria del sindacato, che era riuscito a non smarrire la leadership
delle lotte operaie.
E questa leadership fu anzi rafforzata, dal 1970 in poi, dall'istituzione dei
consigli di fabbrica, organi di rappresentanza sindacale formati da operai votati
dai loro stessi colleghi. Ogni settore delegava un lavoratore a rappresentarli
in consiglio, e questo diede la sensazione di una vera «democrazia dal
basso» che si conciliava perfettamente con gli ideali del Sessantotto.
In realtà, i consigli di fabbrica erano una creazione dei sindacati ufficiali,
Cgil in testa, che riuscirono così a tenere sempre sotto controllo le
fabbriche e ad evitare di passare le consegne ai gruppi rivoluzionari.
Se la protesta operaia poté tornare presto sui binari della sinistra
tradizionale, non fu però soltanto a causa di una superiore abilità
di manovra dei sindacati rispetto al Pci. Un ruolo fondamentale lo giocò
anche una mai domata avversione che lo zoccolo duro della classe operaia continuava,
malgrado tutto, a nutrire nei confronti degli studenti.
Il collegamento fra le lotte delle scuole e quelle delle fabbriche è
in gran parte una leggenda costruita da una certa retorica sessantottina: in
realtà la «tuta blu» alle prese con la pesante vita del reparto
e con i conti familiari da far faticosamente quadrare guardava con sospetto,
se non con aperta antipatia, il giovane universitario che gli si affiancava
in corteo gridando «Studenti e operai uniti nella lotta». L'operaio
pensava, e molto spesso non a torto, che il «rivoluzionario» che
gli stava accanto altri non era che un figlio di papà che poteva permettersi
di fare l'università, e che viveva la lotta classe come un eccitante
gioco di gioventù. Non a caso in più di un'occasione furono proprio
gli operai a prendere a randellate quelli che consideravano come dei fastidiosi
provocatori.
Al di là di certe dotte dissertazioni e indagini sociopolitiche, è
anche per tutto questo che certe influenze iniziali non ebbero un grande seguito,
e che le contestazioni operaie e studentesche non si sono mai incontrate più
di tanto.
VII - PIAZZA FONTANA E LA PISTA ANARCHICA
Alle
16.37 di venerdi 12 dicembre 1969, nel salone centrale della Banca Nazionale
dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, scoppia una bomba. Sedici morti,
ottantasette feriti.
I morti sono tutti clienti della banca: coltivatori diretti, fittavoli e imprenditori
agricoli della provincia che si erano dati convegno per le tradizionali contrattazioni.
Degli ottantasette feriti, quarantacinque sono anch'essi clienti; trentatré
sono dipendenti; sette stavano camminando in piazza Fontana, quindi all'esterno
della banca, e sono stati raggiunti da una raffica di schegge; due si trovavano
all'interno del ristorante «L'Angelo», che è lì nel
paraggi.
Nessuna delle vittime è un artefice o un protagonista della «contestazione»,
o un rappresentante del «sistema». Tutti semplici cittadini. Con
piazza Fontana comincia così una nuova, misteriosa strategia: quella,
appunto, del massacro degli innocenti, ordito per fini politici, o per chissà
quali altri interessi. Nei cosiddetti «anni di piombo» le stragi
di questo tipo saranno complessivamente otto, con 145 morti e 744 feriti.
Il 12 dicembre del 1969, dunque, segna una svolta nella storia d'Italia.
Oggi,
dopo quasi un quarto di secolo e dopo nove processi finiti con assoluzioni generali,
ancora non sappiamo chi mise la bomba in piazza Fontana e chi la fece mettere.
La strage è stata attribuita prima agli anarchici, poi ai fascisti, poi
ai servizi segreti, quindi a una joint venture fra i tre. Infine, agli americani,
che attraverso la Cia avrebbero fatto da burattinai.
Ma la verità non è stata ancora raggiunta. E anche in questo la
strage di piazza Fontana ha segnato l'inizio di un'epoca: quella di una lunghissima,
forse purtroppo infinita impunità. Perché anche le sette stragi
che seguirono fino al 1984 sono rimaste in gran parte, come vedremo poi, senza
colpevoli.
Molti dicono che la verità non è stata raggiunta perché
non si è voluto raggiungerla. Si punta l'indice contro i depistaggi degli
uomini dei servizi segreti e contro le reticenze motivate dal «segreto
di Stato». Siano o no fondate queste accuse, le indagini sulle stragi
restano comunque una delle macchie più vergognose per le istituzioni
dell'Italia repubblicana: quantomeno per inefficienza.
Vediamo di ricostruirle.
UN PIANO DI GUERRA
Intanto,
un'osservazione. Troppo spesso, e troppo semplicisticamente, si fa partire quella
che viene chiamata «strategia della tensione» con la bomba di piazza
Fontana. Ma non è così e anzi la strage della Banca Nazionale
dell'Agricoltura non può essere analizzata se non la si inserisce in
un contesto più ampio.
Piazza Fontana è considerata l'inizio del Terrore perché la prima
volta si contarono dei morti, ma già da più di un anno in Italia
c'era chi andava seminando bombe. E, come vedremo, quella dei bombaroli non
era un'unica organizzazione. Contrariamente a quanto oggi si vuol far credere,
in quella calda fine degli anni Sessanta non erano solo i fascisti o comunque
«le forze reazionarie» dello Stato a utilizzare la dinamite come
strumento di lotta politica.
Il 9 dicembre 1969, tre giorni prima della strage, il ministro degli Interni
Franco Restivo aveva relazionato la Camera dei deputati sulla situazione dell'ordine
pubblico, e aveva fra l'altro informato: «Dalla metà del 1968 ci
sono stati 51 attentati con materiale esplosivo o incendiario. Di 28 sono responsabili
estremisti di sinistra, di 23 responsabili estremisti di destra».
Probabilmente, gli attentati erano stati molti di più. Anche perché
le parole del ministro Restivo fanno pensare che i dati fossero relativi solo
agli episodi dei quali erano stati scoperti i colpevoli. E infatti una contro-inchiesta
eseguita da militanti della Nuova sinistra arrivò a concludere che dal
3 gennaio al 12 dicembre 1969 c'erano stati, in tutta Italia, ben 145 attentati
con esplosivi.
Particolarmente importanti erano stati gli attentati dell'aprile e dell'agosto
del 1969.
Il 25 aprile, alle sette e alle nove di sera, due bombe scoppiarono nel padiglione
della Fiat alla Fiera Campionaria di Milano e all'Ufficio Cambi della Banca
Nazionale delle Comunicazioni, all'interno della stazione centrale, sempre a
Milano: una ventina di feriti in tutto.
Erano invece addirittura una dozzina le bombe piazzate, nella notte fra l'8
e il 9 agosto '69, su vagoni di prima classe delle linee ferroviarie Pescara-Roma,
Roma-Venezia, Roma-Lecce, Trieste-Roma, Milano-Venezia, Venezia-Milano, Bari-Trieste,
Trieste-Domodossola. Otto di queste bombe esplosero, ferendo undici persone:
le altre vennero disinnescate in tempo.
Gli attentati del 25 aprile e dell'8-9 agosto fanno pensare a un'orchestrazione,
a una strategia: non può certo essere casuale la contemporanea presenza,
in una notte, di una dozzina di bombe sulle linee ferroviarie di tutta Italia.
A un certo punto, insomma, qualcuno aveva pensato di far partire un piano d'attacco
ben organizzato.
E
così era avvenuto anche il 12 dicembre 1969. Quel giorno, infatti, non
ci fu solo l'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Quel giorno le
bombe furono cinque.
Una, appunto, in piazza Fontana. Un'altra alla sede della Banca Commerciale
Italiana di piazza della Scala a Milano. Un'altra in un sotterraneo della Banca
Nazionale del Lavoro di Roma. Le altre due, sempre nella capitale, all'Altare
della Patria, accanto al sacrario del Milite Ignoto.
La bomba alla Banca Commerciale di Milano venne scoperta da un commesso, Rodolfo
Borroni, alle 16.25, dodici minuti prima dello scoppio in piazza Fontana. L'ordigno
venne sotterrato da un agente di polizia in un giardino interno alla banca:
poiché è altamente probabile che si trattasse dello stesso esplosivo
usato in piazza Fontana, gli inquirenti avevano a disposizione un formidabile
indizio per partire alla caccia degli autori della strage. Ma la bomba trovata
alla Commerciale venne fatta brillare la sera stessa. «Per motivi di sicurezza»,
si spiegò. Su questa forse maldestra decisione di far esplodere la bomba
trovata alla Commerciale si sono fatte molte congetture; collegando questo fatto
agli innegabili depistaggi poi emersi durante le indagini, s'è pensato
più volte che anche quella decisione fosse mirata a garantire l'impunità
agli attentatori. Vanno dette però due cose: una è che bomba e
timer vennero comunque fotografati, e quelle foto sono tuttora agli atti dell'inchiesta
riaperta dal giudice milanese Guido Salvini; e l'altra è che per pensare
a un depistaggio bisognerebbe credere che anche i poliziotti e gli artificieri
intervenuti alla Commerciale di Milano fossero al corrente, anzi fossero complici,
del complotto.
Ma continuiamo con l'elenco delle bombe di quel giorno.
Quella messa alla Banca Nazionale del Lavoro di Roma esplose alle 16.55: rimasero
feriti quattordici impiegati. Le due messe all'Altare della Patria scoppiarono
alle 17.22 e alle 17.30: quattro feriti lievi.
Cinque bombe, insomma, nell'arco di un'ora, sull'asse Milano-Roma; e ben tre
contro banche. Era evidente che quel 12 dicembre era scattato un piano di guerra.
BOMBE E ANARCHIA
Di
fronte a questo diluvio di bombe, polizia e carabinieri annasparono alla ricerca
di uno spiraglio per iniziare un'indagine. Si trovavano infatti, gli inquirenti,
a dover affrontare un fenomeno del tutto nuovo, e la verità è
che non sapevano dove mettere le mani.
Le piste da seguire nulla avevano a che fare con la tradizionale malavita. Così,
gli investigatori dovettero partire alla caccia dei colpevoli senza poter contare
sul consueto puntello degli informatori. Una carenza a cui si era cercato di
sopperire, è vero, infiltrando agenti nei gruppi estremisti: ma questo
lavoro di intelligence, in quei mesi caldi del 1969, era appena agli inizi e
non aveva ancora dato i suoi frutti.
Così, le prime indagini furono piuttosto confuse. Si perse tempo, e non
poco, a setacciare l'unico ambiente che, con le bombe, qualcosa a che fare l'aveva
già avuto: quello dell'irredentismo sudtirolese, cioè dei gruppi
che volevano il ritorno dell'attuale Alto Adige alla patria naturale, l'Austria.
Ma quei gruppi erano totalmente estranei ai «botti» della primavera-estate
1969.
Gli attentati del 25 aprile alla Fiera e all'Ufficio Cambi della stazione centrale
vennero così addossati, dopo un'indagine della questura milanese, a un
gruppo di anarchici, costituito da Paolo Braschi, venticinque anni, imbianchino
di Livorno, da Paolo Faccioli, diciannove anni, figlio di una professoressa
di liceo e di un chirurgo di Bolzano, e da Angelo Della Savia, ventenne elettricista
di Parabiago, in provincia di Milano. E altri presunti complici. A questo gruppetto
venne attribuita una serie di attentati dinamitardi, alcuni dei quali rivendicati
con volantini. Le indagini furono condotte, in particolare, da un poliziotto
che diventerà, purtroppo per lui, famoso: il commissario Luigi Calabresi.
Il quale riuscì ad accumulare una serie di riscontri e, fra l'altro le
confessioni di Braschi e Faccioli.
Ci soffermiamo su questa inchiesta perché è all'origine della
«pista anarchica» seguita poi per piazza Fontana, perché
spiega come mai si indagasse sugli anarchici e perché segna l'inizio
di un certo modo di fare informazione o, come si diceva allora, «controinformazione»:
segna l'inizio, cioè, di un giornalismo d'assalto che, se ebbe indubbi
meriti, sconfinò spesso nella pratica della mistificazione.
Braschi
e Faccioli, alla fine dell'istruttoria, ritrattarono le loro confessioni, dicendo
di essere stati torturati dalla polizia. E il processo Braschi-Faccioli-Della
Savia è ricordato quasi unanimemente come una montatura, come una prova
della malafede della polizia, che cercava a tutti i costi di incastrare gli
anarchici, che in realtà con le bombe non c'entravano niente.
Nelle ricostruzioni di quei fatti, si legge sempre che gli anarchici furono
assolti con formula piena, riconosciuti innocenti.
Ancora nel marzo 1993, nel libro (peraltro ottimamente documentato) Piazza Fontana
di Giorgio Boatti (Feltrinelli), si legge: «E, alla fine, gli anarchici
imputati per gli attentati verranno assolti: per non aver commesso il fatto».
Questa è la dimostrazione di come una non-verità possa passare
alla storia come un dato certo e incontestabile. Della Savia, Braschi e Faccioli
vennero infatti condannati in tutti i gradi di giudizio.
La sentenza di primo grado fu emessa dalla Corte d'assise il 28 maggio 1971.
Angelo Della Savia fu condannato a 8 anni, Paolo Braschi a 6 anni e 10 mesi,
Paolo Faccioli a 3 anni, 6 mesi e 20 giorni.
Della Savia venne riconosciuto colpevole degli attentati compiuti all'ufficio
annona del Comune di Genova il 3 dicembre 1968 (un ferito, il portiere), al
Palazzo di Giustizia di Livorno il 25 dicembre successivo, alla sede milanese
della Banca d'Italia il 16 giugno 1968, a palazzo Madama il 28 febbraio 1969,
al ministero della Pubblica Istruzione il 27 marzo 1969 e al Palazzo di Giustizia
di Roma il 31 marzo successivo. Fu ritenuto colpevole, inoltre, di detenzione
e di fabbricazione di ordigni esplosivi.
Braschi fu dichiarato responsabile di concorso negli attentati di Genova e di
Livorno, di detenzione, porto e fabbricazione di esplosivi. Faccioli di concorso
con Della Savia nell'attentato al Palazzo di Giustizia di Roma (con l'attenuante
della minima partecipazione) e di porto di esplosivi.
Il 7 aprile 1976 la Corte d'assise d'appello confermò le condanne, riducendo
le pene: 3 anni e 4 mesi a Della Savia, 3 anni e 2 mesi a Braschi, 1 anno e
4 mesi a Faccioli.
La sentenza fu dichiarata definitiva il 2 dicembre 1976 dalla Corte di Cassazione.
Certo: i tre erano stati assolti per gli attentati del 25 aprile, per i quali,
nel 1982, verranno condannati gli estremisti di destra Franco Freda e Giovanni
Ventura. La «cellula veneta» di Freda e Ventura è stata ritenuta
responsabile di diciassette attentati dinamitardi organizzati fra il 15 aprile
e il 9 agosto 1969.
Ma il processo agli anarchici non verteva solo sulle bombe alla Fiera e all'Ufficio
Cambi. E continuando a ripetere che i tre furono assolti, senza specificare
che l'assoluzione riguardava solo gli attentati del 25 aprile, e senza aggiungere
che furono condannati per altri attentati, si vuol negare una verità
storica: e cioè che le bombe, in quel periodo, non le mettevano solo
gli estremisti di destra.
L'ARRESTO DEL BALLERINO
E
così la polizia, nelle prime battute dell'inchiesta sulla strage di piazza
Fontana, imboccò «preferibilmente» (come disse il questore
Marcello Guida) la pista anarchica. Anarchici erano, in maggioranza, i 150 fermati
per controlli nelle ore immediatamente successive alla carneficina della Banca
Nazionale dell'Agricoltura.
Ma a dare una svolta decisiva a questa pista fu la Procura della Repubblica
di Roma, che chiese e ottenne l'arresto di Pietro Valpreda. Assolto (sia pure
per insufficienza di prove) nei vari processi che ha subito, Valpreda è
diventato per la sinistra un martire, un simbolo della repressione, una vittima
del complotto per la strage di Stato. Per farlo tornare in libertà, dopo
1100 giorni di ingiusta carcerazione preventiva, ci volle una legge fatta apposta
per il suo caso, e battezzata appunto «legge Valpreda».
A ordinare il suo arresto fu il pubblico ministero Vittorio Occorsio, che fu
quindi accusato di lavorare per i fascisti: calunnie che più nessuno
ebbe il coraggio di ripetere dopo che Occorsio, il 10 luglio del 1976, venne
assassinato a Roma da un commando dell'organizzazione di estrema destra Ordine
nuovo. E Occorsio fu ucciso proprio per la tenacia con cui indagava negli ambienti
dell'eversione nera: più volte i terroristi neofascisti hanno spiegato
di averlo voluto eliminare perché era un loro «persecutore».
Valpreda era un ballerino anarchico, trentasettenne, con precedenti penali per
rapina (condannato il 13 giugno del 1956). Aveva frequentato il Circolo anarchico
milanese del Ponte della Ghisolfa, il cui animatore principale era il ferroviere
Giuseppe «Pino» Pinelli, personaggio carismatico in quell'ambiente,
pacifista, severo con chi sgarrava.
Proprio Pinelli aveva cacciato Valpreda dal gruppo della Ghisolfa. «Pino»
disse sua moglie Licia Rognini interrogata dalla polizia poche settimane dopo
la morte del marito, «mi disse che era stato lui a buttare Valpreda fuori
dal circolo.»
E lo stesso Pinelli, interrogato dalla polizia il 15 dicembre, fece mettere
a verbale: «La sera del 7 o dell'8 ottobre scorso... dissi a Valpreda
che non lo stimo in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza
strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto lui stesso si era
vantato della cosa. Il Valpreda negò di essersi vantato e disse di essere
venuto a Milano anche per sfatare queste dicerie. Un altro incontro con Valpreda
l'ho avuto al convegno svoltosi a Empoli il 2 novembre scorso. Dopo il convegno
anarchico i partecipanti, una cinquantina, andarono a mangiare assieme in una
trattoria... durante il pranzo Valpreda mi rivolse il saluto a cui io non risposi
giustificando questo mio rifiuto col fatto che non tenevo alla sua amicizia.
Indispettito mi lanciò una saliera che non mi colpì».
Quando Pinelli diceva queste cose alla polizia, Valpreda era stato allontanato
dal gruppo della Ghisolfa già da diversi mesi. Da quando, insieme con
due compagni, aveva steso il suo programma in un articolo pubblicato sul bollettino
«Terra e Libertà», organo del circolo anarchico degli Iconoclasti
di Milano.
Nell'articolo di Valpreda, intitolato Ravachol è risorto e scritto nel
mese di marzo di quel 1969, cioè poco prima del diluvio di bombe su mezza
Italia, si leggeva l'elenco degli attentati appena compiuti dagli anarchici,
sottolineando il disappunto perché un ordigno messo alla caserma di polizia
di piazza San Sepolcro a Milano «purtroppo» non era esploso perché
«la miccia s'è spenta subito dopo». E poi:
«Totale: dieci bombe in meno di un mese... altri attentati seguiranno
a questi. La polizia brancola nel vuoto. I borghesi tremano e cercano di svignarsela
con il capitale. I pseudo comunisti prendono posizione contro questi atti di
terrorismo (sic) anarcoidi ... ».
E ancora: «Alle manifestazioni di piazza, gli individualisti ravacholiani
preferiscono una bombetta. Analizzando obiettivamente le due posizioni, si deve
dire che fa più danno e incute più paura il botto di un individualista
che le urla scalmanate o le uova lanciate da un migliaio di scaricatori di nevrosi
e repressi sessuali. Il "Corriere della Sera", o della "Serva",
scrive che i veri anarchici sono quelli che tirano le bombe di notte e in zone
isolate per non causare danni e non fare del male alle persone. Questa è
una mossa psicologica... per dire ai giovani contestatori che i veri anarchici
sono quelli che non fanno male a nessuno e farli allontanare dallo studio dei
veri pensatori dell'anarchismo. Certo, gli anarchici non vorrebbero far male
a nessuno ma essi amano troppo la libertà!
«Per poter realizzare una società libera» proseguiva l'articolo
di Valpreda «non ci si può assolutamente arrivare con il culto
della parola, bisogna passare purtroppo attraverso la fase violenta. Chi poggia
il suo sedere odorante di borotalco sulla comoda poltrona del potere, sugli
inermi, non rinnegherà di certo la sua posizione per migliorare la condizione
dei sottosviluppati (che gli fruttano la qualifica di super-privilegiati) di
fronte alle menate psicologiche dei rivoluzionari verbali.
«Che gli anarchici facciano scoppiare le loro bombe solo in zone isolate
è falso» scriveva ancora Valpreda. «Abbiamo visto dove sono
scoppiate e possiamo dire che non sempre, anzi quasi mai, scoppiano in zone
isolate. Centinaia di giovani sono pronti a organizzarsi per riprendere il posto
di nemici dello Stato e a gridare né Dio né padrone, con la dinamite
di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di
Bonnot, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi! Ravachol è
risorto!»
LA CONVERSIONE DEI DUE FASCISTI
A
far imbestialire Pinelli fu anche il fatto che sul giornaletto «Terra
e Libertà» si dava l'indirizzo del Circolo anarchico del Ponte
della Ghisolfa. Così, Valpreda fu cacciato, e andò a riparare
a Roma, al Circolo Bakunin. Ma anche il Bakunin non gli andava bene, tanto che
presto se ne andò per fondare un altro circolo, chiamato 22 Marzo dalla
data dell'occupazione, nel 1968, dell'Università di Nanterre: in pratica,
dalla data di inizio del «maggio francese».
A fondare il Circolo 22 Marzo, con Valpreda, c'era un singolare personaggio,
poi finito anch'egli sul banco degli imputati per la strage di piazza Fontana
(e anch'egli assolto, come tutti gli altri): lo studente di filosofia Mario
Merlino, ex militante di estrema destra e amico di Stefano Delle Chiaie, leader
dell'organizzazione neofascista Avanguardia nazionale. Merlino diceva di essersi
convertito all'anarchia. Su di lui si è discusso per anni, essendo emerso
a più riprese il sospetto che Merlino, in realtà, fosse un uomo
di estrema destra, o addirittura dei servizi segreti, infiltrato nell'anarchia.
Di certo, nel Circolo 22 Marzo era infiltrato un agente di polizia, Salvatore
Ippolito, che si faceva chiamare «il compagno Andrea». E su questi
intrecci pericolosi si fonda uno dei purtroppo molti misteri dell'indagine su
piazza Fontana. Chi erano, veramente, quelli del Circolo 22 Marzo? Valpreda
fu strumentalizzato? o manovrato?
Fra l'altro, anche nel Circolo Ponte della Ghisolfa, a Milano, c'era un personaggio
che è stato sospettato di fare il doppio gioco: Nino Sottosanti, detto
«Nino il fascista» per il suo passato politico. Anche lui, come
Merlino, assicurava di essere approdato all'anarchia. I giudici di primo grado
l'hanno descritto come un «ambiguo personaggio, reduce dalla Legione Straniera
e aduso ai contatti con i poli opposti dell'estremismo politico».
Sottosanti, fra l'altro, è considerato il sosia di Pietro Valpreda, e
nelle prime battute dell'inchiesta si pensò persino che potesse essere
stato lui a mettere la bomba: ma questa ipotesi cadde quasi subito. Rimase,
come spiegato dai giudici di primo grado, l'ambiguità della sua vera
collocazione politica.
Torniamo a Valpreda e a Merlino. I due, insieme con altri animatori del Circolo
22 Marzo, il 19 novembre (meno di un mese prima della strage, dunque) rilasciarono
una quantomeno enigmatica intervista al settimanale romano «Ciao 2001»,
un periodico per i giovani.
«Occorre» avevano detto «un'azione esemplare che, anche partendo
da un limitato gruppo di individui, riesca a coinvolgere il massimo numero di
persone e che, nello stesso momento in cui vien fatta, da sé stessa è
superata, perché indica a tutti quelli che vi hanno preso parte un altro
obiettivo da colpire, un'altra azione esemplare da compiere che riesca a coinvolgere
un numero sempre maggiore di individui.»
LA TESTIMONIANZA DEL TASSISTA
Ma
l'indizio più grave contro Valpreda non fu l'articolo-rivendicazione
su «Terra e Libertà», né la frequentazione con Merlino,
né gli strani messaggi lanciati nelle interviste, né tantomeno
le voci che giravano sul suo conto negli ambienti anarchici milanesi e romani.
A spingere il giudice Occorsio a chiedere l'arresto di Valpreda fu la testimonianza
di un tassista, Cornelio Rolandi. milanese, iscritto al Partito comunista, titolare
del taxi 3444, una Fiat 600 multipla targata MI 936519.
Rolandi, il pomeriggio della strage, era in servizio in piazza Beccaria, vicinissima
alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Questa la sua testimonianza a verbale:
«(Ho notato) un signore che poco dopo è salito sul mio taxi con
in mano una borsa nera in vinilpelle con cerniera. Mi ha chiesto di accompagnarlo
in via Albricci, passando da Santa Tecla. Dopo essere partiti e arrivati in
via Santa Tecla mi ha ordinato di fermare il taxi dal quale è disceso
subito, dicendomi di attendere un attimo. Attraverso lo specchio retrovisore
ho notato che si allontanava facendo ritorno indietro per via Santa Tecla e
svoltando l'angolo verso piazza Fontana, portando con sé la borsa nera.
Dopo circa tre o quattro minuti è ritornato sul mio taxi, senza avere
con sé la borsa nera. Mi ordinava quindi di portarlo con urgenza in via
Albricci. Dopo essere ripartito gli chiedevo dove avrei dovuto fermarmi in via
Albricci. Mi rispose che per lui andava bene in qualsiasi posto: anzi preciso
che appena giunti all'angolo della via Albricci mi diceva che andava bene così.
Allungava la mano e mi consegnava 600 lire, prezzo della corsa, allontanandosi,
di corsa, in direzione di piazza Missori».
Il 16 dicembre 1969, al Palazzo di Giustizia di Roma, il tassista Cornelio Rolandi
riconobbe in Pietro Valpreda -postogli davanti insieme con quattro «comparse»-
l'uomo che aveva accompagnato nei pressi della banca il pomeriggio della strage.
A
questa testimonianza accusatoria si sono mosse alcune obiezioni.
La prima è che allo stesso Rolandi, prima del «confronto all'americana»
al Palazzo di Giustizia di Roma, era stata (illegalmente) mostrata -dal questore
milanese Guida e dai carabinieri- una fotografia di Valpreda, il quale secondo
gli inquirenti assomigliava molto all'identikit fatto in base alla descrizione
del tassista. E quindi -si obietta- quando si trovò di fronte Valpreda
in carne ed ossa, affiancato dalle quattro «comparse» per il riconoscimento
ufficiale, Rolandi era condizionato dalla foto che gli era stata mostrata a
Milano.
Una seconda obiezione fu subito mossa dal difensore di Valpreda, l'avvocato
Guido Calvi, presente al confronto «all'americana» di Roma. Calvi
sostiene che Valpreda, dopo essere stato indicato dal tassista, disse: «Ma
m'hai guardato bene?», e Rolandi avrebbe risposto: «Beh... se non
è lui, chi el gh'è no», qui non c'è.
Una terza obiezione verte sulla constatazione che da piazza Beccaria, dove sostava
il taxi, all'ingresso della banca ci sono poco più di cento metri, e
quindi non aveva senso prendere un taxi -con il rischio, oltretutto, di farsi
riconoscere- per un tragitto così breve.
Alla prima obiezione l'accusa replica così: il fatto che a Rolandi sia
stata mostrata una foto di Valpreda prima del riconoscimento fu senz'altro un
errore, ma dimostra ancora di più la validità della testimonianza
accusatoria. Infatti, vedendo la foto, Rolandi disse: «Sembra il passeggero
da me trasportato, salvo che quello che ho accompagnato io aveva il viso più
scavato». La foto mostrata a Rolandi era del gennaio 1966 (ma Rolandi
non lo sapeva), e nei tre anni trascorsi da allora Valpreda era effettivamente
dimagrito.
Alla seconda obiezione, l'accusa replica che Rolandi non ha mai più manifestato
dubbi (ammesso che l'abbia fatto allora) sul suo riconoscimento. Anzi: ribadì
la sua testimonianza accusatoria contro Valpreda anche in punto di morte. Si
legge nella sentenza dei giudici di primo grado: «Nel corso della formale
istruzione Cornelio Rolandi si ammalava ed, essendosi poi talmente aggravato
da versare in pericolo di vita, alle 9.30 del 2 luglio 1970 veniva ancora escusso
dal giudice istruttore, a futura memoria. Egli confermava, quindi, per l'ultima
volta le sue precedenti dichiarazioni sotto il vincolo del giuramento. La morte
lo coglieva dopo non molto tempo».
Alla terza obiezione, sempre l'accusa replica: 1) l'attentatore non voleva farsi
notare mentre attraversava la piazza, a piedi, con una voluminosa e pesante
borsa in mano, e voleva poi allontanarsi velocemente dal luogo dell'attentato:
poiché non poteva usare un'auto propria (davanti alla banca il posteggio
era vietato), ecco la scelta del taxi; 2) Valpreda è affetto dal morbo
di Burger, che dà disturbi alla deambulazione: prese il taxi perché
la borsa era molto pesante, come ha testimoniato Rolandi: «Mi è
sembrato che fosse alquanto pesante, in quanto il cliente è sceso in
via Santa Tecla e ha tirato su la borsa che aveva appoggiato sul pavimento della
vettura, facendo un certo sforzo»; 3) l'uomo che prese il taxi di Rolandi
non chiese di essere portato da piazza Beccaria a piazza Fontana, ma indicò
un percorso molto più lungo (fino in viale Albricci), e quando chiese
di scendere un attimo, non lo fece di fronte alla banca, ma in via Santa Tecla,
in un punto da cui è impossibile vedere l'ingresso della banca; cercò,
insomma, di non farsi notare mentre entrava alla BNA; 4) Valpreda aveva abitato
all'albergo Commercio di piazza Fontana, proprio di fronte alla banca, durante
l'occupazione degli anarchici, conclusasi con lo sgombero eseguito dalla polizia
il 15 agosto 1969: l'attentatore era forse «un tale», ha chiesto
nella sua arringa l'avvocato Odoardo Ascari, legale di parte civile al processo
per la strage, «un tale che non volesse sentirsi dire "Dove vai Pietro
con quella borsa?"».
E che Rolandi, comunque, non si sia inventato quel tragitto in taxi, è
provato dalla cedola di servizio che lui stesso consegnò ai carabinieri:
cedola da cui risulta una corsa partita alle 16 da piazza Beccaria e terminata
alle 16.45 in via Albricci.
La diatriba non finisce qui. Sul fatto che il taxi possa essere stato necessario
a causa del peso della borsa, la difesa osserva che questa è una controbiezione
che non sta in piedi, perché il tragitto da piazza Beccaria all'ingresso
della banca è solo di qualche metro (una ventina) superiore a quello
da via Santa Tecla (dove il passeggero del taxi è sceso) alla banca stessa.
Quanto al morbo di Burger, Valpreda non ha particolari disturbi alla deambulazione;
e del resto, se fosse così malato perché affidare a lui un incarico
simile?
L'accusa controreplica con la storia del cappotto, che definisce «inquietante».
Rolandi, quando riconobbe Valpreda a Roma, precisò che, però,
il cappotto che l'anarchico indossava in quel momento non era quello del suo
passeggero. Il colore era lo stesso, marrone, ma si trattava di due capi diversi.
Infatti, il cappotto che Valpreda indossava al momento del confronto all'americana,
era andato a prenderlo a casa dei suoi genitori la zia Rachele Torri, da cui
era ospite, la sera del 12 dicembre 1969, quindi dopo la strage. Se Rolandi
fosse stato un teste pilotato o comunque in malafede, avrebbe potuto dire che
il cappotto era lo stesso, perché nessuno sapeva, in quel momento, che
questo non era possibile.
La zia Rachele Torri, teste a discarico di Valpreda («Era a casa mia,
malato, con la febbre»), il 17 dicembre '69 disse che la sera del 12 uscì
di casa «per recarmi dai genitori di Pietro al fine di informarli che
loro figlio si trovava a Milano presso la mia abitazione». Nella sua arringa
al processo, l'avvocato Ascari ha detto che questa giustificazione è
falsa, perché per avvisare i genitori bastava una telefonata, e Rachele
Torri si rese conto dell'incongruenza tanto che il 3 gennaio 1970 rettificò
precisando al giudice che il vero scopo della sua uscita serale era prendere
un cappotto per il nipote, che l'indomani si sarebbe dovuto presentare in tribunale
per rispondere a una convocazione del giudice Amati. Ma ancora l'avvocato Ascari,
nella sua arringa, ha fatto presente che il giorno dopo, con Amati, non ci fu
alcun incontro (che avvenne invece il lunedi seguente): «La verità
è un'altra: con quello che è successo è igienico uscire
con lo stesso cappotto? O è meglio cambiarlo? E' certamente meglio cambiarlo
in ogni caso, e a maggior ragione, se si vuole andare nei pressi del Palazzo
di Giustizia che è vicinissimo alla Banca Nazionale dell'Agricoltura!
Solo cosi si spiega come all'improvviso i genitori di Valpreda si vedono arrivare,
alle otto di sera di venerdi, la zia che vuole il cappotto bello. L'anarchico
rispettoso, che deve andare col cappotto bello dal giudice, che non l'aspetta.
Infatti il sabato Amati non c'è».
Questo, dunque, il cosiddetto quadro indiziario contro Valpreda, sia pure in
una sintesi estrema di fatti che hanno riempito migliaia e migliaia di pagine
di verbali. Questi indizi non hanno mai retto alla verifica processuale.
LA MORTE DEL FERROVIERE
La
ricostruzione della «pista anarchica» non può ritenersi completa
senza ricordare la tragedia del povero Pinelli. Questi morì, poco prima
della mezzanotte del 15 dicembre, precipitando dalla finestra della questura
di Milano, dov'era entrato tre giorni prima per essere interrogato. Il questore
Marcello Guida, a poche ore dal fatto, disse che Pinelli era «fortemente
indiziato per la strage di piazza Fontana», che si era suicidato, e che
il suo gesto equivaleva a un'autoaccusa.
Tutte fandonie, smentite durante la stessa conferenza stampa dal commissario
Luigi Calabresi, che con grande coraggio rivelò ai giornalisti che, semmai,
il suicidio di Pinelli era dovuto a un altro fatto: «Gli ho contestato
i suoi rapporti con una certa persona in modo da fargli credere che fosse a
mia conoscenza più di quanto in realtà sapessi» disse Calabresi
smentendo il suo superiore e rivelando un comportamento non ortodosso da parte
della polizia. Infatti Calabresi aveva fatto credere a Pinelli che Valpreda
aveva confessato.
Dopo la prima grossolana, imbarazzata e non veritiera versione del questore
Guida, la polizia disse sempre che, dopo aver appreso della (finta) confessione
di Valpreda, Pinelli era rimasto sconvolto: «E' la fine dell'anarchia»
avrebbe detto disperato. D'altra parte Pinelli temeva che la strage potesse
essere opera di qualche anarchico, tanto che al suo amico Pasquale Valitutti
(anarchico pure lui) aveva confidato: «Se è stato un compagno lo
uccido con le mie mani».
La sinistra non credette mai alla tesi del suicidio, e cominciò una violentissima
campagna sostenendo che Pinelli era stato ucciso, volutamente buttato giù
dalla finestra, oppure gettato dopo che era stato ucciso a botte.
In realtà Pinelli, quando precipitò a terra, era ancora vivo,
tanto che morì un paio d'ore più tardi all'ospedale. Non era stato
quindi ucciso a botte nell'ufficio dov'era interrogato. E riesce difficile pensare
che la polizia sia stata tanto imprudente da uccidere un uomo gettandolo dalla
finestra della questura: tanto più che c'era sempre il rischio che, dopo
la caduta, l'anarchico non sarebbe morto subito, e avrebbe avuto la possibilità
di denunciare il fatto.
Il primo a soccorrere Pinelli, nel cortile della questura, fu un cronista dell'«Unità»,
Aldo Palumbo (plausibile che la polizia torturi qualcuno con i giornalisti che
girano nel palazzo? Può essere, ma l'interrogativo è legittimo):
Pinelli, come detto, era ancora vivo, e se avesse avuto la forza di parlare
avrebbe potuto raccontare tutto a un testimone insospettabile.
Il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, uomo dichiaratamente di sinistra,
concluse l'inchiesta nell'ottobre del 1975 definendo «possibile ma non
verosimile» il suicidio e «assolutamente inconsistente» la
tesi dell'omicidio volontario. Secondo D'Ambrosio, Pinelli, stanco e provato
da tre giorni di interrogatori, si era affacciato alla finestra per prendere
un po' d'aria, aveva avuto un malore ed era caduto giù. Una disgrazia,
insomma.
La campagna della sinistra su Pinelli, in ogni caso, sbagliò quantomeno
indirizzo, prendendosela soprattutto con il commissario Calabresi, il quale
-questo è provato senza ombra di dubbio alcuno- al momento del fatto
non era neppure nella stanza da cui Pinelli precipitò. Calabresi, che
con Pinelli aveva rapporti più che cordiali, tanto che i due si erano
appena scambiati i regali di Natale, non poteva in alcun modo avere a che fare
con la morte di Pinelli; né poteva aver ordinato ai suoi uomini di picchiare
Pinelli, sul cui cadavere non venne trovata nessuna traccia di percosse o torture.
E Calabresi era stato tanto corretto da addossarsi una colpa non sua, dicendo
di aver fatto credere a Pinelli che Valpreda aveva confessato: in realtà,
questo stratagemma ai danni di Pinelli fu un'idea di Antonino Allegra, capo
della squadra politica della questura. Eppure, fu contro di lui che si scagliò
una delle più violente e faziose campagne di stampa mai organizzate in
Italia. Centinaia di intellettuali firmarono manifesti e appelli grondanti odio
e accuse non provate contro colui che veniva chiamato "il commissario Finestra".
Pinelli, in ogni caso, pagò con la vita, e del tutto ingiustamente, le
conseguenze di una strage di cui non aveva alcuna responsabilità, e di
un'indagine che per motivi spesso oscuri non è ancora arrivata alla verità.
Divenne -ancor più di Valpreda, vista la sua fine- un martire della nuova
sinistra. Per anni, giovani con la chitarra cantarono La ballata di Pinelli:
(...)
In dicembre a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
E' bastato aprir la finestra
Una spinta e Pinelli cascò
(...) Ti hanno ucciso per farti tacere
Perché avevi capito l'inganno
Ora dormi non puoi più parlare
Ma i compagni ti vendicheranno
(...) Calabresi con Guida il fascista
Si ricordi che gli anni son lunghi
Prima o poi qualcosa succede
Che il Pinelli farà ricordar (...).
E infatti, qualcosa accadde. Calabresi venne ucciso il 17 maggio del 1972: e quel giorno furono in molti (Lotta continua in testa) a esultare. E pensare che proprio lui era stato uno dei primi poliziotti a intuire quella che poi diventerà il cavallo di battaglia della sinistra, cioè la pista della strage di Stato. Dopo le prime battute dell'inchiesta, su piazza Fontana aveva idee precise. Sua moglie Gemma, nel libro Mio marito il commissario Calabresi (scritto con il giornalista Luciano Garibaldi) ricorda: «Un giorno... mi disse: Gemma, ricordalo: menti di destra, manovali di sinistra».
VIII - PIAZZA FONTANA E LA PISTA NERA
La
pista «di destra» nacque da una coscienza inquieta. Quella dell'insegnante
di francese Guido Lorenzon, di Maserada sul Piave. Un uomo mite, fervente cattolico,
politicamente moderato: era segretario della sezione democristiana del suo paese.
Lunedí 15 dicembre -lo stesso giorno dell'arresto di Valpreda, della
morte di Pinelli, dei funerali delle vittime della strage- Guido Lorenzon telefonò
a un avvocato di Vittorio Veneto, Alberto Steccanella, per liberarsi di un peso
che lo tormentava dalla sera del 12 dicembre, da quando cioè aveva cominciato
a riflettere sui possibili collegamenti fra quanto era successo a Milano e quanto
aveva sentito dire da un suo vecchio amico: Giovanni Ventura.
Di tre anni più giovane di Lorenzon, Ventura aveva idee politiche ben
più radicali. Aveva frequentato la federazione giovanile del Msi, dalla
quale era poi uscito perché riteneva troppo molle la linea della fiamma
tricolore, e aveva fondato un giornale chiamato «Reazione». Faceva
l'editore e il libraio, e pubblicava testi che diffondevano una singolare dottrina
in cui si mescolavano nazismo e maoismo. Frequentava estremisti di destra e
di sinistra.
Lorenzon aveva conosciuto Ventura al collegio Pio X di Borca di Cadore, e l'amicizia
era continuata anche dopo che i due avevano imboccato strade differenti.
Dunque Lorenzon, dopo aver saputo della strage di piazza Fontana, si era ricordato
delle confidenze, che più volte Ventura gli aveva fatto, sull'esistenza
di gruppi disposti a far salire al massimo la tensione, anche facendo ricorso
a una serie di attentati. Il professore di francese aveva allora telefonato
all'avvocato Steccanella. Il quale si era reso ben presto conto di non avere
a che fare con un pazzo: e pertanto si era premurato di informare la procura
generale di Venezia e la procura di Treviso.
Dalla sentenza emessa il 23 febbraio 1979 dalla Corte d'assise di Catanzaro:
«Lorenzon si era recato dall'avvocato Steccanella e lo aveva, anzitutto,
messo al corrente di un'organizzazione eversiva paramilitare diretta da tal
Giovanni Ventura di anni venticinque residente a Castelfranco Veneto. (...)
Gli scopi... si riassumevano nel rovesciamento dell'ordine costituito e nell'instaurazione
di un regime governativo sul modello della cosiddetta Repubblica di Salò
con speciale riferimento al settore dell'agricoltura. Ciò Lorenzon gli
aveva detto [a Steccanella, n.d.a.] di avere appreso dal suddetto Ventura, il
quale, essendo suo amico, gli aveva anche confidato di essere depositario, fra
l'altro, di armi e munizioni e di aver partecipato alla collocazione di un ordigno
esplosivo in un edificio pubblico di Milano nel maggio 1969 nonché ai
noti attentati ai treni verificatisi l'8 e il 9 agosto dello stesso anno in
varie zone d'Italia. Altre confidenze erano state fatte all'amico dal Ventura
con vari dettagli che potevano far sorgere il convincimento di una responsabilità
di costui anche in ordine al compimento dei gravissimi attentati dinamitardi
avvenuti quasi contestualmente a Roma e a Milano il 12 dicembre 1969».
Partì così l'inchiesta sulla «cellula veneta» dell'estremismo
di destra, al vertice della quale c'era, oltre a Ventura, un avvocato padovano
di ventotto anni, Franco Freda, nome di battaglia «Giorgio».
FREDA E VENTURA
Troppo
frettolosamente, e con troppa superficialità, Freda e Ventura sono stati
accostati l'uno all'altro come se si trattasse di due soci, di due personaggi
quasi complementari, di due uomini dalle idee e dai comportamenti speculari.
In realtà Freda e Ventura, per quanto sia possibile esaminarli, sono
molto diversi l'uno dall'altro. E forse troppo frettolosamente, e con troppa
superficialità, è stata affibbiata a entrambi l'etichetta di «fascista».
Quando, nel luglio del 1993, l'ormai ultracinquantenne Franco Freda è
stato riarrestato per ricostituzione del partito fascista, Ferdinando Camon
ha giustamente osservato: «Freda ambisce così poco a fondare un
secondo partito fascista, che non avrebbe né fondato né aderito
al primo. La Repubblica lo mette in carcere, ma se fosse al potere un partito
fascista sarebbe in carcere ugualmente, o addirittura già morto. Nel
suo sistema non ci sta un partito, neanche fascista, perché ci sta molto
di più».
Freda è, semmai, un ammiratore del nazionalsocialismo, ma anche quella
di «nazista» sarebbe per lui un'etichetta troppo stretta. Non è
un uomo di partito ma un uomo di idee, molto colto, dichiaratamente razzista
e antisemita («antigiudaico», precisa lui). Disprezza la democrazia,
crede che la storia nasconda la verità, facendo perdere di vista chi
ha torto e chi ha ragione. Crede che la politica e le idee siano state ormai
spazzate via dai «mercati», dal dominio del denaro. Crede di vivere
«in un mondo di nani», dove la stragrande maggioranza della gente
vivacchia inseguendo obiettivi miseri, banali e materiali. Si ribella alla modernità
e sogna un Nuovo Ordine. La sua è, se vogliamo, una tensione spirituale:
ma che non trova sbocco nel cristianesimo (che Freda disprezza) quanto, semmai,
in una sorta di religiosità neopagana. «Si è laureato con
me» disse il professor Enrico Opocher, rettore dell'Università
di Padova, «con una tesi sull'idealismo tedesco. E' un uomo intelligente,
ma fanatico e su posizioni antisemite.»
Ecco, Freda viene spesso definito un fanatico: ma comunque è ritenuto
un uomo che crede fino in fondo alle sue idee. Per le quali, lui solo sa fin
dove si sia spinto.
Ventura è, invece, un singolare personaggio che va in giro a raccontare
a più persone di bombe e di attentati, di strutture paramilitari e di
tentativi di golpe. Gravitava contemporaneamente nell'estrema destra e nell'estrema
sinistra, era passato da «Reazione» alla «Lega dei comunisti»
e la sua libreria di Treviso era un punto di ritrovo per la sinistra extraparlamentare.
I suoi legami con i servizi segreti sono un dato certo, e lui stesso ha detto
in un'intervista: «La mia attività informativa era autonoma, avevo
un rapporto con un agente del servizio al quale comunicavo notizie sull'operatività
eversiva, antidemocratica, neofascista ... ». Per chi e perché
lavorasse Ventura, è ancora presto per dirlo con certezza. Ma forse non
è un caso che mentre Freda ha scontato i quindici anni di carcere inflittigli
per associazione sovversiva, Ventura -condannato alla stessa pena e per lo stesso
reato- ha potuto fuggire e vivere (non male) in Argentina.
I TIMER E LE BORSE
Le
confuse, e a volte contraddittorie confidenze fatte da Ventura prima a Lorenzon
e poi ai giudici, certo non sarebbero bastate, da sole, a collegare l'attività
della «cellula veneta» con la strage del 12 dicembre 1969.
Gli indizi che portarono Freda e Ventura alla sbarra con l'accusa di strage
sono più d'uno, ma il più importante è certamente quello
sull'acquisto dei timer.
Nel settembre del 1969 Franco Freda ordinò alla Elettrocontrolli di Bologna
cinquanta timer da 60 minuti, del tipo «in deviazione». La Elettrocontrolli
dovette procurarsi quei timer, di cui era sprovvista, rivolgendosi alla Gpu
di Milano, che a sua volta si rifornì dalla Junghans-Diehl di Venezia.
Il fatto è certo perché la questura di Padova registrò
le telefonate con cui Freda -già nel mirino della polizia da prima della
strage, quindi- sollecitò la Elettrocontrolli di Bologna; e quelle con
cui lo stesso Freda diede incarico all'elettricista padovano Tullio Fabris di
andare a ritirare la merce. Lo stesso Fabris, interrogato come testimone dal
giudice istruttore, sostenne di aver assistito a un colloquio fra Freda e Ventura
sui timer acquistati: e Ventura avrebbe preso uno di quei timer e se lo sarebbe
messo nella borsa.
Secondo una perizia ordinata dalla magistratura, per l'attentato alla Banca
Nazionale, del Lavoro di Roma e per quello (fallito) alla Banca Commerciale
Italiana di Milano furono utilizzati timer in deviazione, da 60 minuti, prodotti
dalla ditta Junghans di Venezia su licenza della Diehl di Norimberga. Quindi,
per deduzione logica, anche alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano
dovrebbe essere stato usato lo stesso tipo di timer. E poiché dal marzo
1969 al 12 dicembre successivo in Italia erano stati venduti, complessivamente,
57 timer di quel tipo, ecco che Freda -che da solo ne aveva comperati 50- si
vide accusato della strage.
Messo di fronte all'evidenza delle intercettazioni telefoniche, Freda ammise,
dopo un iniziale silenzio, l'acquisto dei timer. E aggiunse di averli dati a
un mai identificato capitano Hamid dei servizi segreti algerini, il quale li
avrebbe poi utilizzati per attentati contro gli israeliani. Un'autodifesa riutilizzata
dall'accusa per provare la colpevolezza di Freda: è credibile che i servizi
segreti algerini avessero bisogno di un avvocato di Padova per comperare dei
timer, oltretutto facilmente reperibili sul mercato?
Ma nella «pista nera» ci sono altri indizi. Ad esempio, quello delle
cassette metalliche. Secondo i periti, in tutti gli attentati del 12 dicembre
1969 l'esplosivo fu sistemato in cassette metalliche. Ebbene: il farmacista
Tullio Fabris disse che Freda gli aveva chiesto dove poteva reperire una «cassetta
metallica ermeticamente chiusa».
E poi le borse. Le cinque bombe del 12 dicembre erano state nascoste in altrettante
borse di similpelle prodotte, come accerterà la perizia, dalla ditta
tedesca Mosbach-Gruber di Offenbach. Tre di queste borse erano del tipo «Peraso
2131», di colore nero; due del tipo «City 2131», marrone.
In Italia, solo tre negozi tenevano entrambi i modelli. E uno di questi tre
negozi era la valigeria «Al Duomo» di Padova.
Loretta Galeazzo, commessa della valigeria «Al Duomo», il 15 dicembre
1969 disse alla polizia, da lei spontaneamente chiamata, di aver venduto, la
sera del 10 dicembre 1969, quattro borse della Mosbach-Gruber. Aveva voluto
informare la polizia perché aveva visto sui giornali la fotografia delle
borse.
Va detto però che nel mese di settembre del 1972, messa a confronto per
ben due volte con Franco Freda, Loretta Galeazzo non riconobbe nell'avvocato
padovano il compratore delle borse. L'indizio delle borse, insomma, si rivelò
alla fine favorevole a Freda.
Così
come abbiamo riportato le obiezioni mosse alla testimonianza di Rolandi contro
Valpreda (che senso aveva prendere il taxi per fare pochi metri? e non c'era
il rischio di farsi scoprire?) dobbiamo, usando la stessa arma della logica,
osservare che è singolare che un uomo intelligente come Freda, sapendo
di dover compiere una strage, non abbia cercato una via clandestina e sicura
per comperare i timer, ma sia andato ad acquistarli normalmente in una ditta.
E creando, per di più, un testimone pericolosissimo: l'elettricista Fabris,
messo al corrente di tutto. Non solo: Freda parla liberamente dei timer al telefono,
sapendo benissimo che il suo apparecchio è controllato dalla polizia.
Infatti, nel mese di maggio del 1969 (quindi ben prima delle telefonate fatte
per l'acquisto dei timer, che sono del settembre successivo), parlando al suo
telefono Freda a un certo punto disse: «Se c'è qualche coglione
in ascolto, ascolti pure». Che Freda sapesse di avere il telefono sotto
controllo poi, risulta anche da un interrogatorio reso da Giovanni Ventura al
giudice istruttore di Milano il 17 marzo 1973. Ventura disse al magistrato che
un funzionario dell'ufficio politico della questura aveva avvertito Freda dell'inizio
delle intercettazioni.
Queste considerazioni fanno dunque pensare che Freda, quantomeno, non sapesse
che con quei timer sarebbero state confezionate bombe destinate a fare tanti
morti. Altrimenti non avrebbe agito alla luce del sole.
Ma i magistrati che hanno creduto nella sua colpevolezza ribattono che Freda
non cercò di nascondere l'acquisto dei timer per lo stesso motivo per
cui Ventura continuava, senza preoccuparsi troppo, a raccontare in giro ciò
che faceva: i due, dice l'accusa, erano certi dell'impunità perché
convinti di avere le coperture necessarie; e anzi, erano probabilmente certi
che dopo la strage ci sarebbe stato un colpo di Stato, e che loro si sarebbero
trovati, con tanti onori, dalla parte dei vincitori.
LE COPERTURE E I DEPISTAGGI
Vanno
dette, a proposito delle «coperture», altre due cose piuttosto inquietanti.
E che stanno a dimostrare in che modo venne condotta l'inchiesta.
La prima è che le intercettazioni telefoniche in cui si sentiva Freda
ordinare i timer, benché risalenti al settembre 1969, entrarono nell'inchiesta
solo nel gennaio del 1972, quando il giudice istruttore decise di ascoltare
tutte le registrazioni fatte dalla questura padovana nell'ambito delle indagini
sul terrorismo nero, e quindi anche su Freda. Prima, nessuno aveva pensato di
andare a riascoltare quei nastri.
Seconda cosa: la testimonianza di Loretta Galeazzo, che segnalava la vendita
delle borse del tipo usato per la strage, fu inviata dalla polizia di Padova,
che l'aveva raccolta, alla questura di Milano e all'Ufficio affari riservati
del ministero degli Interni. Ma non alla magistratura. E quella testimonianza
rimase per tre anni nei cassetti romani dell'Ufficio affari riservati, senza
che la magistratura ne potesse conoscere l'esistenza.
Come ha scritto Giorgio Boatti nel suo Piazza Fontana, «solo nel settembre
del 1972, dopo un clamoroso servizio del settimanale romano "L'Espresso"
che svela l'inutile prodigarsi del personale di una valigeria padovana per segnalare
l'anomalo acquisto delle borse, il magistrato milanese che sta lavorando sull'istruttoria
veneta viene informato di quanto è accaduto. E prende visione dei documenti
insabbiatisi presso l'Ufficio affari riservati».
Solo nell'autunno del 1972, infatti, poté avvenire il confronto fra Loretta
Galeazzo e Franco Freda.
Sono episodi -questi come altri- che dimostrano quanti e quali ostacoli furono
frapposti, dall'autorità incaricata delle indagini, al raggiungimento
della verità. Ha scritto il magistrato Pietro Calogero, il pubblico ministero
che raccolse le confidenze di Lorenzon e che cominciò l'inchiesta sulla
pista veneta: «Accadde che organi collocati ai vertici o comunque all'interno
degli apparati di sicurezza dello Stato cominciarono a un certo punto a lavorare
non a favore dell'indagine, ma contro di essa, non per collaborare con i giudici,
ma per intralciare e depistare il loro lavoro».
L'AGENTE ZETA
E
molti ostacoli furono innalzati di fronte ai giudici -opponendo il segreto di
Stato- quando si cercò di far luce sull'attività dell'«agente
Zeta» Guido Giannettini, giornalista romano, redattore del quotidiano
del Msi e collaboratore dei servizi segreti, per la precisione del Sid. Giannettini
aveva avuto certamente rapporti con Freda e la cellula veneta, e molte sue «informative»
avevano destato più d'un sospetto. Finì anche lui, con Valpreda,
Freda e Ventura, sul banco degli imputati con l'accusa di strage, e come gli
altri venne assolto.
Quale che sia stato il ruolo di Giannettini nella vicenda (su un suo coinvolgimento
diretto nella strage, va detto, non ci sono indizi concreti, e Giannettini è
uscito dal processo prima degli altri imputati), resta il fatto che l'unica
cosa accertata in sede giudiziaria nei vari processi su piazza Fontana è
il comportamento gravemente scorretto dei servizi segreti dello Stato.
Non a caso in tutti i gradi di giudizio sono sempre stati condannati due ufficiali
del Sid, il generale Gian Adelio Maletti e il capitano Antonio Labruna, ritenuti
colpevoli di favoreggiamento per aver aiutato a fuggire all'estero un indiziato
(e poi prosciolto) per la strage: Marco Pozzan, un bidello padovano legato a
Freda. Ancora adesso, chi indaga sulla strage di piazza Fontana ha il sospetto
che Pozzan, pur innocente, possa sapere molte cose.
LE SENTENZE
Abbiamo
cercato di riassumere l'andamento delle inchieste, e di elencare gli indizi
a carico di tutti gli imputati.
Di fronte a questi indizi, la magistratura si è espressa prima con una
sentenza di condanna, poi con un ripetersi di assoluzioni.
Il processo di primo grado, celebrato a Catanzaro anziché a Milano per
motivi di ordine pubblico, si concluse il 23 febbraio 1979 con la condanna all'ergastolo
di Freda, Ventura e Giannettini; Pietro Valpreda e Mario Merlino furono assolti
dall'accusa di strage per insufficienza di prove, ma condannati a 4 anni e 6
mesi per associazione a delinquere; a Maletti e a Labruna furono inflitti, per
favoreggiamento, rispettivamente 4 e 2 anni.
Il 20 marzo 1981, alla Corte d'assise d'appello di Catanzaro, la prima bocciatura
di quella sentenza. Tutti e cinque gli imputati di strage -Freda, Ventura, Giannettini,
Valpreda e Merlino- vennero assolti per insufficienza di prove. A Freda e Ventura
vennero inflitti tuttavia 15 anni per associazione sovversiva. A Maletti la
pena fu ridotta a 2 anni, a Labruna a un anno e 2 mesi.
Il 10 giugno 1982, però, la Cassazione annullò in gran parte la
sentenza di appello e ordinò la ripetizione del processo di secondo grado.
Confermò solo -rendendole definitive- l'assoluzione di Guido Giannettini
(che uscì quindi dal processo) e le condanne per associazione sovversiva
a Freda e Ventura (15 anni) e per associazione a delinquere per Valpreda e Merlino
(4 anni e mezzo). Ma per le accuse sulla strage, tutto da rifare.
Il processo d'appello fu ripetuto a Bari, e si concluse il l° agosto 1985
con l'assoluzione, sempre per insufficienza di prove, di Freda, Ventura, Valpreda
e Merlino. Maletti ebbe un anno, Labruna 10 mesi.
Così decisero i giudici. Nessun colpevole. Ma neanche nessun innocente
doc: Valpreda, diventato un simbolo per tutta la sinistra, non andò mai
più in là dell'insufficienza di prove, esattamente come i «neri».
La giustizia, insomma, dichiarò la propria impotenza ad arrivare a una
qualsiasi verità.
I giudici di Bari motivarono la loro sentenza nel febbraio del 1986. Valpreda
non aveva ottenuto la formula piena perché la testimonianza del tassista
Comelio Rolandi, «ben lungi dall'essere priva di efficacia accusatoria,
è al limite della credibilità», scrissero i giudici nella
motivazione «e se alcuni elementi quali le basette e la "erre"
francese hanno confermato nella Corte perplessità, è impensabile
trarre da esse un convincimento opposto, quasi che Rolandi, sia pure in buona
fede, si fosse inventato tutto ed avesse accusato falsamente VaIpreda».
L'alibi fornito dal ballerino anarchico per il pomeriggio del 12 dicembre, poi,
era «carente di prova», scrissero i giudici, «fondato com'è
sulla dichiarazione di Valpreda e della zia, Rachele Torri, quest'ultima palesemente
compiacente e contraddittoria».
Per motivare l'assoluzione di Freda, la Corte spiegò: «E' mera
illazione partendo dalle scarse risultanze acquisite voler asserire che tutti
i timer avevano le stesse caratteristiche dei timer acquistati da Freda: significa
proprio voler dare per dimostrato quello che invece si vuole dimostrare».
Quanto a Ventura, i giudici fecero presente che l'accusa contro di lui si fondava
innanzitutto sulle dichiarazioni del professor Guido Lorenzon, «che»,
si legge nella motivazione, «in quelle tempestose giornate del gennaio
'70 fece di tutto: accusò Ventura, ritrattò e mentre ritrattava
raccolse ulteriori confidenze del suo interlocutore e tornò ad accusarlo».
E quindi: «Sulla base di deposizioni contraddittorie, non confortate da
riscontri puntuali, parzialmente smentite da anni di inchiesta giudiziaria,
non si può fondare un giudizio sicuro di responsabilità penale».
Merlino, infine, venne ritenuto un «provocatore attivatosi sistematicamente
per coinvolgere i giovani anarchici spingendoli verso azioni violente».
Ma nulla provava un suo coinvolgimento nella strage.
Questa sentenza, emessa dai giudici di Bari il l° agosto 1985, fu confermata
dalla Corte di Cassazione, e quindi resa definitiva, il 27 gennaio 1987. Tre
mesi dopo i giudici della Suprema Corte depositarono le motivazioni della loro
decisione e chiarirono definitivamente, fra l'altro, la questione dei timer
e delle borse acquistate da Franco Freda.
Dal «Corriere della Sera» del 5 aprile 1987: «Tutta una serie
di perizie ha dimostrato che le borse e i timer usati negli attentati erano
di tipo completamente diverso rispetto a quelli in possesso di Freda. Non sappiamo
che cosa Freda volesse fare con quei congegni, ma la Corte ha stabilito che
non ebbero alcun nesso con la strage del 12 dicembre».
Ma questa sentenza, se rappresentò la parola «fine» al processo
Freda-Ventura-Valpreda-Merlino-servizi segreti, non fu comunque l'ultimo pronunciamento
della giustizia su piazza Fontana.
Proprio dal processo di Bari, infatti, prese le mosse un'altra istruttoria:
quella contro i neofascisti Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale,
latitante per diciassette anni, e Massimiliano Fachini.
Alcuni pentiti «neri», e precisamente Sergio Calore, Angelo Izzo
e Sergio Latini, riferirono ai giudici di aver sentito dire in carcere, direttamente
da Freda, che la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura era stata messa
da Fachini e che la strage «non era stata voluta»: una tesi, questa
dell'errore, emersa più volte e da più parti durante i molti anni
di indagini. Anche in un'informativa dei servizi segreti è scritto che
«l'ordigno esploso alla banca di Milano non avrebbe dovuto causare vittime
umane ma avrebbe dovuto esplodere quando la banca era chiusa. Per ostacoli frapposti
ai tempi di esecuzione dell'attentato lo scoppio sarebbe avvenuto con anticipo».
Comunque siano andate le cose, le dichiarazioni dei pentiti «neri»
Calore, Izzo e Latini portarono a un nuovo processo, contro Delle Chiaie, ritenuto
il mandante della strage, e Fachini, considerato l'esecutore materiale. Ma neanche
questo processo -fra tutti, quello dal più fragile impianto accusatorio-
poté portare ad alcuna dichiarazione di colpevolezza. Delle Chiaie e
Fachini furono assolti per non aver commesso il fatto (quindi con formula ben
più liberatoria rispetto agli imputati dei processi precedenti) sia in
primo grado, il 20 febbraio 1989, sia in appello, il 5 luglio 1991.
UN'IPOTESI
La
strage di piazza Fontana, dunque, non ha colpevoli, almeno finora. Tutti coloro
che sono stati processati per quella bomba -anarchici, nazisti, fascisti, agenti
dei servizi- sono stati assolti. Non restano che le ipotesi.
Che la bomba sia un affare esclusivo degli anarchici, non lo sostiene più
nessuno.
La sinistra, che come al solito è stata la più tenace nel portare
avanti le proprie tesi, afferma che la strage fu voluta dalla parte più
retriva dell'apparato politico e industriale italiano, che temeva una svolta
progressista e in particolare le rivendicazioni economiche dell'autunno caldo.
Atti di terrore avrebbero creato nella gente le condizioni favorevoli al ristabilimento
dell'ordine, magari attraverso un regime più autoritario. I servizi segreti,
in combutta con i fascisti, avrebbero quindi portato a segno la missione, seminando
bombe in mezza Italia.
C'è però chi pensa che, tanto più è vera la tesi
della sinistra, tanto più è verosimile la partecipazione degli
anarchici all'attentato.
Per indirizzare il pubblico sdegno e la pubblica rabbia contro la sinistra,
insomma, i servizi segreti avrebbero avuto bisogno di manodopera di sinistra,
magari inconsapevole del gioco a cui si stava prestando. L'intuizione del commissario
Calabresi: «Menti di destra, manovali di sinistra».
Gli stessi giudici di primo grado, quelli che condannarono all'ergastolo Freda,
Ventura e Giannettini (cioè «neri» e servizi segreti) assolvendo
l'anarchico Valpreda per insufficienza di prove, scrissero nella sentenza: «E'
tutt'altro che assurdo ipotizzare che un singolo elemento di quel circolo [22
Marzo, quello di Valpreda, n.d.a.] possa essere stato agganciato, a titolo personale,
dai veri organizzatori ed incaricato del collocamento materiale di una delle
bombe».
E
alla conclusione che la strage fu opera di una joint venture anarchici-fascisti-servizi
segreti arrivò un'inchiesta delle Brigate rosse, il cui risultato fu
trovato nel covo di Robbiano di Mediglia nell'ottobre del 1974. E il 10 gennaio
1991 il pentito delle Br Michele Galati, interrogato dal giudice istruttore
di Venezia Mastelloni, disse che «le Br si erano ampiamente occupate»
della strage «svolgendo una controinchiesta», le cui conclusioni
«appurarono che materialmente l'ordigno era stato posto nella banca da
Valpreda con la collaborazione di tutto il gruppo anarchico del Ponte della
Ghisolfa: Pinelli, Merlino [questi però era del circolo 22 Marzo, n.d.a.]».
Proseguiva la testimonianza di Galati: «Gli anarchici volevano attuare
un attentato dimostrativo antisistema. L'esplosivo e i timer furono forniti
per l'attentato dal gruppo veneto di Freda e Ventura. Emerse dalla nostra inchiesta
che il cervello dell'operazione era stato Delle Chiaie che era riuscito a gestire
il gruppo di anarchici grazie all'inserimento in esso di Merlino che era un
suo uomo. (...) Ebbene gli esiti dell'inchiesta su piazza Fontana non furono
pubblicizzati anche perché dalla medesima risultava che Pinelli si era
effettivamente suicidato perché realmente coinvolto. In questura Pinelli
aveva capito che era stato mandato dalla destra. (...) Noi interpretammo i fatti
come un attentato organizzato e ideato da alcuni settori dello Stato per fini
di destabilizzazione. Emerse dalla nostra inchiesta anche un particolare ruolo
di Giannettini nel progetto svolto da Delle Chiaie nonché il fatto che
il tassista Rolandi aveva anche confermato a uno di noi di aver trasportato
proprio Valpreda. Rolandi era conosciuto in qualche ambiente della sinistra
milanese».
Anche l'inchiesta delle Br, secondo Galati, arrivò alla conclusione che
la strage fu un errore: «L'ordigno doveva esplodere quando i locali della
banca erano rimasti deserti». L'ex brigatista sostiene che le operazioni
bancarie si protrassero oltre il normale orario, sbagliando però su un
particolare: dice che il ritardo nella chiusura della banca fu dovuto al fatto
che si era alla vigilia della festa di Sant'Ambrogio, che in realtà cade
il 7 dicembre.
Questa tesi delle Br è stata ripetuta nel settembre del 1992 dall'allora
segretario del Psi Bettino Craxi: «La bomba l'hanno fatta mettere agli
anarchici. Secondo me sono stati spezzoni dei servizi segreti, legati alla Nato,
del Veneto. Queste cose a chi si fanno fare? Agli anarchici. Il tassista Rolandi,
che era comunista, perché doveva mentire? Giuseppe Pinelli era un brav'uomo.
Al massimo gli anarchici possono essere stati ingannati sul tempo dell'esplosione.
A quell'ora la banca doveva essere chiusa... Penso che Pinelli abbia avuto un
ruolo di appoggio logistico. Ma quando capì, si suicidò per il
rimorso». Affermazioni per cui è stato querelato.
L'ULTIMA INDAGINE
L'ultima
speranza di arrivare alla verità è legata all'indagine che il
giudice milanese Guido Salvini ha riaperto nel 1988, partendo da un vecchio
fascicolo sull'attività della Fenice di Giancarlo Rognoni, un gruppo
di estrema destra considerato in pratica una sorta di filiale milanese di Ordine
nuovo. Nel 1992, essendo emersi indizi che potevano portare fino, appunto, alla
strage di piazza Fontana, il giudice Salvini ha chiesto, e ottenuto, una proroga
per poter approfondire le indagini.
Nel momento in cui scriviamo, l'inchiesta non è ancora finita, e quindi
non è possibile sapere a quali risultati potrà approdare. Sembra
tuttavia che là dove non ha potuto il potere inquisitorio degli uomini,
possa forse arrivare il vecchio, tanto spesso dimenticato timor di Dio.
Salvini ha ascoltato decine di testimoni, fra cui molte persone anziane, che
non hanno avuto pudore nel dire al magistrato di avere ormai solo paura del
Tribunale con la «t» maiuscola. Gente che desidera soltanto ritrovare
la pace della propria coscienza ha raccontato particolari importanti, che non
conosciamo -l'indagine, contrariamente a quanto accade di solito, è riuscita
a scorrere in un'accettabile segretezza e, per fortuna di Salvini, ha goduto
del disinteresse della stampa- ma che pare abbiano consentito la ricostruzione
di non pochi episodi del periodo del terrore.
Con Salvini parlano anche alcuni personaggi dell'estrema destra, fra cui Vincenzo
Vinciguerra, l'autore, reo confesso, dell'attentato di Peteano (tre carabinieri
uccisi con un'autobomba il 31 maggio 1972). Vinciguerra non è un pentito,
non ha mai chiesto sconti alla giustizia. Ma parla perché vuole portare
avanti la sua tesi: e cioè quella, già esposta nel suo libro Ergastolo
per la libertà, secondo cui i neofascisti sono stati strumentalizzati
dai servizi segreti, e dalla Cia in particolare, per creare quella «strategia
della tensione» che solo in apparenza avrebbe potuto giovare all'estrema
destra.
Vinciguerra, in sostanza, dice questo: io sognavo una rivoluzione nazionalsocialista,
e quando mi accorsi che la maggior parte dei camerati di Ordine nuovo non operava
contro lo Stato ma per lo Stato, la delusione per me fu grande; capii che non
ci stavamo battendo per le nostre idee, ma per una svolta conservatrice in chiave
filoatlantica, insomma per mantenere l'equilibrio creato in Occidente dagli
Usa dopo la seconda guerra mondiale.
Fu per reazione a questa traumatica scoperta che Vinciguerra organizzò
l'attentato di Peteano: uccidendo tre carabinieri, e quindi tre servitori dello
Stato, sentì di aver finalmente compiuto un gesto rivoluzionario, il
primo nella storia del neofascismo. E quando si accorse che, a sua insaputa,
carabinieri e uomini dei servizi segreti stavano inquinando le prove per indirizzare
verso la malavita comune le indagini su Peteano, Vinciguerra decise di confessare
(«di assumere la responsabilità dell'attentato», dice lui)
per smascherare l'imbroglio.
E con Salvini parla ora anche quel capitano del Sid, adesso in pensione, Antonio
Labruna, condannato per favoreggiamento nei confronti di Marco Pozzan. Labruna
sente di essere l'unico che ha veramente pagato, anche perché il suo
superiore, Gian Adelio Maletti, da tempo si è eclissato in Sudafrica.
Così, vuole che il suo ruolo sia ricondotto nell'alveo naturale, quello
-dice- di un esecutore di ordini spesso ignaro.
Di tutta questa inchiesta, il dato più concreto finora sono le tre informazioni
di garanzia per strage inviate nell'ottobre 1993 a tre persone, di cui una sola
è nota: un certo Martino Siciliano, quarantasette anni, tra i fondatori
del gruppo veneto di Ordine nuovo. Siciliano, che vive in Francia da molti anni,
è indiziato da Salvini di essere colui che materialmente confezionò,
con una cassetta di metallo, l'ordigno che esplose alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.
Quanto
ci sia di vero nell'indagine di Salvini, ovviamente, è impossibile dirlo.
Per il momento ci si può limitare a riferire il quadro generale del suo
impianto accusatorio. Un quadro generale che riportiamo così com'è
nelle sue linee essenziali, senza alcuna pretesa di valutarne la fondatezza.
Per Salvini, la strage di piazza Fontana fa parte della cosiddetta «guerra
non ortodossa» che i Paesi occidentali, alla fine degli anni Sessanta,
organizzarono per far fronte al pericolo comunista. Scopo di questa «guerra
non ortodossa» era quello di creare situazioni di instabilità,
a volte di terrore, che inducevano la gente a chiedere l'instaurazione di un
governo forte.
La centrale europea di questa strategia, sempre secondo l'indagine di Salvini,
era l'Aginter Press, un'agenzia di stampa che aveva sede a Lisbona quando il
Portogallo era retto da una dittatura di destra; e che poi, nel '74, dopo la
caduta di Caetano, si spostò a Madrid. Salvini è convinto che
l'Aginter Press altro non fosse che un'emanazione della Cia, o meglio una sorta
di «braccio illegale» a cui la Cia affidava ciò che non poteva
fare in proprio.
Capo dell'Aginter Press era Yves Guerin Serac, ufficiale dell'esercito francese,
già combattente in Algeria e in Corea, tuttora vivo, forse emigrato in
Sudamerica.
Serac -stiamo sempre riportando il succo dell'indagine di Salvini- aveva uomini
in tutti i Paesi dell'Europa occidentale, e quindi anche in Italia. Aveva collaboratori
fra i servizi segreti e all'interno dei gruppi neofascisti. Salvini punta su
lui, Serac, quale regista e mandante; e poi ancora su Freda, Ventura e Delle
Chiaie (che però non possono più essere processati, essendo stati
assolti con sentenza definitiva) quale base organizzativa in Italia, e quindi
sul gruppo milanese della Fenice per la parte logistica. Ritiene che i servizi
segreti italiani non abbiano partecipato né all'ideazione né alla
preparazione dell'attentato, ma che siano intervenuti solo in un secondo tempo,
a indagini in corso, per depistare. Gladio, contrariamente a quanto ipotizzato
da qualcuno, nell'indagine di Salvini non c'entra invece nulla.
Le bombe del 12 dicembre -è questa l'ipotesi di quest'ultima indagine-
avevano lo scopo di creare le condizioni favorevoli a un colpo di Stato che
si sarebbe effettuato di lì a pochi giorni, e che invece, all'ultimo
momento, saltò.
E'chiaro tuttavia che per far accettare all'opinione pubblica una svolta a destra,
occorrevano due condizioni.
La prima è un'estrema gravità della situazione, e questo fa pensare
che chi mise la bomba volle davvero fare tanti morti: cadrebbe così l'ipotesi
dell'errore.
La seconda condizione è che era necessario che l'indignazione della gente
si indirizzasse contro la sinistra, e quindi bisognava attribuire ai «rossi»
la responsabilità degli attentati: ed ecco che torna l'ipotesi della
strumentalizzazione di qualcuno di sinistra. Salvini, però, non ha trovato
(almeno per il momento) alcuna prova in questa direzione.
Queste, comunque, sono le ultime indagini e le ultime ipotesi della magistratura
nella primavera del 1994, cioè a quasi un quarto di secolo dallo scoppio
della bomba. Vedremo se questa strada porterà finalmente alla verità,
o se sarà l'ennesimo inganno.
DA QUELLA BOMBA
Se
ci siamo soffermati a lungo sulle indagini e sulle varie «piste»
battute per dare un nome ai colpevoli, è perché non solo la stessa
strage, ma anche -appunto- le varie inchieste della magistratura hanno caratterizzato
in modo indelebile tutto quanto è accaduto, poi, negli anni successivi.
A cambiare gran parte della vita del Paese fu infatti, più che la bomba,
il suo fall-out, le sue conseguenze.
La scoperta -per molti sconvolgente- delle infedeltà di uomini dello
Stato creò una sindrome di incredulità, di scetticismo che ancora
oggi accompagna tutto ciò che viene comunicato alla gente dal cosiddetto
«palazzo».
Insomma: fino alla fine degli anni Settanta, la stragrande maggioranza degli
italiani era disposta a prendere per oro colato tutto ciò che veniva
detto da polizia, carabinieri e magistratura. Le goffe e gravi deviazioni di
agenti dei servizi segreti durante l'inchiesta su piazza Fontana -e, purtroppo,
durante molte delle successive inchieste sulle altre stragi- incrementarono
una cultura del sospetto che tuttora avvelena i rapporti fra Paese reale e Paese
ufficiale, cioè fra gente comune e governanti.
D'altra parte una certa sinistra ricavò da piazza Fontana materia sovrabbondante
per alimentare la sua tradizionale predisposizione al vittimismo, e per dirottare
l'attenzione della gente solo ed esclusivamente sul «pericolo nero»,
sul rischio di un golpe fascista. La strage fu, per molti anni, l'argomentazione
principe di chi sosteneva l'inesistenza degli «opposti estremismi»,
di chi voleva far credere agli italiani -brandendo i fascicoli giudiziari su
Freda, Ventura e Giannettini- che di pericolo ve n'era uno solo, quello di destra.
E per «destra» s'intendeva un minestrone dove stavano dentro tutti:
il Msi, gli estremisti usciti (o cacciati) dal Msi, la Dc, l'esercito, i capitalisti,
magari anche la Chiesa. Tutti insieme, senza distinzioni.
Fiorirono le inchieste giornalistiche di «controinformazione» su
piazza Fontana, la più famosa delle quali raccolta in un libro che divenne
un best-seller, La strage di Stato, immancabile per un buon decennio nella biblioteca
di casa di ogni «democratico». Se queste inchieste ebbero indubbiamente
il merito di dare una scossa a un'informazione troppo omologata alle fonti ufficiali,
e di rivelare complicità fino a quel momento ignote e inconfessabili,
va anche detto che i giornalisti della cosiddetta controinformazione su piazza
Fontana si fecero presto prendere la mano, sostituendo agli errori dei vecchi
cronisti, troppo ossequiosi nei confronti della polizia, una faziosità
spesso cieca e violenta.
Il giornalista Piero Scaramucci, che negli anni Settanta militava in Lotta continua
e che fu uno degli autori del libro La strage di Stato, pur confermando che
«la tesi di fondo si rivelò esatta», ha ammesso al «Corriere
della Sera» del 30 dicembre 1992: «Commettemmo ingenuità,
qualche errore di valutazione». Nello stesso articolo del «Corriere»
era riportata questa dichiarazione dell'onorevole Tiziana Maiolo, all'epoca
cronista giudiziaria del «manifesto»: «Io mi sono formata
giornalisticamente proprio seguendo le indagini sulla strage di piazza Fontana.
Le versioni ufficiali non venivano mai prese per buone. Curiosi e ficcanaso,
volevamo vederci chiaro. In seguito, però, la curiosità lasciò
il posto all'ideologia. Mi spiego: partendo dall'idea che le stragi erano fasciste,
di fronte agli arresti di persone di destra molti colleghi rinunciavano a qualsiasi
critica. E sbagliavano».
Un atteggiamento di cecità che portò, fra l'altro, a ignorare
sistematicamente la nascita del terrorismo rosso, che poté proliferare
anche grazie a una caduta di attenzione verso sinistra, visto che lo slogan
politico spacciato per verità giudiziaria era che esisteva un'unica «strategia
della tensione».
Anche
sulla vera matrice di questa strategia della tensione c'è ancora molto
da discutere.
Si disse allora che la bomba in piazza Fontana fu concepita per fermare le rivendicazioni
salariali dell'autunno caldo, e questa versione ha trovato credito e spazio
sufficienti per finire nei libri di storia.
In realtà, è una congettura che cozza contro i fatti. Il 12 dicembre
1969, infatti, praticamente tutte le vertenze sindacali si erano già
chiuse. Il 9 dicembre era stato siglato il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici
del settore pubblico, con un aumento di 65 lire all'ora per gli operai e di
13.500 lire al mese per gli impiegati: un accordo trovato anche grazie alla
mediazione del ministro democristiano Donat Cattin, e foriero di un rapido raggiungimento
di un'intesa anche per i metalmeccanici dell'industria privata (il cui contratto
venne infatti firmato il giorno 21). Lo stesso 9 dicembre e il giorno seguente,
poi, erano stati firmati i nuovi contratti degli edili, dei cementieri, dei
fornaciari, dei cavatori e degli esercizi pubblici; e l'11 dicembre avevano
trovato e formalizzato l'accordo anche i bancari. Sempre prima di quel 12 dicembre,
si era rasserenata la situazione alla Fiat Mirafiori, con il ritiro -da parte
dell'azienda- delle cinquemila minacciate lettere di licenziamento.
Troppo debole, quindi, la tesi delle bombe usate come freno alle rivendicazioni
salariali.
E' possibile, invece, che alcuni settori del Paese, i più ottusamente
reazionari, abbiano deciso di seminare il terrore fra la gente, cercando di
scaricare le responsabilità sui «rossi», per far crescere
la pubblica indignazione contro il pericolo comunista e favorire una svolta
autoritaria, anche se non un golpe.
Questa ipotesi -che comunque si regge, al momento, solo sulla logica del cui
prodest?- appare però verosimile per la strage del 12 dicembre 1969,
ma non per tutto lo stragismo degli anni di piombo.
Dopo quello che era emerso dalle indagini su piazza Fontana, dopo la scoperta
della «pista nera» e della «pista di Stato», la destra
non avrebbe certo potuto sperare di trarre vantaggio da nuove stragi di innocenti.
E infatti ciascuna, delle bombe esplose dopo il 12 dicembre venne immediatamente
ritenuta «fascista» o «di Stato», e non furono certamente
le destre a beneficiare, in termini elettorali, di tanto sangue. Se dovessimo
dunque continuare a ragionare col criterio del cui prodest?, dovremmo guardare
a sinistra: e, visto quanto emerso finora dalle indagini, proprio non lo si
può fare.
E allora che senso hanno le stragi successive a piazza Fontana? Il fatto che,
per tutte le altre bombe, si sia pregiudizialmente ristretto all'estrema destra
il campo dell'indagine giudiziaria, rinunciando in partenza ad altre piste,
non ha aiutato a rispondere a questo interrogativo.
Di certo la tensione ci fu, ma non è detto che la strategia sia stata
una sola. Il 14 novembre 1974, sul «Corriere della Sera», Pier Paolo
Pasolini scrisse di «due differenti, anzi opposte, fasi della tensione:
una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista
(Brescia e Bologna 1974)».
Pasolini scrisse chiaramente che entrambe le fasi della strategia della tensione
erano state gestite «con l'aiuto e per ispirazione della Cia»: e
di opinione non molto diversa sembra appunto essere Guido Salvini. Poteri forti
e occulti, trasversali ai partiti politici e ai vari corpi dello Stato, avrebbero
usato l'arma del terrore per scacciare ogni rischio di cambiamento. Il tutto
sotto le direttive dell'alleato americano, che avrebbe utilizzato i servizi
segreti italiani, che a loro volta avrebbero sfruttato, per le operazioni di
bassa manovalanza, manipoli di fanatici. Questa è l'ultima ipotesi.
Prove di tutto questo non ce ne sono. E se è sbagliato parlare di una
sola strategia, forse è sbagliato anche parlare di un solo stratega.
Nella grande confusione di quegli anni, a giocare con bombe e funerali potrebbe
essere stato più d'uno, a Ovest come a Est.
Certo è che il comportamento di coloro ai quali era affidata la sicurezza
dello Stato, e in particolare il comportamento dei servizi segreti, non ha fatto
altro che alimentare i sospetti e allontanare la verità. Agenti imbroglioni
e depistatori, molto spesso legati alla loggia massonica P2, li troviamo non
solo nell'inchiesta su piazza Fontana, ma anche in quasi tutti i processi per
strage.
Così,
di quel periodo oscuro ben poche cose certe sappiamo. Di certissimo c'è
che da quel 12 dicembre 1969 il ricorso alla strage è diventato una costante.
Alla bomba di piazza Fontana seguirono infatti quelle del 22 luglio 1970 sul
treno «La Freccia del Sud» (6 morti e 139 feriti); del 31 maggio
1972 a Peteano (3 morti e un ferito, tutti carabinieri); del 17 maggio 1973
davanti alla questura di Milano (4 morti e numerosi feriti); del 28 maggio 1974
in piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 94 feriti); del 4 agosto 1974 sul
treno Italicus, a San Benedetto Val di Sambro (12 morti, un centinaio di feriti);
del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (80 morti, decine di feriti); del
24 dicembre 1984 sul treno 904 Napoli-Milano (16 morti, 266 feriti).
Solo per tre di queste otto stragi ci sono sentenze definitive di condanna:
contro gli estremisti di destra Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini per la
bomba di Peteano, contro l'anarchico Gianfranco Bertoli per quella alla questura
di Milano. Vinciguerra e Bertoli sono rei confessi e stanno scontando l'ergastolo,
Cicuttini è latitante all'estero. Per la bomba del 24 dicembre '84, i
giudici hanno ritenuto che la matrice non fosse politica ma mafiosa, condannando
all'ergastolo Pippo Calò e i suoi luogotenenti: i morti del rapido 904
dovevano servire a distogliere l'attenzione dello Stato dall'attività
delle cosche siciliane. Per tutte le altre stragi, buio quasi completo.
IX - ED ECCO IL PARTITO ARMATO
La
strage di piazza Fontana, e i torbidi intrallazzi che ne seguirono, sono ancor
oggi l'alibi da sbandierare quando si ricorda la lotta armata e, più
in generale, la degenerazione violenta del movimento.
La tesi che insomma si vuol accreditare è che, se l'estrema sinistra
diventò violenta, fu -oltre che a causa della «repressione»
di cui parlavamo prima- soprattutto per reazione ai morti del 12 dicembre, e
per risposta al complotto di Stato ordito al fine di fermare l'avanzata progressista.
Dice, ad esempio, Mario Capanna: «Ridemmo, fino a quando fummo posti di
fronte allo strazio di piazza Fontana. La risposta [alla contestazione del '68,
n.d.a.], dunque, furono le bombe e le stragi (continuate fino alla metà
degli anni Ottanta!), un terrorismo di Stato spinto a tal punto che ancora oggi
sono rimaste impunite» («Corriere della Sera», 18 gennaio
1993). Secondo Capanna, il terrorismo di sinistra non fu «figlio del Sessantotto»,
ma «figlio legittimo della sorda resistenza dei poteri alle spinte di
cambiamento di allora».
E Renato Curcio, fondatore delle Brigate rosse, ha detto a Mario Scialoja nel
libro-intervista A viso aperto: «Con la strage di piazza Fontana il clima
improvvisamente cambiò. Fu a quel punto che scattò un salto di
qualità: prima nel nostro pensare e poi nel nostro agire. Queste bombe
e la strumentalizzazione che ne viene fatta sono un atto di guerra contro le
lotte e il movimento, dimostrano che siamo arrivati a un livello di scontro
molto aspro, ci dicemmo».
LA BATTAGLIA DEL MILIARDARIO GIANGI
In
realtà, tutto -date, discorsi, documenti- dimostra che la scelta della
violenza, e anche quella della lotta armata vera e propria, sono precedenti
al 12 dicembre 1969.
Cominciamo con quello che viene considerato una sorta di progenitore del terrorismo
di sinistra: Giangiacomo Feltrinelli.
L'editore aveva, nel 1968, quarantadue anni. Da dieci era uscito dal Pci, e
aveva cominciato un singolarissimo tour planetario alla ricerca della rivoluzione
ideale. Era stato in Medio Oriente, in Cina, nei Paesi dell'Europa dell'Est,
a Cuba e in America Latina. Si era incontrato con il leader palestinese Habbash,
con Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit, con i terroristi della Raf tedesca,
con Fidel Castro ed Ernesto «Che» Guevara.
Questo «miliardario rosso» che sceglierà la strada della
lotta armata fondando i Gap (Gruppi di azione partigiana) e arrivando alle conseguenze
più estreme (morirà il 15 marzo 1972 dilaniato da una bomba che
stava collocando su un traliccio dell'alta tensione), aveva proclamato la necessità
della guerra proletaria già ben prima della strage di piazza Fontana.
Basta leggere i suoi saggi Italia 1968: Guerriglia politica (scritto nel gennaio
1968 a Cuba), Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia! (aprile 1968)
ed Estate 1969 (pubblicato nel mese di luglio di quell'anno). Vi si sostiene,
fra l'altro, «il definitivo tramonto non solo del revisionismo, ma anche
dell'ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica
delle armi».
Ma non solo. La casa editrice di Feltrinelli aveva pubblicato, nel marzo del
1969 (attenzione alle date: sono tutte precedenti a quel tragico 12 dicembre
1969, giorno della strage di piazza Fontana), un libretto intitolato La guerriglia
in Italia, che conteneva dettagliate istruzioni sul come sostenere, appunto,
la guerriglia: compresa la preparazione di esplosivi. Non fu, quello, che uno
dei tanti opuscoli diffusi da Feltrinelli per istruire le masse sulle tecniche
del terrorismo. Altri titoli: Tupamaro, Che Guevara, Camillo Torres. Volumetti
che erano regolarmente in circolazione, a dimostrazione di quanto fosse «repressivo»
il clima nell'Italia di quel 1968. Per sfuggire alla legge, quando proprio si
voleva essere prudenti , bastava mettere un titolo di comodo, e alcune «finte»
pagine all'inizio del libretto. E' il caso, ad esempio, di uno degli opuscoli
più venduti in quel tempo: si chiamava Il sangue dei leoni, un titolo
apparentemente innocuo, e nelle prime 78 pagine era riportato un discorso del
leader congolese Edouard-Marcel Sumbu, del quale ovviamente non importava niente
a nessuno. Ciò che interessava erano le rimanenti pagine, dov'era riprodotto
il Manuale delle Special Forces. Un manuale -leggiamo- concepito per: «a)
Predisporre e condurre operazioni belliche non convenzionali in zone che non
siano sotto controllo amico. b) Organizzare, equipaggiare, addestrare e dirigere
forze indigene nella condotta delle operazioni di guerriglia. c) Addestrare,
consigliare e assistere forze indigene nella condotta di operazioni controinsurrezionali
e antiguerriglia in appoggio agli obiettivi statunitensi di guerra fredda. d)
Eseguire altre missioni per special forces secondo le direttive o i requisiti
o le esigenze della missione primaria di tipo guerrigliero». Dagli odiati
yankees veniva mutuata la tattica di guerra. C'era tutto, in quel libretto:
notizie dettagliate su vari tipi di armi e sulla confezione di un'infinita serie
di esplosivi, nozioni di strategia della guerriglia, istruzioni per le comunicazioni
fra i reparti e il pronto soccorso.
«Giangi»
Feltrinelli era ossessionato dall'idea di un golpe, che riteneva imminente e
inevitabile. Sosteneva di conoscere persino i dettagli operativi del putsch:
diceva che a Roma e a Pisa erano già state fatte le prove del blocco
di telefoni e telegrafo, che l'esercito si sarebbe riversato nelle piazze per
garantire l'ordine pubblico, che la Cgil e la Cisl si sarebbero schierate con
i golpisti, e che agli oppositori avrebbero pensato reparti speciali di carabinieri,
marina e paracadutisti, incaricati di colossali deportazioni in segretissimi
campi di concentramento. Già nel 1967, convinto che questo tragico scenario
si sarebbe verificato di lì a poco, aveva mandato alcuni suoi emissari
in Sardegna per organizzare, di concerto con il banditismo locale, una nuova
Resistenza. L'isola, nel progetto di Feltrinelli, sarebbe dovuta diventare una
specie di Cuba del Mediterraneo. Ma i suoi emissari, dopo aver parlato con i
boss di Orgosolo e dintorni, gli riferirono che era meglio lasciar perdere.
Di fronte alla certezza dell'ineluttabilità del golpe, comunque, Feltrinelli
serrò le file della sua organizzazione, richiamando alle armi giovani
inquieti e vecchi partigiani che sentivano traditi gli ideali della Resistenza.
E, appunto, sfornando a migliaia di copie questi opuscoli, che dovevano preparare
le masse a resistere: «Dobbiamo organizzare le avanguardie marxiste-leniniste.
Dobbiamo costituire cellule e comitati di resistenza. Dobbiamo sviluppare una
vera e propria guerriglia politica» si legge nel saggio Persiste la minaccia
di un colpo di Stato in Italia! dell'aprile 1968. Il programma feltrinelliano
era «Resistenza attiva oggi, controffensiva domani». E aveva cominciato,
lui ricco editore, ad addestrarsi all'uso delle armi e alla vita alla macchia.
PERCHE' LA VIOLENZA
Erano
forse, quelli di Feltrinelli, pruriti intellettuali di un rivoluzionario da
salotto? Un fenomeno limitato? Nient'affatto. Feltrinelli non era un isolato.
Non a caso una parte del suo saggio Persiste la minaccia di un colpo di Stato
in Italia! fu pubblicata anche da «La Sinistra», giornale diretto
da Lucio Colletti e Paolo Flores d'Arcais.
E poi la convinzione che il ricorso alla lotta armata fosse ineluttabile per
la vittoria finale era convinzione diffusa in tutto il movimento, ben prima
della strage di piazza Fontana. Come testimonia, fra l'altro, il fatto che quei
famosi opuscoli sulla guerriglia vennero venduti come pane.
Lo stesso Capanna -che pure con il terrorismo non ha mai avuto nulla a che fare-
diceva, l'11 marzo 1969, alla «Domenica del Corriere»: «[La
rivoluzione è] più che un conflitto, un processo, una lotta -poi
stabiliremo se violenta o no- nel corso della quale la classe operaia, oppressa,
rovescia il rapporto di potere, prende a sé il potere. Per noi, come
per Marx, Lenin, Mao, essa è violenta o non è».
E ancora, alla domanda «Tu ipotizzi quindi anche una rivoluzione violenta,
le fucilate nelle strade?», Capanna rispose: «Certamente».
E sempre nella stessa intervista, il leader del Movimento studentesco spiegava:
«Che poi per conseguire questo occorra anche agire con violenza, potrà
dispiacere, ma non è scelta che facciamo noi. E' scelta alla quale siamo
costretti da chi detiene il potere. Varrebbe la pena di approfondire il discorso
sulla violenza. Mi rendo conto che la gente ha paura quando si parla di violenza.
Ma perché ha paura? Perché è stata convinta, attraverso
un'abile orchestrazione di informazioni, di ricatti, che il sistema in cui vive
non è violento. Il che è falso. Perché è violenza
tacere una notizia, o darla in ritardo, o in maniera parziale. Non è
violenza costringere milioni di uomini a lavorare in condizioni subumane? E
non è vero che lavorano in condizioni subumane? Qualcuno lo smentisca,
venga con me all'Alfa Romeo, alla catena di montaggio, o alla Pirelli. Questa
è violenza, sottile, quotidiana».
La stessa tesi, Capanna la illustrò dettagliatamente nell'articolo La
Contro-violenza rivoluzionaria, che scrisse su «Gli studenti alla Città»,
giornale di controinformazione studentesca: «Subiamo quotidianamente,
e a tutti i livelli, la manipolazione e il ricatto di questo sistema che si
regge sull'uso programmato della violenza. Opporsi ad esso in maniera pacifica
vuol dire rinunciare in partenza a cambiarlo alle radici. (...) Chi comanda
deve usare la violenza appunto perché è in minoranza e deve impedire
costantemente la ribellione degli oppressi. Questi, per liberarsi, per essere
veramente uomini padroni della propria vita e del proprio lavoro, devono prendere
loro il potere, devono sconfiggere la minoranza violenta, devono usare una violenza
più forte. Non quindi il gesto individuale terroristico, ma la violenza
di massa, programmata, organizzata. Il popolo oppresso che lotta unito è
invincibile. Davanti alle lotte di popolo gli imperialisti segnano il passo:
Vietnam, Cina, Angola, Mozambico ecc. Questa violenza non è distruggitrice:
è creativa, (...) La violenza rivoluzionaria è l'unica possibilità
effettiva di instaurare una società dove non vi siano più oppressi
ed oppressori, dove il potere si eserciti sotto il controllo reale di tutti».
Come si nota, il ricorso alla violenza non era ritenuto indispensabile solo
per reagire a un ipotetico colpo di Stato, ma anche per ribaltare il potere
già costituito e dar vita a una società comunista.
DATE DI NASCITA DEL TERRORISMO ROSSO
E
poi la violenza, nelle scuole e nelle università, fu pratica quotidiana
fino dagli albori del Sessantotto. Ha scritto Massimo Fini sull'«Indipendente»
del 5 maggio 1993: «Se me ne sono andato dal movimento studentesco dopo
soli tre mesi è anche perché si era presa l'abitudine di sprangare
trenta contro uno chi la pensava diversamente. (...) Vomitai l'anima, anche
per lo sforzo, nei cessi della Statale dopo che con altri compagni ci avevamo
messo quaranta minuti per sottrarre Paolo Longanesi, il figliolo di Leo, alla
furia scatenata di Luca Cafiero, Popi Saracino e altri noti picchiatori del
momento».
E anche se guardiamo -oltre che alle fissazioni di Feltrinelli e alla violenza
dei vari gruppi studenteschi- allo stesso «partito armato», vediamo
che la data di nascita è anteriore a quel fatidico 12 dicembre 1969 a
cui tutto si vorrebbe far risalire.
Ha scritto il politologo Giorgio Galli nella sua Storia del partito armato:
«Ai primi di novembre (del 1969) nell'albergo Stella Maris di Chiavari,
di proprietà di un istituto religioso, si riuniscono una settantina di
appartenenti al Collettivo politico metropolitano di Milano nel quale figura
il nucleo che nell'anno successivo fonderà le Brigate rosse. Nella sala
Marchesani attigua all'albergo, di proprietà dello stesso istituto, ottenuta
col pretesto di trattare temi della presenza cattolica nella società,
Renato Curcio tiene una relazione che si può considerare la carta della
fondazione del partito armato».
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, nega che in quell'occasione
si sia parlato di lotta armata. Ha scritto nel suo libro Mara Renato e io: «Un
atto di fondazione delle Brigate Rosse non è stato mai scritto anche
se la loro nascita la si fa normalmente risalire a un convegno che tenemmo a
Chiavari, nell'autunno del 1969. Non è vero. In riviera discutemmo soltanto
di come doveva muoversi il neonato Collettivo politico metropolitano. Non si
parlò di lotta armata e la "clandestinità», come mezzo
di lotta politica, venne respinta».
Franceschini viene però contraddetto da Renato Curcio, che nel libro-intervista
A viso aperto così racconta il convegno di Chiavari: «Dopo due
giorni di dibattito in una fredda saletta, decidemmo di trasformarci in un gruppo
più centralizzato: che chiamammo Sinistra proletaria... E nel documento
elaborato al convegno di Chiavari, il cosiddetto "libretto giallo",
parlando dell'autonomia operaia introducemmo per la prima volta una riflessione
sull'ipotesi della lotta armata».
Ma più che i ricordi, a volte contraddittori, di Franceschini e Curcio,
parlano i documenti. E il documento elaborato dal Collettivo in quel convegno
di Chiavari nel novembre del 1969 dice:
«Compagni, non è con le armi della critica e della chiarificazione
che si intacca la corazza del potere capitalistico. Questi anni di lotta proletaria
hanno finalmente maturato un fatto nuovo ed un fiore è sbocciato: la
lotta violenta e organizzata dei nuovi partigiani contro il potere, i suoi strumenti
e i suoi servi. Da Milano a Roma, da Trento al Sud, le poderose e incessanti
lotte proletarie hanno trovato uno sbocco nelle azioni offensive dei primi nuclei
proletari della nuova Resistenza».
E un'ulteriore prova del fatto che il terrorismo di sinistra fu concepito prima
della strage di piazza Fontana sta nella data di fondazione (22 ottobre 1969)
di uno dei primi gruppi che esplicitamente scelsero la lotta armata: il gruppo
chiamato, appunto, «XXII Ottobre».
I FIGLI SCOMODI
Dire
che l'estrema sinistra diventò violenta -sia nei gruppi sia nelle sue
avanguardie clandestine- per reazione alla strage di piazza Fontana, e come
difesa a un colpo di Stato che si riteneva incombente, è l'ultima (in
ordine di tempo) forma di esorcismo attuata dalla sinistra. Per negare che dal
movimento del Sessantotto stava nascendo una forza eversiva violenta, si fece
ricorso a una serie di argomentazioni via via smentite dai fatti.
Ha lucidamente osservato un giornalista dichiaratamente di sinistra, Giampaolo
Pansa, nel suo libro Storie italiane di violenza e terrorismo: «Fra le
molte sinistre non si volle ammettere che [i terroristi] erano facce note e
alcune, un tempo, anche facce amiche. Circolò una tacita parola d'ordine:
rifiutare il "problema terrorismo" come problema della sinistra e
negare che un certo numero di compagni si fossero messi a sparare, a rubare,
a sequestrare. Così gli opportunismi di partito, la paura di essere coinvolti
in un discorso amaro, e un'invincibile tendenza ad autoingannarsi, strinsero
alleanza e generarono un doppio errore.
«Il primo» continua Pansa «fu quello di non voler riconoscere
l'identità politica delle bande clandestine e di classificarle come semplici
gruppi criminali. Questo avvenne soprattutto con le bande marginali, prima fra
tutte quella dei "22 Ottobre" di Genova, che non si fregiavano della
leadership di laureati a Trento, bensì della guida più modesta
di operai e sottoproletari.
«Quando l'origine politica delle bande non poté più essere
smentita, si commise il secondo errore: quello di sfuggire alla verità
con l'aiuto di figure che avevano si, a che fare con la politica, ma erano figure
di comodo, immagini continuamente diverse, talora contrastanti, però
sempre false. Fu l'epoca del camuffamento. Per non confessare che il terrorismo
veniva dalle fila della sinistra, si cominciò a parlare di "sedicenti"
Brigate rosse, di fascisti travestiti, di provocatori organizzati dal padrone,
di agenti dei servizi segreti addetti alla strategia della tensione, di mercenari
al seguito di qualche complotto straniero. Più tardi si ricorse a un
camuffamento meno lontano dalla realtà: i terroristi, in fondo, sono
soltanto dei compagni che sbagliano».
E dopo questo terzo camuffamento, ecco il quarto, sopravvissuto fino ai nostri
giorni: la sinistra si armò perché c'era stata la strage di piazza
Fontana.
Non può sfuggire, fra l'altro, il fatto che l'ostinazione nel cercare
attenuanti al terrorismo «rosso» (o addirittura nel negare la sua
vera matrice) è più della sinistra tradizionale, per così
dire legale, che non di quella extraparlamentare. Franco Piperno, di Potere
operaio, non ha avuto alcuna difficoltà nell'affermare (nel 1979, in
piena offensiva delle Br) che «il terrorismo di oggi è figlio del
'68; anzi, del '68 è il figlio di maggior rilievo, l'unico vero seguito
dell'azione politica di quella stagione».
E Chicco Galmozzi, uno dei fondatori di Prima linea, ha detto al «Corriere
della Sera» dell'11 maggio 1993: «La sinistra italiana ha rimosso
il fatto che la violenza non era identificabile soltanto con le Brigate rosse,
ha dimenticato, per esempio, che l'agente Annarumma è morto durante uno
scontro con gli operai davanti al Lirico... Nei cortei di trentamila erano tutti
d'accordo, il nemico era comune. Qualcuno dalle parole scendeva ai fatti ma
la spinta era della massa. E le colpe andrebbero condivise. Che dire delle armi?
Abbiamo disseppellito quelle dei partigiani. Solo da poco è stata pubblicata
una lettera del '43, del comando dei Gap di Roma, in cui si invitavano tutte
le formazioni a intensificare le attività terroristiche. Quindi, il terrorismo
in Italia non è figlio del nulla. E' scomodo dire che anche noi apparteniamo
alla tradizione della sinistra. Che perciò ha deciso di falsificare la
storia».
LA TRAGICA FINE DEL COMPAGNO OSVALDO
I
Gap di Feltrinelli, il gruppo XXII Ottobre di Genova e le Brigate rosse furono
dunque le prime tre formazioni che scelsero la lotta armata.
I Gap, attivi soprattutto nel triangolo Milano-Genova-Torino e dediti in particolare
agli attentati dinamitardi, non sopravvissero alla fine del loro fondatore.
Giangiacomo Feltrinelli, che da tempo si era dato alla clandestinità
(pur senza essere ricercato) e girava con documenti falsi, saltò in aria
il 15 marzo 1972, dilaniato da una bomba che stava mettendo a un traliccio dell'alta
tensione a Segrate: l'obiettivo era quello di procurare un black-out in una
buona parte di Milano. Centinaia di giornalisti e intellettuali sostennero immediatamente
la tesi dell'omicidio, della «mostruosa macchinazione», della «gravissima
provocazione».
Si accusarono la polizia e la Cia di aver ucciso l'editore e di aver organizzato
una macabra messinscena, e il giorno dei funerali migliaia di persone, in un'atmosfera
tesissima, sfilarono gridando: «Compagno Feltrinelli sarai vendicato dalla
giustizia del proletariato».
Ogni discussione venne troncata, anni più tardi, dal ritrovamento in
un covo delle Brigate rosse di un nastro su cui era registrata la confessione
di un complice di Feltrinelli, testimone del fatto: la ricostruzione coincideva
perfettamente con quella fornita allora dalla polizia. E gli stessi brigatisti,
fra cui Renato Curcio, al processo Gap-Br del 1979 lessero in aula un comunicato
in cui si diceva che l'editore era morto durante un'azione di sabotaggio, a
causa di un timer di bassa affidabilità. «Osvaldo» diceva
il comunicato delle Br (Osvaldo era il nome di battaglia di Feltrinelli) «non
è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo.»
I PRIMI COLPI DELLE BR
Il
gruppo XXII Ottobre di Mario Rossi si rese protagonista soprattutto di due azioni:
il sequestro dell'industriale Sergio Gadolla (5 ottobre 1970) e una rapina all'Istituto
case popolari di Genova, durante la quale i terroristi uccisero il fattorino
Alessandro Floris (26 marzo 1971).
Le Brigate rosse, snobbatissime all'inizio, diventarono invece il gruppo di
gran lunga più importante del terrorismo di sinistra. Del convegno di
Chiavari s'è detto. Nell'agosto del 1970 ci fu un secondo appuntamento
fondamentale: a Pecorile, un paesino ai piedi dell'Appennino, a una ventina
di chilometri da Reggio Emilia.
Un centinaio di membri del Collettivo politico metropolitano si trovarono in
un albergo messo a disposizione da un amico di Alberto Franceschini. Si discusse
non tanto se passare o no alla lotta armata (quello, come abbiamo visto, era
già stato deciso) ma su «come» passare alla lotta armata.
Nella relazione introduttiva preparata da Renato Curcio e Corrado Simioni si
diceva: «Occorre invece preparare la "guerra civile di lunga durata"
in cui il "politico" è, da subito, strettamente unito al "militare".
E' Milano, la grande metropoli, vetrina dell'impero, centro dei movimenti più
maturi, la nostra giungla. Da lì e da ora bisogna partire».
Su questo, tutti d'accordo. La spaccatura era fra coloro che volevano agire
con avanguardie clandestine, e coloro che propugnavano la tesi della «centralità»
della violenza di massa. Prevalsero i primi, e i secondi se ne andarono in Lotta
continua.
Nacquero così le Brigate rosse, il cui battesimo del fuoco fu il 17 settembre
1970, con l'incendio dell'«Alfetta» di Giuseppe Leoni, capo del
personale della Sit-Siemens di Milano. In verità, le Brigate rosse degli
esordi sono ben diverse da quelle, efficientissime, che abbiamo conosciuto in
seguito. A Incendiare la macchina di Leoni, come racconta Franceschini nelle
sue memorie, andarono in nove. E anche la clandestinità presentava aspetti
al limite del grottesco. Basti dire che questi terroristi che dovevano prepararsi
alla guerriglia e alla rivoluzione ritennero di dover dare notizia, sul giornale
«Sinistra proletaria» del 20 ottobre '70, della loro costituzione
formale. Nella primavera precedente avevano addirittura tenuto un comizio, sia
pur improvvisato, nel quartiere popolare milanese del Lorenteggio. Nei mesi
di agosto e settembre dello stesso anno, davanti alle sedi della Sit-Siemens
di piazza Zavattari a Milano e di Settimo Milanese, i brigatisti avevano organizzato
distribuzioni di volantini. E addirittura, il 25 aprile del 1971, le Br pubblicarono
il primo numero di un foglio legale, «Nuova Resistenza».
Le
prime Brigate rosse nacquero proprio lì, alla Sit-Siemens, dove lavoravano
Mario Moretti, Corrado Alunni, Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada, Giuliano
Isa e Umberto Farioli; altri gruppi del nucleo storico sono quello dell'Università
di Trento (Renato Curcio, Margherita Cagol, Giorgio Semeria), quello emiliano
(Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Tonino Paroli,
Fabrizio Pelli), quello del cosiddetto Superclan (ossia superclandestini: Vanni
Mulinaris, Duccio Berio e Corrado Simioni).
L'estrazione sociale dei primi brigatisti è eterogenea. Come ha scritto
il magistrato Gian Carlo Caselli, «sono di estrazione borghese Margherita
Cagol e Giorgio Semeria, di estrazione piccolo borghese Roberto Ognibene, Mario
Moretti e Arialdo Lintrami; di estrazione proletaria Alberto Franceschini, Alfredo
Bonavita, Tonino Paroli, Paolo Maurizio Ferrari, Prospero Gallinari».
Dopo le prime, un po' goffe azioni dimostrative, i brigatisti andarono via via
specializzandosi. Il 3 marzo 1972 rapirono il dirigente della Sit-Siemens Idalgo
Macchiarini e lo fotografarono con una pistola puntata alla tempia e con, appeso
al collo, un cartello nel quale lo si definiva «fascista». Macchiarini
fu rilasciato «in libertà provvisoria», e il volantino di
rivendicazione dei brigatisti terminava così: «Mordi e fuggi! Niente
resterà impunito! Colpiscine uno per educarne 100! Tutto il potere al
popolo armato».
Il 12 febbraio 1973, a Torino, rapirono il segretario provinciale della Cisnal
(il sindacato missino dei lavoratori) Bruno Labate, che venne rapato a zero,
interrogato e, dopo quattro ore passate in mano a un «tribunale del popolo»,
lasciato legato a un cancello della Fiat Mirafiori con il solito cartello di
insulti e minacce. Il 28 giugno successivo altro sequestro, quello dell'ingegner
Michele Mincuzzi, dirigente dell'Alfa Romeo, interrogato e rilasciato.
L'OPERAZIONE GIRASOLE
Decisamente
diverso, e sintomo di un notevole salto di qualità, fu il sequestro,
il 10 dicembre 1973 a Torino, del direttore del personale della Fiat Auto, il
cavalier Ettore Amerio.
A differenza di quelli di Macchiarini, Labate e Mincuzzi, il sequestro di Amerio
non si risolse in poche ore. Durò ben otto giorni, a dimostrazione del
fatto che le Br avevano ormai capacità operative tali da tenere un ostaggio,
e per giunta così importante, nascosto in «covi» segreti.
Amerio fu rilasciato dopo lunghi interrogatori, durante i quali, scrissero soddisfatte
le Br in un volantino, l'ostaggio aveva «collaborato in modo soddisfacente».
Fu la prova generale del primo vero grande «colpo» delle Brigate
rosse: l'«Operazione Girasole», ossia il rapimento del magistrato
genovese Mario Sossi.
Sossi, sostituto procuratore della Repubblica, era un uomo odiatissimo dall'estrema
sinistra. Considerato un duro, un reazionario, aveva sostenuto la pubblica accusa
al processo contro il gruppo XXII Ottobre. Il 18 aprile 1974, anniversario del
trionfo elettorale della Dc nel '48 e giorno dell'insediamento di Gianni Agnelli
alla presidenza della Confindustria, le Br lo rapirono.
Sossi fu rinchiuso in una «prigione del popolo» scelta da Alberto
Franceschini: una villetta nei pressi di Tortona, presa in affitto, naturalmente,
con un nome falso. Le Br diffusero ai giornali un comunicato con cui si annunciava
la cattura di una «pedina fondamentale dello scacchiere della controrivoluzione,
persecutore fanatico della classe operaia». Da quel momento, i giornali
diventarono -per anni- veicolo dei messaggi del partito armato.
Il 5 maggio 1974, sempre attraverso i giornali, le Br dettarono le condizioni
per il rilascio di Sossi: «Vogliamo la libertà per Mario Rossi,
Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Renato Fiorani, Silvio Malagoli, Cesare Maino,
Gino Piccardo, Aldo De Scisciolo». I membri, insomma, della banda XXII
Ottobre. «Gli otto compagni» intimarono i brigatisti «dovranno
essere liberati insieme in uno dei seguenti paesi: Cuba, Corea del Nord, Algeria.»
Lo Stato rispose con un secco «no». E allora, il 18 maggio, con
il comunicato numero 6, le Br annunciarono la condanna a morte di Sossi e l'imminente
esecuzione. Due giorni dopo, 20 maggio, la Corte d'assise d'appello di Genova
concesse d'ufficio agli otto esponenti della XXII Ottobre la libertà
provvisoria e il nullaosta per il rilascio del passaporto.
Per le Br, una grande vittoria. Il 23 maggio Sossi fu liberato. Ma gli otto
estremisti di cui le Br chiedevano la liberazione, contrariamente alla promessa
della Corte d'assise d'appello, restarono in carcere, anche per l'intervento
del procuratore generale di Genova Francesco Coco. L'8 giugno 1976 Coco pagherà
con la vita il suo «no» alle scarcerazioni: le Br uccideranno lui
e i due uomini della scorta in un agguato nel centro di Genova. E nel volantino
di rivendicazione faranno esplicito riferimento alla vicenda Sossi.
Ma, al di là della beffa per la mancata scarcerazione dei compagni del gruppo XXII Ottobre, il sequestro di Sossi fu per le Br un grande successo. Intanto, dal punto di vista operativo. Erano riuscite a rapire un magistrato e a tenere in scacco polizia e carabinieri per più di un mese. Poi, avevano costretto i grandi mezzi di comunicazione a occuparsi di loro per più settimane, con cadenza quotidiana: erano diventate, insomma, una forza considerevole con cui lo Stato doveva fare i conti. Infine, la soluzione incruenta del sequestro accreditò le Br di una fama che si rivelerà poi assolutamente immeritata, e cioè quella di un esercito rivoluzionario «buono», determinato nel colpire i potenti, ma non crudele al punto di versare sangue. Il 28 maggio 1974, solo cinque giorni dopo il rilascio di Sossi, ci fu a Brescia la strage di piazza della Loggia, subito attribuita ai neofascisti (anche se le inchieste e i processi non arriveranno a scoprire alcun colpevole), e il confronto fra le differenti strategie dei due opposti estremismi segnò molti punti a vantaggio delle Br, che in quel momento potevano contare -come vedremo- su un ampio consenso sia nelle fabbriche sia, soprattutto, nel movimento giovanile di sinistra.
CALABRESI: SENTENZA ESEGUITA
Del
resto, nel movimento le imprese dei terroristi venivano salutate con gioia anche
quando il sangue veniva, viceversa, versato.
Accadde, ad esempio, con l'omicidio dell'odiatissimo (dalla sinistra) commissario
Luigi Calabresi, considerato -ingiustamente, come abbiamo visto- l'inquisitore,
il torturatore, l'assassino del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. Calabresi
era odiato anche perché era spesso lui a dirigere gli uomini della squadra
politica della questura durante gli scontri di piazza.
Fu ucciso sotto casa, con due colpi di pistola sparati alle spalle, la mattina
del 17 maggio 1972. Il processo su questo delitto non è ancora finito.
L'ex leader di Lotta continua Adriano Sofri, il suo «braccio organizzativo»
Giorgio Pietrostefani e i militanti Ovidio Bompressi e Leonardo Marino erano
stati condannati (i primi due come mandanti, gli altri come esecutori materiali)
sia in primo che in secondo grado, ma la Corte di Cassazione, il 23 ottobre
del '92, ha annullato la sentenza di secondo grado per «difetto di motivazione».
L'appello è stato dunque ripetuto e il 21 dicembre 1993 tutti e quattro
gli imputati -compreso Marino, che pure si dice colpevole- sono stati assolti.
Ancora non si sa, dunque, chi abbia ucciso Calabresi. Ma a prescindere da chi
sia il colpevole, rimane il fatto che quel delitto fu salutato con gioia da
migliaia di giovani del movimento: la minaccia ripetuta all'infinito, per due
anni e mezzo, nei cortei («Guida e Calabresi, sarete presto appesi»:
Marcello Guida era il questore di Milano al tempo della morte di Pinelli) era
stata, sia pur a metà, realizzata. Il giornale «Lotta continua»,
il giorno dopo il delitto, esultò: «Un atto in cui gli sfruttati
riconoscono la propria volontà di giustizia».
Lo stesso giornale per anni aveva pubblicato foto e indirizzo di Calabresi,
indicandolo come bersaglio, e aveva annunciato: «Il proletariato ha già
emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell'assassinio di Pinelli
e Calabresi dovrà pagarla cara. (...) Sappiamo che l'eliminazione di
un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente,
un momento e una tappa fondamentale dell'assalto del proletariato contro lo
Stato assassino». Lotta continua era già, all'epoca, uno dei tre
più importanti movimenti dell'estrema sinistra «legale» (cioè
non clandestina, non terrorista) italiana.
LA STRAGE RIMOSSA
L'omicidio
di Calabresi è la genesi anche di uno dei atti più rimossi dalla
sinistra italiana: la strage compiuta dall'anarchico Gianfranco Bertoli davanti
alla questura di Milano il 17 maggio del 1973, primo anniversario, appunto,
dell'uccisione del commissario.
Quel giorno, in questura, era prevista una cerimonia di commemorazione, presente
il ministro degli Interni Mariano Rumor. Bertoli lanciò una bomba all'ingresso
di via Fatebenefratelli, uccidendo quattro passanti e ferendone altri quarantasei.
Fu quasi immediatamente arrestato dalla polizia, che lo sottrasse a quel linciaggio
a cui -sostiene lui- aspirava.
Bertoli è infatti un «anarchico stirneriano» (così
si definisce egli stesso), e dell'anarchia aveva ancora una visione da fine
Ottocento-inizio Novecento: quella del vendicatore solitario che si sacrifica
per il riscatto di tutti, quella della bomba nel mucchio «perché
non ci sono innocenti», quella della strage al cinema Diana a Milano;
quella dell'epopea cantata -tanto per stare in tema anni Settanta- da Francesco
Guccini nella sua La locomotiva, in cui si racconta di un ferroviere anarchico
dei primi del secolo che lancia un convoglio contro «un treno di signori»
gridando «trionfi la giustizia proletaria». Per questo, dopo aver
lanciato la bomba, Bertoli non fece alcun tentativo di scappare.
Si fece di tutto, all'epoca, per dire che Bertoli era in realtà un uomo
dei servizi segreti, un doppiogiochista, un fascista; e anche recentemente s'è
tentato di collegarlo alla vicenda Gladio.
Ma l'ipotesi di un Bertoli doppiogiochista sbatte contro un ostacolo che appare
insormontabile: condannato all'ergastolo, Bertoli è in carcere ininterrottamente
da quel 17 maggio 1973, cioè da più di vent'anni. Se avesse reso
un servigio al «potere», gli si sarebbe riservato un futuro migliore
(con una fuga all'estero, ad esempio) o peggiore (lo avrebbero fatto fuori per
impedirgli di parlare).
E invece Bertoli è lì, in carcere, tuttora vivo, e non dice «mi
hanno strumentalizzato», non cerca di attenuare la propria responsabilità,
non cerca di uscire di cella. Da più di vent'anni, al giudici ripete
di essere un anarchico, e di avere agito da solo. Il movimento anarchico italiano
gli ha creduto e lo ha riconosciuto. Bertoli, dal penitenziario di Porto Azzurro,
collabora tuttora (manda un cruciverba al mese) alla rivista dell'anarchia italiana
«A».
Nell'unica intervista che ha mai concesso (a Pino Corrias della «Stampa»,
il 17 maggio 1993), Bertoli ha spiegato: «I giudici e l'informazione si
servirono di me, perché a quei tempi non si ammetteva il terrorismo di
sinistra e serviva il pericolo fascista. I fascisti mettevano le bombe; Bertoli
mette la bomba, dunque è fascista. Che cosa penso di quegli anni? Che
il pericolo fascista era volutamente sovradimensionato».
Se attorno alla figura di Bertoli e al suo folle gesto sopravvivono tanti esorcismi,
infatti è proprio perché la «strage anarchica» andava
e va a intaccare il teorema secondo cui tutte le bombe le hanno messe i fascisti,
e sono frutto di un'unica regia e di un unico piano, reazionario, che doveva
frenare l'avanzata delle sinistre in Italia.
Forse è per questo che, quando si fa l'elenco delle stragi, quella di
via Fatebenefratelli viene spesso dimenticata.
X - GLI ANNI DEL CONSENSO
Le
prime azioni del partito armato e delle varie avanguardie dei gruppi extraparlamentari
furono accolte dalla sinistra con un duplice, e contraddittorio, atteggiamento.
Da un lato, una sinistra tradizionale, Pci soprattutto, impegnata a negare la
stessa esistenza di un'eversione «rossa». Dall'altra, un clima di
simpatia e di crescente consenso che le prime Brigate rosse e i vari katanga
e soci riscuotevano nel movimento degli studenti e nelle fabbriche.
«A sinistra» ha scritto Giampaolo Pansa nelle sue Storie italiane
di violenza e terrorismo, «dinanzi a quei primi colpi di pistola molti
non vollero vedere né sentire. Alzava la testa un nemico nuovo, eppure
non si avvertì il pericolo e non si riconobbe da che parte veniva. Soltanto
alcuni ebbero l'onestà di ammettere subito che il terrorismo delle Brigate
rosse e dei gruppi affini nasceva in casa, tra le file delle sinistre, e andava
messo nel conto del Sessantotto, tra i frutti marci di quella straordinaria
stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori. (...)
Ci vollero altri anni, e molti altri morti, e soprattutto l'assassinio di un
operaio comunista [Guido Rossa, sindacalista dell'Italsider, ucciso nel 1979,
n.d.a.] e di un giudice amato dalle sinistre [Emilio Alessandrini, assassinato
quattro giorni dopo Rossa, n.d.a.] perché quasi tutti aprissero gli occhi».
APPLAUSI AI NUOVI ROBIN HOOD
Ma
accanto a questa negazione della realtà, atteggiamento più che
altro di facciata, c'era, come detto, un sentimento di diffusa simpatia, di
comprensione e spesso di approvazione per questi coraggiosi che stavano, finalmente,
per far vedere i sorci verdi ai padroni. Che stavano, finalmente, dopo tante
parole a vuoto, facendo davvero la rivoluzione.
Primo Moroni, già membro del Collettivo politico metropolitano (ma mai
dei gruppi armati) e punto di riferimento importante nel mondo dell'estrema
sinistra milanese, ha scritto con Nanni Balestrini: «Nel febbraio 1971...
anche le analisi di altri gruppi [altri rispetto alle Brigate rosse, n.d.a.]
sembrano confermare che è necessario alzare il livello dello scontro.
Particolarmente Lotta continua, che insieme a Potere operaio è massicciamente
presente nelle fabbriche torinesi, pare privilegiare una tendenza verso un uso
generalizzato di una "giustizia proletaria" da contrapporre a quella
borghese...».
E così nelle fabbriche e nelle scuole non furono in pochi a pensare che
i compagni delle Brigate rosse avrebbero condotto la classe operaia verso la
vittoria. Nei cortei si cantavano canzoni dai messaggi espliciti, come La
ballata della Fiat, che diceva:
Signor
padrone questa volta
per te andrà di certo male
siamo stanchi di aspettare
che tu ci faccia ammazzare.
Noi si continua a lavorare
e i sindacati vengono a dire
che bisogna ragionare
e di lottare non si parla mai.
Signor padrone ci siam svegliati
e questa volta si dà battaglia
e questa volta come lottare
lo decidiamo soltanto noi.
Vedi il crumiro che se la squaglia
senti il silenzio nelle officine
forse domani solo il rumore
della mitraglia tu sentirai!
E un'altra canzone era L'ora del fucile, di Pino Masi e Piero Nissim, che parlava di «giusta violenza» e diceva:
Cosa
vuoi di più compagno
per capire
che è suonata l'ora
del fucile?
E più tardi, quando molti terroristi furono arrestati, lo stesso Pino Masi scrisse un'altra canzone cantata nei cortei. Si chiamava Liberare tutti e diceva:
Liberare
tutti
vuol dire lottare ancora
vuol dire organizzarsi
senza perdere un'ora.
Porci padroni
voi vi siete illusi
non bastano le galere
per tenerci chiusi...
E tutti i riformisti
che fanno i delatori
insieme ai padroni
noi li faremo fuori.
Scrivono
sempre Moroni e Balestrini che il sequestro di Macchiarini, ad opera delle Brigate
rosse, venne «visto con diffusa simpatia tra le avanguardie operaie, e
anche da alcune organizzazioni extraparlamentari».
E' vero, tanto che Potere operaio e Lotta continua espressero pubblicamente
la loro approvazione. «La recezione di questo atto, a livello di classe
operaia, è stata positiva» annotava in un comunicato Potere operaio.
E Lotta continua, sempre in un comunicato, fece sapere: «Noi riteniamo
che questa azione si inserisca coerentemente nella volontà generalizzata
delle masse di condurre la lotta di classe anche sul terreno della violenza
e dell'illegalità».
Sei giorni dopo il rapimento di Macchiarini, in Francia fu sequestrato Robert
Nogrette, un dirigente della Renault. Un'azione firmata da Nouvelle resistence
populaire, braccio armato della disciolta Gauche proletarienne. Il giornale
«Lotta continua» titolò: Il sequestro di dirigenti della
Sit-Siemens e della Renault: la giustizia rivoluzionaria comincia a far paura?
Viva la giustizia rivoluzionaria.
«Tra la fine del '72 e l'inizio del '73 » scrivono ancora Moroni
e Balestrini «intorno alle Br e al problema dello spontaneismo armato
si accendono molte discussioni, ma non c'è dubbio che intorno alle Br
si forma un'aura di romanticismo e di diffusa simpatia. (...) La base operaia
accoglie con divertita ironia la diffusione dei "verbali" dell'"interrogatorio"
Amerio e nella più totale indifferenza lascia il sindacalista fascista
Labate incatenato a un palo di fronte a Mirafiori, in attesa che arrivi la polizia
a liberarlo».
Ancora Giampaolo Pansa: «Come non ricordare il tempo dell'ipocrisia, gli
anni sino al 1974? Il mito dell'avanguardia armata andava ancora forte e sembrava
in grado di attenuare la delusione per i tanti slogan scanditi invano. Curcio
e i suoi apparivano a molti come i nuovi Robin Hood, ragazzi forse un po' spietati
ma generosi, disposti a pagare di persona e, tutto sommato, in guerra contro
un nemico comune, la società ingiusta. Quante volte, di fronte a una
classe politica imbelle e spesso marcia, di fronte a un sistema di alternative
bloccate che non offriva speranze a nessuno e tanto meno ai più giovani,
quante volte non abbiamo pensato: "Meglio le Brigate rosse di chi froda
il fisco di chi ruba nelle casse statali, di chi specula sulla salute del prossimo"?
Ogni vittima delle Brigate rosse veniva guardata con sospetto un po' cinico:
se gli hanno sparato, una ragione ci sarà, forse tormentava gli operai
del suo reparto, forse incriminava i militanti rivoluzionari, forse scriveva
articoli forcaioli (...) E quando venne sequestrato il procuratore Sossi, molti
videro in quel rapimento la giusta lezione inflitta a un magistrato conservatore
e una lunga beffa giocata allo Stato democristiano e dei padroni».
L'APPOGGIO NELLE FABBRICHE
Che
le Brigate rosse, nei primi anni, incontrassero non pochi consensi nelle fabbriche,
lo testimonia del resto lo stesso Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle
Br, nelle sue memorie. Quando racconta la prima azione, l'incendio dell'auto
del capo del personale della Sit-Siemens Giuseppe Leoni, Franceschini scrive:
«Individuare i nostri primi obiettivi non fu difficile. Gli operai con
cui parlavamo ripetevano in continuazione che bisognava colpire i "capi"",
i quadri dirigenti delle fabbriche che applicavano direttamente sui lavoratori
gli ordini del padrone.(...) Fu un operaio della Sit-Siemens a pensare alle
auto.(...) Scegliemmo lui [Leoni, n.d.a.] perché i compagni della fabbrica
avevano sempre quel nome sulle labbra.(...) Passarono molti giorni, i compagni
della fabbrica erano sempre più impazienti, ci chiedevano se avevamo
trovato la macchina, che cosa avevamo intenzione di fare».
Lo stesso scenario si ripeté quando si decise di passare al primo sequestro
di persona: «I compagni di fabbrica ci fornirono l'indicazione precisa:
Idalgo Macchiarini» ricorda Franceschini, che aggiunge che a rapimento
fatto «dagli operai ci arrivavano segnali di approvazione». Quanto
al sequestro Amerio, dice sempre Franceschini, «fu un successo, le richieste
di incontrarsi con noi aumentarono, le brigate di fabbrica diventavano nuclei
sempre più vivi, si rivolgevano a noi anche compagni comunisti da sempre,
quadri di base del Pci e del sindacato».
Nelle
fabbriche, quindi, si sapeva chi erano i brigatisti: «A Reggio Emilia
sapevano che io e gli altri eravamo nelle Br anche se nessuno lo ammetteva ufficialmente.
Così potevo tornarmene nella mia città per la Festa dell'Unità
e mangiare tranquillamente ai tavoli con i compagni di pochi anni prima. (...)
Mi consideravano dei loro. (...) E non era nemmeno clandestino, a Torino, Angelo
Basone, un nostro compagno che lavorava alle presse della Fiat, iscritto al
Pci, delegato sindacale, nel quale i compagni di lavoro riponevano grande fiducia».
«Il Pci», è ancora Franceschini nelle sue memorie, «aveva
seguito nei nostri confronti una tattica ormai consolidata. Pubblicamente, sull'Unità
e sui giornali amici, ci faceva bollare come provocatori legati ai servizi segreti,
venivamo chiamate le "fantomatiche Brigate rosse, rosse di nome e nere
di fatto". Il partito comunista sapeva però bene chi eravamo, sapeva
che la maggioranza di noi proveniva dalle sue file e che alcuni, con la tessera
in tasca, frequentavano ancora le sezioni. Era informato ma non collaborava
con polizia e carabinieri, si limitava a dar di noi un'immagine misteriosa e
torbida per allontanare la gente e gli operai.»
Conferma Prospero Gallinari, condannato all'ergastolo per il delitto Moro: «Voi
avete sempre pensato che le Brigate rosse fossero solo un'organizzazione terroristica.
Invece no. Penso alle fabbriche del mio Nord. Il cinquanta per cento degli operai
sapeva chi erano i loro colleghi che appartenevano alle Br. Ma non li denunciavano»
(«l'Unità» del 23 ottobre 1993).
Franceschini dice anche che «dopo il sequestro Amerio cambiò tutto».
Il Pci, spiega, doveva «aver intuito il consenso, ancora minimo ma significativo,
che si andava coagulando intorno a noi e doveva essere scattata la paura di
sempre, quella di essere scavalcati a sinistra». E così, tramite
un giornalista dell'«Unità», l'onorevole Alberto Malagugini,
responsabile del settore giustizia del Pci, fece avere ai brigatisti (secondo
il racconto di Franceschini) un messaggio in cui li si invitava ad arrendersi
e a consegnarsi al giudice milanese Ciro De Vincenzo, il quale «non avrebbe
usato la mano pesante».
Tutto questo non significa né che il Pci abbia incoraggiato le prime
Br, né che le fabbriche fossero popolate da fiancheggiatori dei brigatisti.
Tutto questo vuol dire, però, che è sbagliato pensare che le Br
siano nate dal nulla, corpo estraneo nel mare magnum della contestazione. Genitori
e fratelli dei terroristi vanno cercati nella grande famiglia della sinistra,
tradizionale ed extraparlamentare, e in quella casa comune il partito armato
poté godere, per qualche anno, di coperture e consensi determinanti alla
sua crescita.
CRONACHE E IMBROGLI
Se
non proprio di consenso, l'atteggiamento tenuto dalla maggioranza dei giornali
nei confronti della violenza di estrema sinistra fu -lo abbiamo già visto-
una sorta di complicità, seppur sgradita agli stessi terroristi.
Non era certo solo «l'Unità» a chiamare «fantomatiche»
o «sedicenti» le Brigate rosse, e ad avanzare dubbi sulla loro vera
matrice politica. Anche la stampa cosiddetta «borghese» -in blocco,
salvo rare eccezioni- seguitò per anni a sostenere che il terrorismo
rosso non esisteva, e che l'unico pericolo di eversione veniva da destra. Quando
anche il «Corriere della Sera» prese questa linea, Indro Montanelli
e un'altra trentina di giornalisti lasciarono (1974) via Solferino per fondare
«il Giornale», che fra i quotidiani nazionali fu, in quegli anni,
la sola voce controcorrente. Montanelli se ne andò in polemica con l'allora
direttore Piero Ottone, ma soprattutto con la proprietaria, Giulia Maria Crespi.
In un'assemblea al «Corriere», Montanelli disse che la Crespi «poteva
dirigere solo un Cottolengo».
Le azioni delle Brigate rosse avevano messo in moto, come scrivono gli insospettabili
Moroni e Balestrini, «schiere di dietrologi, non solo nella stampa borghese
ma anche in quella di movimento. Il Bcd (Bollettino di controinformazione democratica),
che pure si era schierato accanto al movimento, non aveva mai cessato di accusare
le Brigate rosse di essere "agenti provocatori" e lo stesso quotidiano
"Il Manifesto" aveva per anni riportato le notizie sulle Br definendole
"le sedicenti" o "le cosiddette" sostenendo di fatto la
loro complicità con poteri occulti dello Stato. In realtà al loro
apparire le Brigate rosse erano molto meno oscure di quanto non si immagini».
Ancora oggi, tutti i capi e i militanti delle Br reagiscono con fastidio, se
non con esasperazione, ogni qual volta viene ripetuto il ritornello delle Br
manovrate dai servizi segreti e, quindi, dal «palazzo».
«Dietro alle Br c'erano solo le Br» hanno detto Adriana Faranda
e Franco Bonisoli quando, nel '93, per l'ennesima volta si è cercato
di accreditare la tesi di una regia occulta dietro il rapimento e l'uccisione
di Aldo Moro. E Valerio Morucci, interrogato dalla prima Corte d'assise di Roma
il 25 ottobre 1993, ha definito «congetture e ipotesi fantasiose»
le voci, circolate in quei giorni, della presenza di un uomo della 'ndrangheta,
a fianco dei brigatisti, in via Fani il giorno del sequestro di Moro. «Eravamo
comunisti, non qualcosa d'altro» ha aggiunto lo stesso giorno in un'intervista
al «Manifesto».
Mario Moretti, il capo delle Br dopo la cattura di Curcio, l'organizzatore del
rapimento Moro, intervistato nel carcere di Opera (dove si trova tuttora, da
una dozzina d'anni, per scontare l'ergastolo: e questo dovrebbe far riflettere
chi continua a bollarlo come un agente della Cia) ha detto al «Corriere
della Sera» del 24 ottobre 1993: «I fatti devono essere storicizzati;
eravamo le Br e basta. E il sequestro Moro fu fatto per colpire la Dc, la politica
di solidarietà nazionale e indirettamente il Pci. Non ci manovrava nessuno.
Non agivamo per conto di forze occulte. Ma quali servizi! Avevamo tanta acqua
in cui nuotare. Se seimila persone sono finite dentro per terrorismo vuol dire
che tanti in qualche modo ci appoggiavano: comprese persone insospettabili e
pulite».
E il brigatista Cassetta in un'intervista a Walter Veltroni sull'«Unità»
del 23 ottobre 1993, ha detto: «Voi [voi dell'Unità e del Tg3,
n.d.a.] cercate un complotto che non c'è. Non avete la forza di riconoscere
la realtà degli anni Settanta. (...) Non volete riconoscere che la causa
della sconfitta della sinistra sono i suoi errori, la sua cedevolezza. E allora
vi rifugiate nel complotto. Cercate di far credere che le Br erano un burattino
nelle mani dei servizi o dello Stato». E Prospero Gallinari, suo compagno
di carcere, nella stessa intervista: «Può darsi che Gelli e la
P2 abbiano deciso che gli conveniva la morte di Moro [e quindi si adoperarono
per non farlo liberare, n.d.a.]. D'altra parte è stato Gramsci nei "Quaderni"
che diceva che quando uno assume un'iniziativa poi qualcuno tenta di utilizzarla.
Nessuno mi ha coperto, se no non sarei qui. Siamo stati usati? Io so che nessuno
mi ha costretto a fare quello che ho fatto, nessuno mi ha condizionato. Certo,
sono uno sconfitto, sono qui. Ho perso la mia partita. Ma è stata la
mia partita, la partita delle Br».
In realtà delle Brigate rosse oggi sappiamo quasi tutto: nomi, cognomi
e storia politica dei loro militanti. Quasi tutti finiti in carcere, e a lungo.
Un destino che non viene mai riservato ai doppiogiochisti.
«I FASCISTI S'AMMAZZANO FRA DI LORO»
Ma
sui giornali degli anni Settanta, almeno fino al sequestro Moro (1978), non
si negava solo la vera matrice delle Br. Anche per altri episodi di violenza
si accreditavano versioni che occultavano la responsabilità dell'estrema
sinistra. S'è detto dei casi di Feltrinelli e di Bertoli. Un altro esempio
di «depistaggio» giornalistico è l'omicidio, spacciato per
un regolamento di conti nell'ambiente della destra, dello studente greco Mikis
Mantakas, missino, ucciso il 28 febbraio 1975, con un colpo di pistola, da estremisti
di sinistra che avevano assaltato la sede del Msi di via Ottaviano a Roma.
Nei giorni successivi i giornali cominciarono ad accreditare la «pista
nera» anche per questo delitto. Sospetti su un giovane fascista per la
morte del greco Mantakas, titolava il «Corriere della Sera» dell'11
marzo '75. Lo studente fascista era un tale Mario Fagnani, venticinque anni,
che risultò poi totalmente estraneo ai fatti. Il movente, spiegava «Il
Giorno» sempre quell'11 marzo, era «eliminare un testimone che la
sapeva troppo lunga su una serie di azioni terroristiche». Lo stesso giorno
il quotidiano romano del pomeriggio «Paese Sera» aveva già
la soluzione pronta: l'omicidio di Mantakas era «un'ennesima provocazione
che doveva servire a rilanciare i fascisti in Grecia e a creare un clima di
tensione in occasione del processo per la strage di Primavalle».
Quando i giornali scrivevano queste cose, era già in carcere un giovane
di Avanguardia comunista, Fabrizio Panzieri, mentre un altro estremista di sinistra,
Alvaro Lojacono, era ricercato. Panzieri e Lojacono sono stati ritenuti responsabili
del delitto Mantakas e condannati a sedici anni ciascuno, con sentenza resa
definitiva dalla Cassazione il 20 ottobre 1981. Ma i due erano però,
da tempo, latitanti. Panzieri, nell'84, venne poi condannato a 9 anni e 6 mesi
quale appartenente alle Unità comuniste combattenti. Ai tempi del processo
per l'omicidio di Mantakas, si era costituito per lui un comitato, presieduto
dal senatore del Pci Umberto Terracini.
Forse ancor più grottesco fu il tentativo di spacciare per frutto di
una faida tra fascisti il duplice omicidio, compiuto a Padova il 17 giugno 1974,
dei militanti missini Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Questi furono legati
e imbavagliati all'interno della sede padovana del Msi, e poi freddati con un
colpo alla nuca. Un'azione rivendicata dalle Brigate rosse. Quel che raccontarono
i giornali lo ricorda Giampaolo Pansa, un giornalista -lo ripetiamo- non sospettabile
di simpatie di destra:
«Poiché era stato versato sangue missino, neppure quelle due vite
spezzate bastarono. Per spiegare un delitto che non rientrava nello schema del
Robin Hood vendicatore però mai assassino, certuni inventarono per i
loro lettori una macchinosa storia di faide interne al neofascismo che s'erano
coperte con la sigla brigatista. Altri si rallegrarono, dal momento che i morti
erano fascisti e quindi, secondo lo slogan, soltanto carogne, tornate finalmente
nelle fogne. Altri ancora continuarono a dire: "Si, uccidono. Ma hanno
delle idee e lottano per cambiare questa società"».
GLI OPPOSTI ESTREMISMI
Del
resto, a dire che il terrorismo di sinistra non esisteva, e che l'unico pericolo
di eversione veniva da destra, non c'erano soltanto l'intellighenzia di sinistra
e la quasi totalità dei giornali, ancora una volta travolti dal conformismo
imperante. A dire tutto questo c'era persino la massima autorità in materia,
cioè il ministro degli Interni. Che era, nientemeno, democristiano: Paolo
Emilio Taviani.
Nell'agosto del 1974, Taviani rilasciò al settimanale «L'Espresso»
un'intervista destinata a far rumore, e molto, in tutto il Paese. Disse Taviani:
«Per molto tempo ho creduto alla tesi degli opposti estremismi. Quando
ho mutato parere? Poco dopo essere tornato su questa sedia di ministro degli
Interni. Gli indizi, le informazioni, le prove raccolte dalle questure e da
tutta la rete informativa della pubblica sicurezza m'hanno dato la certezza
che non solo la matrice ideologica, ma l'organizzazione sovversiva va cercata
a destra».
E ancora: «E' stato un modo [quello di sostenere che gli estremismi erano
due e non uno solo, n.d.a.] per mantenere la posizione "centrale"
della Dc nello schieramento politico».
Commentò il «Corriere della Sera»: «Queste parole sono
un'ammissione importante perché sanzionano a livello ufficiale, cioè
di governo, la fine di una teoria, quella degli opposti estremismi».
Ma
benché cancellati «ufficialmente», gli opposti estremismi
continuavano a vivere, e non erano una teoria, ma una realtà. C'era un
estremismo di sinistra, scaturito dal Sessantotto, che diventava pericoloso
nelle azioni del partito armato e nelle manifestazioni violente di molti gruppi
studenteschi.
E c'era un estremismo di segno opposto, nato per reazione al Sessantotto e all'autunno
caldo, che si esplicitava nelle rappresaglie di gruppi neofascisti contro i
«rossi» e nelle trame di uomini dei servizi segreti e di alcuni
settori delle forze armate.
Che poi, alla fine, di tanta confusione abbia beneficiato il centro, è
vero. Che alcuni uomini di questo «centro» abbiano, in alcune occasioni,
lasciato strategicamente agire gli estremisti, è possibilissimo, anche
se da dimostrare.
Ma sta di fatto che gli estremismi c'erano. E sta di fatto, quindi, che c'era
anche quel pericolo eversivo di sinistra che Taviani negava. C'era in un partito
armato la cui origine politica è nota, essendone conosciuti i componenti.
E c'era nello squadrismo dei gruppuscoli che un giorno si e l'altro pure ingaggiavano
battaglie con la polizia, spaccavano vetrine di negozi «borghesi»,
incendiavano auto in sosta, cacciavano dalle scuole e dalle università
i non allineati, sbrigativamente definiti «fascisti», facendo valere
in caso di dissenso la legge della spranga.
La smentita a Taviani sta nei fatti, pressoché contemporanei a quelle
sue affermazioni. Prima dell'intervista all'«Espresso», come abbiamo
visto, le Brigate rosse avevano cominciato a uccidere (i due missini a Padova,
il 17 giugno '74). Poco dopo, l'8 settembre '74, Renato Curcio e Alberto Franceschini
vennero arrestati a Pinerolo; il 15 ottobre successivo, in uno scontro a fuoco
nel covo di Robbiano di Mediglia, il brigatista rosso Roberto Ognibene uccise
il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano; il 29 ottobre i Nap, Nuclei
armati proletari, tentarono una rapina a una Cassa di Risparmio a Firenze, ci
fu una sparatoria e alla fine rimasero uccisi i nappisti Giuseppe Romeo e Luca
Mantini, feriti e catturati i compagni Pasquale Abatangelo e Pietro Sofia, feriti
un passante e il maresciallo dei carabinieri Luciano Arrigucci.
E ancora: il 5 dicembre, sempre del '74, un gruppo legato all'Autonomia operaia
uccise a Bologna il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini; il 18 febbraio
1975 un commando delle Brigate rosse, guidato da Mara Cagol, riuscì a
far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato; il 15 maggio venne
ferito il dirigente della Dc milanese Massimo De Carolis; il 30 maggio il militante
dei Nap Giovanni Taras morì dilaniato da una bomba che stava collocando
sul tetto del manicomio di Aversa; il 4 giugno le Brigate rosse rapirono l'industriale
Vallarino Gancia; il giorno dopo, 5 giugno, lo stesso Gancia venne liberato
dai carabinieri, che avevano individuato la sua «prigione» nella
cascina Spiotta ad Arzello, sopra Acqui: nello scontro a fuoco morirono l'appuntato
Giovanni D'Alfonso e la brigatista Mara Cagol; il tenente Umberto Rocco si ritrovò
con una gamba spappolata e anche il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito.
E ancora: il 18 giugno a Baranzate di Bollate fu scoperto un altro covo delle
Br, e furono arrestati Pierluigi Zuffada e Attilio Casaletti; l'8 luglio a Firenze
il vicebrigadiere dei carabinieri Antonio Tuzzolino uccise Anna Maria Mantini,
sorella del nappista Luca (un incidente, assicurò l'Arma, un atto deliberato,
replicarono i Nap, che per vendetta poi spararono a Tuzzolino, che rimase paralizzato);
il 4 settembre sempre del 1975 a Ponte di Brenta venne ucciso l'appuntato Antonio
Niedda.
Tutto questo avveniva, a cavallo fra il '74 e il '75, ad opera di quel partito
armato di cui si voleva negare l'esistenza.
XI - LA VIOLENZA QUOTIDIANA
Ma
non erano solo il partito armato e il partito delle stragi a versare sangue.
Mai come in quei dieci anni che vanno dal 1968 al 1977 la violenza è
stata compagna di viaggio degli italiani. Specie nelle grandi città,
gli scontri di piazza fra dimostranti e polizia, oppure fra estremisti rossi
e neri, erano all'ordine, se non del giorno, della settimana.
Non c'era corteo che non incutesse il timore di una degenerazione. L'atteggiamento
dei militanti dei vari gruppi -quasi sempre molto aggressivi se non altro negli
slogan, e spesso armati con spranghe o bastoni o chiavi inglesi o biglie o molotov
o tutte queste cose insieme- era tale da tenere sempre al massimo della tensione
i nervi di giovani poliziotti e carabinieri non sempre in grado di evitare il
peggio, e non sempre guidati da dirigenti con la testa sulle spalle. Non di
rado andavano di mezzo cittadini del tutto estranei alle manifestazioni: semplici
passanti che rimanevano feriti, automobilisti che si vedevano ribaltare o incendiare
le loro auto parcheggiate, commercianti che si ritrovavano con le vetrine in
frantumi se non peggio. Cronaca e storia registrano solo i morti, e non rendono
con esattezza il quadro della vita quotidiana degli italiani negli anni Settanta.
IN PIAZZA I PRIMI MORTI
Il
primo di questi morti è Antonio Annarumma, un poliziotto di ventidue
anni ucciso a Milano il 19 novembre 1969, quasi un mese prima della strage di
piazza Fontana, al termine di un comizio per lo sciopero generale al teatro
Lirico.
Annarumma fu colpito alla testa da uno dei tanti tubolari d'acciaio raccolti
dai manifestanti in un vicino cantiere edile e scagliati contro la polizia.
La morte di un agente era un fatto troppo scomodo per la sinistra, e così
si cominciò, fin dal giorno dopo, a diffondere la versione -ancora oggi
accreditata in numerosi libri su quegli anni- secondo cui Annarumma, che era
alla guida di una jeep, era andato a sbattere, nella confusione, contro un altro
mezzo, e aveva picchiato la testa. Niente tubolare d'acciaio, dunque, e niente
omicidio: il poliziotto era morto in un incidente d'auto.
In realtà il tubolare esisteva. Intanto, lo avevano visto i tre agenti
che erano sulla jeep guidata da Annarumma. E poi per terra, dopo gli scontri,
c'erano ben quattrocento di quei tubi usati come lance contro la polizia. Ma
soprattutto, l'autopsia aveva accertato sul capo di Annarumma «una sezione
circolare di circa cinque centimetri» e una penetrazione «nella
testa della vittima fino a metà cranio»: guarda caso, il diametro
dei tubolari raccolti in via Larga, luogo degli scontri, era di 48 millimetri,
ossia circa cinque centimetri.
Ma non solo: c'è, agli atti dell'inchiesta, una fotografia scattata un
attimo prima dell'impatto fra la jeep di Annarumma e l'altro veicolo: il poliziotto
è già col capo riverso, e sulla macchina c'è già
una chiazza di sangue.
I tragici incidenti di via Larga fecero salire la tensione come mai si era verificato
prima, almeno a Milano. La sera stessa, gli studenti del «movimento»
occuparono l'Università Statale. E due giorni dopo, il 21 novembre, i
funerali dell'agente furono l'occasione per scontri furibondi fra estremisti
di destra e di sinistra. Da Roma dovettero arrivare il presidente del Consiglio
Mariano Rumor, il ministro degli Interni Franco Restivo e il capo della polizia
Angelo Vicari per sedare una mezza rivolta degli agenti alla caserma «Bicocca».
Gli equilibrismi sulla fine di Annarumma non poterono comunque nascondere una
realtà che la sinistra, specie quella storica, non voleva accettare:
e cioè che al termine di un comizio c'erano stati degli scontri, il cui
esito -sessantadue feriti fra la forza pubblica e otto fra i civili- parlava
da solo.
Una faziosità simile, ma di segno opposto, seguì alla morte dello
studente ventitreenne Saverio Saltarelli.
Questi morì, come Annarumma, in via Larga a Milano. Era il 12 dicembre
1970, primo anniversario della strage di piazza Fontana, e il Movimento studentesco
e gli anarchici avevano organizzato una manifestazione che -al pari di un'altra
promossa dal Msi, che voleva celebrare una messa in suffragio di Annarumma-
non era stata autorizzata dalla questura.
In via Larga, appunto, i militanti del Movimento studentesco, guidati da Capanna,
si scontrarono con i carabinieri, che spararono una serie di candelotti lacrimogeni.
Uno di questi centrò in pieno petto Saverio Saltarelli, uccidendolo.
Il questore di Milano Ferruccio Allitto Bonanno sostenne che il giovane era
morto d'infarto. Una menzogna che voleva evidentemente «coprire»
la responsabilità di chi aveva sparato i lacrimogeni ad altezza d'uomo,
e che si ritorse presto contro la polizia.
QUATTRO CARTELLE ESPLOSIVE
La
gente era ormai esasperata da tanta violenza, e dal clima di terrore in cui
scorrevano le giornate -specialmente il sabato pomeriggio- nelle grandi città.
Il prefetto di Milano, Libero Mazza, decise di inviare al ministro dell'Interno
Franco Restivo, dc, quattro cartelle dattiloscritte in cui si faceva il punto
della situazione: un documento poi divenuto famoso come «rapporto Mazza»,
demonizzato dalle sinistre che vi videro la matrice di un tetro reazionario
che dipingeva a tinte fosche i «ragazzi» del «movimento».
Non si perdonò, a Mazza, il fatto di aver attribuito agli estremisti
di sinistra una schiacciante superiorità numerica rispetto a quelli di
destra (un fatto, tuttavia, incontestabile): e soprattutto non gli si perdonò
di avere avallato quella teoria degli «opposti estremismi» secondo
cui i pericoli eversivi venivano da due parti, e non solo dalla destra. Mazza
fu bollato come «fascista», nonostante il suo insospettabile passato
di partigiano, e nei cortei la sua testa («Mazza, ti impiccheremo in piazza»)
veniva chiesta con frequenza quotidiana.
In realtà il «rapporto Mazza» -divenuto pubblico il 16 aprile
1971, quando fu riportato dal «Giornale d'Italia»- era un documento
tanto ovvio e banale quanto profetico. Si sosteneva che la contestazione stava
prendendo una brutta piega, e che c'era il rischio di un'insurrezione armata
contro lo Stato. Quale sarà, appunto, quella delle Brigate rosse.
Alla fine degli anni Settanta, di fronte alla spietata e serrata iniziativa
delle Br, Mazza venne rivalutato con tante scuse. Ma intanto, in quella fine
del '70 e inizio del '71, non solo veniva stigmatizzato dalla sinistra, ma era
pure ignorato dallo stesso ministro Restivo e, più in generale, da un
governo caratterizzato da quella linea tutta morotea secondo cui è meglio
non intervenire mai, non affrontare i problemi e tanto meno cercare di risolverli,
lasciando che si estinguano per morte naturale. Una tattica che tanta parte
ebbe nella lunghissima durata (record mondiale) del Sessantotto italiano.
CASCHI, SPRANGHE E BOTTIGLIE
Ignorati
gli appelli di Mazza, la violenza continuava a imperversare, e altri gravissimi
incidenti sconvolsero Milano l'11 marzo del 1972, un sabato. Ecco la cronaca
di quegli incidenti secondo il racconto fatto nel 1973 (il linguaggio è
quello dell'epoca) da Andrea Valcarenghi, allora militante dell'estrema sinistra:
«Comizio in largo Cairoli. Lo hanno organizzato Lotta continua, Avanguardia
operaia e Potere operaio. Una roba antifascista; infatti, duecento metri più
in là, in piazza Castello, ci sono i fascisti, sia quelli silenziosi
che quelli bombaroli. E' alle tre che comincia il comizio nero. Noi siamo intruppati
con il servizio d'ordine di Potere operaio, schierato verso Foro Bonaparte.
Non siamo più di un paio di centinaia. Incazzatissimi. Duecento caschi,
duecento spranghe, duecento bottiglie. I fascisti non devono parlare.
«I compagni incominciano ad affluire numerosi dietro i cordoni dei servizi
d'ordine. Per l'aria c'è una tensione bestiale. Nessuno parla. Capiamo
tutti che lo scontro è inevitabile... Alle 16 la polizia va giù
pesante: una salva di lacrimogeni ad alzo zero e parte durissima una carica
a pettine. Nessuno indietreggia. Dal lato di corso Garibaldi c'è una
controcarica di una ventina di compagni lanciatori. Le bottiglie piovono sulle
prime file. (...) Passiamo davanti a una filiale della Renault, quindici giorni
prima i guardiani della Renault avevano ucciso a pistolettate il compagno operaio
Pierre Ovenay. Crollano le vetrine. S... spiega ai vigili urbani allibiti e
ai pochi passanti presenti il perché di quel gesto. Stiamo marciando
sul "Corriere" quando una pantera isolata cerca di passarci vicino
a sirene spiegate. Crash! E se ne va senza vetri.
«Piombiamo in via Solferino in una quarantina, la questione incomincia
a diventare pericolosa. Ormai è già da un paio d'ore che siamo
in ballo. Ho una paura del rastrellamento. Ma non faccio in tempo a riflettere
che partono due bottiglie incendiarie. Korriere: colpito! (...)
«Via ancora in corteo, ci arriva la notizia che il grosso dei compagni
è attestato in corso Garibaldi. Arriviamo nel corso al grido "Il
Corriere brucia!"».
Il bilancio di quel pomeriggio di guerriglia sarà di 82 arresti, 49 poliziotti
feriti e un morto: il pensionato Giuseppe Tavecchia, casualmente coinvolto negli
scontri.
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA E L'ORDINE MISSINO
Per
reazione a questo clima avvelenato, nacque in quegli anni a Milano la Maggioranza
silenziosa, fondata dall'avvocato Adamo Degli Occhi e guidata, fra gli altri,
dall'allora vicesegretario cittadino della Dc Massimo De Carolis e dal direttore
di «Lotta Europea» Luciano Buonocore.
L'esordio della Maggioranza silenziosa fu il 17 marzo 1971, quando migliaia
di persone -professionisti, commercianti, impiegati, pensionati, ma anche studenti
e operai- sfilarono in corteo da porta Venezia a piazza Duomo, senza labari
di partito e senza slogan aggressivi. I manifestanti avevano bandiere tricolori
e striscioni con scritto: «Ordine e progresso», «Viva l'Italia»,
«Meno politica e più fatti», «Roma sì, Mosca
no». Tutto filò liscio, e fu un grande successo per gli organizzatori.
Un mese dopo, il 17 aprile, si tentò la replica, ma le cose andarono
ben diversamente. Nel corteo c'erano anche gruppi di facinorosi, che assaltarono
la sede dell'associazione «Italia-Cina» in corso Buenos Aires e
una sezione del Pci in via Sirtori. Intervenne la polizia, i più agguerriti
fra i dimostranti innalzarono barricate, e fra i lacrimogeni e gli slogan «Il
comunismo non passerà» la manifestazione si concluse con 22 feriti
(di cui 10 poliziotti) e 82 fermati.
Il 29 maggio, sempre del '71, terza uscita pubblica, stavolta senza incidenti
e con un notevole successo di partecipazione: dodicimila persone. In tutto,
nella storia della Maggioranza silenziosa, le manifestazioni furono dieci, l'ultima
delle quali il 30 marzo 1974.
La Maggioranza silenziosa viene comunemente considerata un movimento fascista,
ma una simile definizione è impropria. Non il fascismo, ma un ordine
tipo anni Cinquanta volevano coloro che ne fecero parte. Ai suoi cortei c'erano
iscritti ed elettori, oltre che del Msi, anche e soprattutto di Dc, Pli, Pri
e Psdi. Sicuramente tutti erano accomunati, oltre che dall'esasperazione per
le continue turbolenze di piazza, anche da un forte anticomunismo. E nel mirino
della Maggioranza silenziosa ci furono in particolare il sindaco milanese di
allora, il socialista Aldo Aniasi, e Giulia Maria Crespi, la proprietaria del
«Corriere della Sera», accusata di avere impresso, con la direzione
di Piero Ottone, una svolta di sinistra al tradizionale quotidiano della borghesia
milanese.
Anche il fatto che il gruppo dirigente della Maggioranza silenziosa fece, alla
fine, un'esplicita scelta di campo aderendo al Msi, non deve trarre in inganno.
Il Movimento sociale, con la segreteria di Giorgio Almirante, aveva lasciato
in un angolo le aspirazioni oltranziste della sua ala più radicale, quella
che agognava una riedizione della Repubblica sociale, e che era capeggiata da
Pino Rauti, ex leader di Ordine nuovo. Almirante aveva detto che il partito
si era tolta la camicia nera, e aveva indossato il doppiopetto. Aveva, cioè,
deciso -vista l'emergenza imposta dal pericolo comunista- di difendere la legalità
repubblicana, pur senza rinunciare a una critica serrata alla corruzione del
sistema partitocratico.
E' per questo che, alla fine, la Maggioranza silenziosa venne risucchiata nel
Msi e, in pratica, si dissolse. Il Msi era visto allora da una buona parte degli
italiani come l'unico partito -troppo molle essendo la Dc- in grado di garantire
l'ordine e di assicurare una chiusura al comunismo. Solo così si spiega
-in un Paese dove ancora fortissimi erano il culto e anche una certa retorica
della Resistenza- lo straordinario successo (8,7 per cento alla Camera e 9,2
per cento al Senato) conseguito dalla fiamma tricolore alle elezioni politiche
del 1972.
L'AGENTE MARINO
L'immagine
di un Msi tutore dell'ordine ricevette però un duro colpo il 12 aprile
1973, quando a essere protagonisti di violenze e scontri di piazza furono, a
Milano, proprio i missini.
Quel giorno era in programma, in piazza Tricolore, un comizio del senatore Ciccio
Franco, la «primula nera» della rivolta di Reggio Calabria. Seppur
tardivamente -alle 13 di quello stesso 12 aprile, e quindi solo cinque ore prima
dell'inizio- il prefetto Mazza aveva però vietato il comizio. Centinaia
di missini, non rassegnati, si erano comunque radunati, fin dalle prime ore
del pomeriggio, nei pressi della piazza, scandendo slogan del tipo «Boia
chi molla». La polizia aveva caricato, e lì erano cominciati gli
scontri.
Scontri che si estesero poi a tutto il centro città e che culminarono
alle sette meno venti di sera in via Bellotti, quando gli estremisti di destra
risposero a una carica della polizia lanciando tre bombe a mano, del tipo Srcm
(quelle «leggere», per le esercitazioni militari): e una di queste
bombe centrò in pieno petto, uccidendolo, l'agente Antonio Marino, ventidue
anni, del terzo reparto Celere, lo stesso di Annarumma. Solo la freddezza di
un vicequestore impedì che i poliziotti, sconvolti, aprissero il fuoco
contro i dimostranti. La giornata finì con ventidue feriti fra i poliziotti,
nove fra i civili (anche qui, alcuni passanti) e settantun fermati.
Alle indagini della polizia e della magistratura collaborò anche il Msi,
e in particolare l'onorevole Franco Servello. La federazione milanese missina,
d'accordo con Almirante, pose addirittura una taglia di cinque milioni sui colpevoli
dell'uccisione di Marino. Poi denunciò agli inquirenti i due responsabili,
due giovani che il partito tenne a qualificare come «estranei al Msi».
I due, Vittorio Loi (figlio del grande pugile Duilio) e Maurizio Murelli, non
erano però così estranei. Loi era stato militante della sezione
di corso Monforte della Giovane Italia (così si chiamava l'organizzazione
giovanile del Msi prima di diventare Fronte della Gioventù), e anche
Murelli, pur se dichiaratamente contrario alla linea del partito, era stato
un iscritto. Va detto, comunque, che una sentenza emessa dal tribunale di Milano
il 26 maggio 1978 ha riconosciuto la totale estraneità dei dirigenti
del Msi e del Fronte della Gioventù agli incidenti di quel 12 aprile
1973. Loi e Murelli, invece, sono stati condannati (nel 1977) rispettivamente
a 19 e 18 anni di carcere.
La collaborazione dei vertici del partito con la giustizia, pur se determinante, non fu comunque sufficiente ad evitare al Msi pesantissime accuse da tutta Italia, e furono molti a invocare, ancora una volta, il suo scioglimento. D'altra parte, la denuncia di Loi e Murelli alla magistratura provocò l'ira dei giovani missini, che si sentirono beffati: prima mandati a combattere, e poi fatti arrestare dal loro stesso partito. Si aprì allora una frattura interna mai più sanata.
SERANTINI E FRANCESCHI
La
lista delle vittime negli scontri di piazza comprende anche un numero cospicuo
di giovani dimostranti. Di alcuni, come Saltarelli, s'è detto. Altri
due nomi rimasti in modo particolare nella «memoria» del movimento
come due caduti-smbolo sono Franco Serantini e Roberto Franceschi.
Serantini, ventun anni, pisano, anarchico, fu arrestato il 5 maggio 1972, a
Pisa, durante scontri fra polizia ed estremisti di sinistra, che volevano impedire
un comizio elettorale del Movimento sociale. Al momento dell'arresto il giovane
anarchico fu picchiato durissimamente, e infatti morì due giorni dopo,
in carcere, in seguito alle lesioni subite alla testa.
La tragica morte di Serantini, un «figlio di nessuno» cresciuto
in un brefotrofio, destò enorme impressione nel movimento di sinistra.
Leonardo Marino, l'ex militante di Lotta continua che ha confessato di essere
uno degli assassini di Calabresi, ha spiegato che quel fatto accelerò
la decisione di uccidere il commissario: «Ai primi di maggio del '72,
a seguito di scontri con la polizia a Pisa, morì il compagno Serantini.
Il clima divenne rovente e Pietrostefani mi annunciò che si dovevano
anticipare i tempi e ammazzare subito Calabresi, per sfruttare l'ondata di collera
dei compagni per la morte di Serantini. (...) Chiesi ripetutamente a Pietrostefani
di confermarmi se Sofri davvero era d'accordo, e lui mi disse che potevo accertarmene
di persona andando a parlare con lui al comizio per la morte di Serantini, che
si sarebbe tenuto a Pisa il 13 maggio. Comizio, del resto, al quale sarebbero
andati i compagni da tutto il Nord». A parte le accuse rivolte a Sofri
e a Pietrostefani (che sono stati assolti in appello dall'accusa di essere mandanti
dell'omicidio Calabresi), le parole di Marino testimoniano, appunto, «l'ondata
di collera» e la grande mobilitazione che seguirono alla morte di Serantini.
Anche
Roberto Franceschi aveva ventun anni. Militante del Movimento studentesco, era
iscritto al secondo anno del corso di laurea in economia e commercio quando,
la sera del 23 gennaio 1973, fu ferito alla nuca -davanti alla sua università,
la Bocconi di Milano- da un colpo di pistola esploso da un poliziotto. Morì
una settimana dopo.
Quella sera, 23 gennaio, alla Bocconi era stata indetta un'assemblea del Movimento
studentesco. La polizia era schierata davanti all'università, non per
impedire l'assemblea, che il rettore Giordano Dell'Amore aveva autorizzato,
ma per evitare possibili incidenti. E invece gli incidenti ci furono, e oltre
a Franceschi rimasero feriti anche un altro giovane, il ventiduenne Roberto
Piacentini, iscritto al Partito marxista-lninista, il tenente della polizia
Vincenzo Addante e l'agente Nicola Pinto.
A sparare contro Franceschi e Piacentini fu l'agente autista Gianni Gallo, ventidue
anni, ricoverato la sera stessa in stato di choc: secondo la polizia, aveva
sparato perché preso dal panico dopo essere stato attaccato.
All'indomani degli scontri, sia Mario Capanna sia il questore Ferruccio Allitto
Bonanno, in due conferenze stampa, diedero la propria versione dei fatti.
Ecco quella di Capanna:
«Alla Bocconi era indetta un'assemblea del Movimento studentesco e la
polizia, già alle 21.15, si trovava sul marciapiede opposto all'ingresso.
C'era un commissario che voleva controllare i tesserini [dell'università,
n.d.a.]. (...) C'era la sensazione che stava maturando una provocazione. Si
pensava: o ci fanno entrare e poi ci identificano, oppure vogliono uno scontro
aperto. Alle 22.15, allora, abbiamo deciso di andarcene. Gli studenti si sono
allontanati verso via Bocconi. All'angolo sono stati caricati senza preavviso,
e senza reazione da parte loro. Sono volati solo sassi che erano per terra.
Non è stata lanciata né è esplosa alcuna bottiglia molotov.
Sono stati invece esplosi molti colpi di pistola».
«Almeno un caricatore intero» aggiunse un altro esponente del Ms
presente alla conferenza stampa. «Uno dei proiettili ha forato la portiera
destra di una "500" blu che era posteggiata a pochi metri dal pensionato.
Franceschi e Piacentini sono stati colpiti proprio lì vicino.»
E questa fu la versione del questore Ferruccio Allitto Bonanno, nel tipico linguaggio
burocratico della polizia:
«In giornata gli studenti dell'Università Bocconi avevano chiesto
un'aula per tenere in serata un'assemblea. Il rettore, professor Giordano Dell'Amore,
non aveva opposto alcun rifiuto, mettendo come unica condizione che all'assemblea
non venissero ammesse persone estranee all'Università. Lo stesso rettore
(o un suo incaricato) ha poi avvisato il vicequestore dottor Paolella, dirigente
il commissariato Ticinese, della programmata assemblea.
«Alle 21, pertanto, coadiuvato nella direzione del servizio dal vicequestore
Cardile e dal tenente Vincenzo Addante, il dottor Paolella ha fatto schierare
sul marciapiedi antistante quello dell'ingresso alla Bocconi un centinaio di
guardie di PS scese dai loro automezzi. Dei circa duecento giovani raccoltisi
nel frattempo nelle vicinanze della Bocconi, soltanto una cinquantina è
entrato nell'Università. Gli altri hanno voltato l'angolo e si sono diretti
verso il pensionato.
«Poco dopo le 22 i cinquanta studenti hanno lasciato l'assemblea e hanno
mostrato di andarsene alla spicciolata. Tutto all'apparenza sembrava finito.
Ottanta agenti erano quindi già risaliti sui gipponi. Una ventina erano,
invece, ancora a terra e alcuni stavano cambiandosi l'elmetto con il berretto.
E' stato in questa fase di smobilitazione che è avvenuta l'aggressione.
Dal pensionato, sfilando a ridosso dei muri, un centinaio di giovani armati
anche di spranghe di ferro e chiavi inglesi ha attaccato d'improvviso i venti
agenti, lanciando cubetti di porfido e almeno tre molotov. Il tenente Addante
è stato colpito all'occhio sinistro da un sasso. Una delle bottiglie
molotov ha causato un principio di incendio e un buco nel telone di uno dei
gipponi.
«Nell'interno dell'automezzo si trovava già l'agente Gianni Gallo.
In fiamme il telone, anche il suo berretto è rimasto bruciacchiato. La
guardia è allora balzata a terra. Tutto è successo contemporaneamente.
I giovani dopo aver colpito si stavano voltando in fuga. Alcuni agenti hanno
fatto uso di candelotti lacrimogeni. Uno è stato lanciato a mano e non
è esploso. Altri tre sono stati sparati con i tromboncini. Il Gallo ha
aperto il fuoco con la sua pistola. Lo stesso ha fatto, sparando in aria, il
vicebrigadiere Agatino Puglise. Lo stesso sottoufficiale, appena si è
reso conto di quanto stava accadendo, ha poi disarmato il Gallo».
Il rettore Giordano Dell'Amore confermava che a dare inizio agli scontri erano
stati alcuni studenti del Ms: «La polizia è stata aggredita. Questa
è la versione che circola e che tutti confermano. Anche degli studenti
che erano lì hanno confermato la mattina successiva che è avvenuto
questo». Affermazioni che costeranno a Dell'Amore l'ostilità degli
studenti del Ms, che si riunirono in assemblea e decisero che, «visto
tutto il comportamento e le posizioni assunte dal rettore», non lo riconoscevano
«più come rettore dell'Università, dichiarandolo decaduto
dalle sue funzioni». «I poteri» diceva il documento approvato
dall'assemblea «vengono assunti temporaneamente dall'intero Consiglio
di facoltà». Le bandiere rosse all'ingresso dell'ateneo furono
abbrunate e calate e mezz'asta in segno di lutto.
IL ROGO DI PRIMAVALLE
Una
fotografia testimonia fino a che punto poterono arrivare, in quegli anni, l'odio
e la ferocia.
E' la fotografia che ritrae il giovane romano Virgilio Mattei, orrendamente
sfigurato e forse già morto, al davanzale della finestra di casa sua.
E' la fotografia del rogo di Primavalle, in cui morirono due figli -uno bambino-
di un segretario di sezione del Msi. Un rogo appiccato da estremisti di Potere
operaio alle tre di notte del 16 aprile 1973.
Primavalle è un quartiere popolare di Roma, che a quel tempo contava
115.000 abitanti e un reddito annuo pro-capite che non raggiungeva le trecentomila
lire. Gente povera, e povero era anche Mario Mattei, quarantotto anni, un imbianchino
che dopo un periodo di disoccupazione aveva trovato lavoro come spazzino comunale.
Era sposato con Anna Maria Macconi, ed era padre di sei figli: Virgilio, Stefano,
Silvia, Lucia, Antonella e Giampaolo. Una famiglia numerosa, che viveva stipata
in due locali di via Bernardo Bibbiena.
Non risulta che Mario Mattei avesse mai fatto del male a nessuno. Ma era segretario
della sezione del Msi di via Svampa, a pochi passi da casa.
Quella notte del 16 aprile una tanica di benzina fu rovesciata sulla porta d'ingresso
dell'appartamento dei Mattei. E un'altra tanica, con cinque litri di benzina,
fu lasciata sulla porta, collegata a una miccia.
Ci fu una specie di botto. Anna Maria Macconi si svegliò, vide le fiamme,
cominciò a gridare. Il marito, svegliato dalle urla, andò a prendere
un piccolo estintore che teneva in casa proprio perché era stato minacciato
(«Ti bruceremo»). La schiuma dell'estintore, insufficiente per domare
le fiamme bastò comunque per creare un varco da cui la moglie, afferrati
i due figlioletti più piccoli Giampaolo e Antonella, riuscì a
raggiungere le scale e a mettersi in salvo.
Mentre, decine di persone, attirate dal fuoco e dalle grida, si erano riversate
per strada e nel giardino, Mario Mattei, col corpo in buona parte ustionato,
riuscì ad aprire la finestra di un piccolo ballatoio e si calò
sul balconcino del piano di sotto, gridando alle bambine di seguirlo. Afferrò
Lucia, ma non Silvia, che cadde sul selciato, rimanendo ferita.
Ma intanto una barriera di fuoco aveva intrappolato Virgilio, ventidue anni,
e Stefano, otto anni. Virgilio afferrò il fratellino e cercò di
raggiungere il ballatoio. Si affacciò alla finestra. La gente gridava:
«Buttati, buttati». Ma Virgilio era impietrito, incapace di qualsiasi
movimento. Cadde, forse per un collasso, forse per soffocamento. Il piccolo
Stefano era già morto, aggrappato alla gamba del fratello maggiore. I
pompieri li trovarono così, morti tutti e due, aggrappati l'uno all'altro.
Le indagini, dirette dal sostituto procuratore Domenico Sica, arrivarono rapidamente
all'identificazione dei colpevoli: Achille Lollo, ventun anni, Marino Clavo,
vent'anni, e Manlio Grillo, trentadue anni, tutti di Potere operaio.
A casa di Lollo vennero trovati: un manoscritto con nomi e indirizzi di iscritti
al Msi «da punire», e fra questi c'era Mattei; una lettera, a lui
indirizzata, in cui si parlava di una fornitura di armi ed esplosivi; un elenco
di armi e munizioni; e, soprattutto, fogli di quaderno uguali a quelli usati
per comporre il cartello di rivendicazione della strage, un cartello fatto trovare
accanto al portoncino del condominio in cui viveva Mattei e firmato dalla «Brigata
Tanas, giustizia proletaria».
Ma a sostegno dell'accusa c'era anche, importantissima, la deposizione di Aldo
Speranza, un netturbino iscritto al Pri, amico di molti elementi di Potere operaio.
Un suo caposquadra, Alessio Di Meo, missino, testimoniò che Speranza
gli aveva confidato che un gruppo di Potere operaio, di cui faceva parte Lollo,
aveva compiuto numerosi attentati, nel quartiere Primavalle, contro esponenti
o simpatizzanti del Msi.
Speranza, dopo un'iniziale ritrosia che gli costò l'accusa di reticenza,
ammise che gli amici di Potere operaio gli avevano mostrato un deposito di ordigni
esplosivi e gli avevano fatto l'elenco degli obbiettivi da colpire, fra cui
la casa di Mattei. E Speranza -particolare decisivo- ammise alla fine di avere
visto insieme, poco prima dell'attentato, Lollo, Clavo e Grillo. Clavo disse
di avere un alibi, di avere trascorso la notte in compagnia di Diana Perrone,
figlia di uno dei proprietari del quotidiano romano «Il Messaggero».
Ma Diana Perrone negò.
Con questi e altri (le contraddizioni di Lollo e una serie di perizie) elementi,
l'inchiesta si chiuse rapidamente, e già poche settimane dopo la strage
i tre militanti di Potere operaio furono rinviati a giudizio.
Il processo di primo grado si svolse condizionato da un clima di grande tensione.
Come già raccontato nel capitolo precedente, fu il 28 febbraio 1975 -cioè
quattro giorni dopo l'inizio del processo e durante una manifestazione indetta
a sostegno degli imputati- che estremisti di sinistra uccisero in via Ottaviano
a Roma lo studente greco Mikis Mantakas, dirigente del Fuan, l'organizzazione
universitaria del Msi.
E ad alimentare ulteriormente animosità e confusione contribuirono la
sinistra e molti giornali, come lo stesso «Messaggero», che sostennero
che, in realtà, i figli del Mattei erano stati uccisi in una faida tra
fascisti. La stessa tattica -lo abbiamo visto- usata per gli omicidi di altri
tre missini: Mazzola, Giralucci e lo stesso Mantakas.
In aula, gli avvocati difensori di Lollo, Clavo e Grillo diedero battaglia portando
avanti, parallelamente, due tesi: quella, appunto, della faida tra fascisti,
e quella dell'incendio scatenatosi fortuitamente, a causa di un cortocircuito.
Il pubblico ministero Sica chiese l'ergastolo, ma il 5 giugno 1975 la Corte
assolse i tre per insufficienza di prove, scrivendo nella sentenza che «pur
sussistendo a carico di tutti e tre gli imputati non pochi indizi di reità,
questi, criticamente esaminati e vagliati, lasciano un apprezzabile spazio per
ritenerli non sufficienti a fornire una sicura certezza». Lollo fu scarcerato
e scappò all'estero, cosa che Clavo e Grillo avevano fatto già
dai giorni immediatamente successivi alla strage.
In un clima diverso, senza più le tensioni e le pressioni di quegli anni,
il 16 dicembre 1986 la Corte d'assise d'appello, al processo di secondo grado,
condannò i tre a 18 anni di reclusione, ritenendoli colpevoli di duplice
omicidio preterintenzionale e di incendio doloso. La sentenza divenne definitiva
il 13 ottobre 1987.
Il 23 febbraio 1993 «Il Manifesto», commentando l'arresto, in Brasile,
di Achille Lollo (mentre degli altri due si sono perse da tempo le tracce),
ha scritto:
«Anche se non dovessimo rivederla in questi giorni sui giornali, l'immagine
del cadavere carbonizzato di Virgilio Mattei alla finestra della sua casa, il
fratellino stretto fra le braccia in un gesto estremo di protezione, è
di quelle che non si possono dimenticare mai. Che ci pesano come macigni».
Continuava l'articolo del «Manifesto»:
«La sinistra extraparlamentare, "Il Manifesto" compreso, nella
confusione e nel dolore che seguirono, di fronte a una tragedia fino ad allora
non immaginabile (riconosce la sentenza, nemmeno dagli esecutori materiali),
credette alla faida fra fascisti. Scrivevamo, allora, che nella sezione del
Msi di Primavalle si scontravano "falchi" e "colombe": i
Mattei erano fra questi ultimi. E i fautori dello scontro duro con i rossi avrebbero
incendiato la porta di casa dei Mattei perché la colpa venisse data all'estrema
sinistra».
RAMELLI E VARALLI
Fu
davvero una primavera terribile, a Milano, quella del 1975. Quattro ragazzi
uccisi, uno di destra e tre di sinistra.
Si cominciò il 13 marzo con Sergio Ramelli. Diciannove anni, iscritto
al Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile del Msi, Ramelli
era studente dell'Istituto Tecnico Molinari. Aveva subito minacce, come molti
studenti di destra era stato «invitato» a cambiare scuola; i «compagni»
gli avevano fatto anche un processo pubblico, in aula. Fu atteso sotto casa
da un gruppo (almeno otto: tanti furono poi, al processo, i condannati) di estremisti
di Avanguardia operaia, perlopiù studenti di medicina, che lo massacrarono
a colpi di chiave inglese sulla testa. Ramelli morì, dopo quarantasette
giorni di agonia, il 29 aprile.
I suoi assassini furono scoperti e arrestati solo dieci anni dopo. Erano nel
frattempo diventati medici, stimati professionisti, e nessuno sospettava del
terribile segreto che nascondevano. Finirono quasi tutti con il confessare.
Claudio
Varalli, diciassette anni, era invece di sinistra. Un cattolico di sinistra,
iscritto alle Acli e militante del Movimento studentesco. Frequentava un istituto
tecnico per il turismo. Figlio di operai, viveva a Baranzate di Bollate, nella
«cintura» milanese. Fu ucciso il 16 aprile, in piazza Cavour, dal
neofascista Antonio Braggion, ventun anni, studente in legge, famiglia benestante.
Quel 16 aprile, Braggion e due suoi amici erano fermi, su una Mini Minor, all'angolo
fra via Turati e piazza Cavour. A un tratto arrivarono 20-25 giovani della sinistra
extraparlamentare, fra cui Varalli. Qualcuno dice che dalla Mini partì
una raffica di insulti contro i «rossi»; altri sostengono che a
cominciare furono, invece, quelli di sinistra, che avevano visto, vicino all'auto,
volantini del Fuan. Fatto sta che gli ultrà di sinistra circondarono
la Mini e cominciarono a tempestarla di colpi con spranghe e chiavi inglesi.
Due degli aggrediti riuscirono a scappare; il terzo, Braggion, reagì
sparando con una pistola 7,65 che illegalmente portava con sé. Due colpi
andarono a vuoto, uno raggiunse alla testa Varalli.
Legittima difesa? Oppure al momento di esplodere il terzo, decisivo colpo, i
giovani del Movimento studentesco erano già in fuga? I giudici optarono
per la prima soluzione, condannando Antonio Braggion a sei anni di carcere per
eccesso colposo in legittima difesa e detenzione abusiva di arma. Questa la
versione di Braggion al processo d'appello: «Ero in compagnia di due miei
amici in piazza Cavour. Avevo la schiena appoggiata alla Mini Minor. Improvvisamente
vidi arrivare una trentina di persone. Il gruppo non aveva intenzioni pacifiche.
Pensai di rientrare nell'auto ma venni colpito ripetutamente alla testa da alcune
sprangate. Era mia intenzione fuggire in macchina. Riuscii ad aprire la portiera,
a entrare nell'abitacolo ma crollai sul sedile. Pensai alla fine che aveva fatto
Ramelli.
«Istintivamente presi la pistola dalla tasca della portiera, mi girai
e sparai verso l'alto. Mi pare due colpi, un terzo lo sparai uscendo dall'auto.
Non mi accorsi di Varalli a terra, morto. (...) Mi avviai in via Turati, abbandonai
la pistola e mi recai da un amico. (...) Avevo la pistola perché avevo
subito minacce telefoniche, c'era un clima particolare nelle scuole. (...) Non
sono iscritto al Fronte della Gioventù, mi hanno anche accusato di essere
di Avanguardia nazionale ma a Roma mi hanno assolto».
Quella della legittima difesa, benché accreditata dai giudici, era tuttavia
una versione che allora nessuno voleva sentire. I grandi quotidiani, ad esempio
il «Corriere» e «La Stampa», parlarono di assassinio
fascista e alla violenza fascista dedicarono i lori «fondi», esortando
le autorità a usare le maniere forti contro la destra. Lo stesso ministro
degli Interni Luigi Gui, democristiano, disse al Senato: «In questo caso
la violenza è inequivocabilmente fascista. Una violenza tale per l'orientamento
politico di chi ha ucciso, tale anche per i suoi caratteri intrinseci, per questa
prontezza a sparare e a uccidere, forse -questo non mi è permesso di
dire in forma sicura- con una qualche premeditazione. (...) Questa prontezza
ad uccidere, questo desiderio dello scontro, questa provocazione tipicamente
fascista meritano una condanna senza attenuanti, profonda».
La sera stessa dell'uccisione di Varalli, un gruppo di ultrà di sinistra,
armati di molotov e di spranghe, assaltarono la sede del «Giornale»
di Montanelli per impedirne l'uscita. Al quotidiano, benché non ancora
stampato, si rimproverava la «tendenziosità» con cui erano
state preparate le cronache dei fatti di piazza Cavour. L'assalto riuscì
a sabotare la lavorazione al punto da impedire, in pratica, la diffusione del
quotidiano. Il giorno dopo, infatti, alle edicole arrivarono solo poche copie
del «Giornale».
Sul numero di venerdi 18 aprile, Montanelli spiegò l'accaduto, denunciando
il comportamento del magistrato a cui era affidata l'inchiesta sull'uccisione
di Varalli. «Asserragliati in redazione e alla mercè dei dimostranti,
l'unico segno che ci è venuto dal di fuori» scrisse Montanelli
«è stata la voce del sostituto procuratore della Repubblica Ottavio
Colato che, con un megafono, invitava la folla tumultuante a non raccogliere
le "provocazioni" di "alcuni organi di stampa dall'indirizzo
ben determinato", avallando così la tesi della nostra "tendenziosità"
e aizzando, con l'aria di sedarla, la violenza contro di noi.»
Davanti al «Giornale» la battaglia durò a lungo, molte vetrate
furono abbattute e a fronteggiare gli estremisti c'erano solo i tipografi: nonostante
le ripetute telefonate dal «Giornale» alla prefettura e alla questura,
non fu inviato nessun poliziotto per mettere fine all'assedio. Il lavoro in
tipografia poté riprendere solo quando gli assalitori ottennero di far
pubblicare sul «Giornale» un comunicato con cui si deplorava la
«tendenziosità» del quotidiano.
ZIBECCHI E BRASILI
Il
giorno dopo la morte di Varalli, un altro dramma. Con l'organizzazione dei sindacati
ufficiali, dei partiti e dei movimenti degli studenti, si tenne a Milano una
grande manifestazione, a cui parteciparono trentamila persone, per denunciare
la violenza fascista. Commandos di estremisti si staccarono dal corteo scatenando
la guerriglia: vennero devastati quattro bar, gli uffici della compagnia aerea
spagnola Iberia, le sezioni del Msi in viale Murillo e via Guerrini, la redazione
del giornale milanese «Lo Specchio», una cartoleria, un supermercato
della Sma, tre negozi in corso XXII Marzo, gli uffici dell'Istituto autonomo
case popolari in viale Romagna. Il consigliere provinciale del Msi Cesare Biglia
fu aggredito mentre era con la moglie, sprangato e mandato all'ospedale con
la scatola cranica sfondata.
In via Mancini, dove aveva sede la federazione del Msi, fitto lancio di bottiglie
molotov. Undici auto parcheggiate andarono distrutte. E incendiati pure alcuni
automezzi dei carabinieri, durante l'assalto alla caserma di via Fiamma.
In questi scontri, che terminarono con sessantaquattro feriti, perse la vita
Giannino Zibecchi, ventisei anni, operaio, simpatizzante del Movimento studentesco
e tra i fondatori del Comitato antifascista della zona Ticinese. Fu travolto
e ucciso, in corso XXII Marzo angolo via Cellini, da uno degli automezzi dei
carabinieri lanciati per la carica.
Il 25 maggio 1975, sempre a Milano, un gruppo di neofascisti accoltellò
e uccise, in piazza San Babila, lo studente Alberto Brasili, che aveva l'unica
colpa di vestirsi come «uno di sinistra». Forse, ma non è
sicuro, aveva staccato da un muro un adesivo del Msi. Gli assassini vennero
subito arrestati: erano cinque, il più vecchio aveva vent'anni.
Un altro delitto assurdo, feroce. Incomprensibile se non si tiene conto della
devastazione che l'odio aveva prodotto nell'animo di migliaia di giovani.
Che cosa spingeva Antonio Braggion a girare con la pistola in tasca? E perché
Claudio Varalli era in un gruppetto di sprangatori?
Sarebbe troppo semplice, e soprattutto ingiusto, etichettare come assassini
tutti i ragazzi che in quegli anni si batterono gli uni contro gli altri. Passare
dagli slogan ai fatti era un attimo. Bastava un incontro piuttosto che un altro,
un amico piuttosto che un altro, o un'occasione particolare, per ritrovarsi
con un'arma in mano. Anche molti ragazzi miti, di indole tutt'altro che bellicosa,
rischiavano di trovarsi poi in mezzo a pestaggi, agguati, risse. Quel pomeriggio
del 16 aprile 1975, Claudio Varalli uscì di casa per andare a un'assemblea
e a una manifestazione del Movimento studentesco sul tema della casa. Era in
ritardo, scese le scale di corsa. Ma arrivato sul portone si girò e tornò
indietro: aveva dimenticato di dare un bacio a Daniele, il suo fratellino di
cinque anni.
XII - I NUOVI IDOLI
Da
distruggere non c'era solo un sistema politico ed economico. Andava spazzato
via tutto un mondo, andavano stravolte le vecchie regole della convivenza, andava
rivoluzionato il modo di vivere quotidiano. Nuove mode e nuovo linguaggio, nuovi
miti e nuovi idoli.
Cambiò il modo di esprimersi. Prima nei cortei, a ritmo di slogan: «Agnelli
ha paura / e paga la questura», «Governo diccì / il fascismo
sta lì», «Per i compagni uccisi / non basta il lutto / pagherete
caro / pagherete tutto». E poi nel parlare d'ogni dì, che vedeva
nel ricorso frequente alla parolaccia una forma di liberazione dai vecchi tabù,
e nell'abuso di espressioni come «nella misura in cui», «il
problema sta a monte», «esperienze sulla propria pelle» e
«cioè» la pretesa di un tono intellettuale. Il «sinistrese»
è la nuova lingua nata in quegli anni.
Del modo di vestirsi s'è detto. La rivoluzione della minigonna e dei
pantaloni a zampa d'elefante si fermò agli inizi degli anni Settanta.
Poi i giovani della sinistra ebbero nell'eskimo, nei capelli lunghi e incolti
e nelle gonne a fiori le loro divise.
Mai come in quegli anni la scelta degli status symbol comportò, automaticamente,
una collocazione «a destra» o «a sinistra». Era fascista
chi vestiva con loden, occhiali Ray-Ban, scarpe a punta Barrow's, maglietta
Lacoste; chi aveva la Volkswagen «Golf» e la Vespa «Primavera»;
e le loro ragazze portavano borse di Vuitton. I «compagni» andavano
in bicicletta, le loro auto erano la Renault «4» e le Citroén
«Dyane» e «2 cavalli»; portavano zaini artigianali e
fumavano «MS».
Mode che spesso contagiarono la generazione di padri pateticamente impegnati
a stare al passo con i tempi; quanti cinquantenni, per non sentirsi tagliati
fuori, vollero adeguare il proprio look e il proprio linguaggio a quello dei
figli diciottenni, con i grotteschi risultati che è fin troppo facile
immaginare.
LE MODE «ALTERNATIVE»
Tutto
doveva essere «alternativo» a quel mondo che sembrava non offrire,
ai giovani dei vari movimenti, alcunché di accettabile.
Milano alternativa? Frammenti di controcittà è il titolo di una
sorta di guida che voleva offrire «... fra le pieghe della città,
nella scelta di un presente alternativo fatto di mille cose quotidiane, la possibilità
di una contestazione globale, di valori e di strutture, politica e personale»,
come era scritto in quarta di copertina.
Milano alternativa seguiva alla pubblicazione di Roma alternativa: le due guide
sono utilissime per capire come i giovani di allora volessero «vivere
il quotidiano», per cogliere le loro tendenze e i loro gusti. A pubblicarle
(nel 1975) non fu un piccolo editore dell'area ultrà, ma la nota SugarCo,
e la collana si chiamava significativamente «Fallo!», dal nome del
giornale «Underground Fallo!» e da chissà cos'altro.
«Scopo di questo libro, che libro in senso classico non è, ma semmai
un contro-libro» si leggeva nel prologo di Milano alternativa «è
di tentare una prima radiografia, una mappa, di tendenze, spinte, gruppi, e
anche luoghi fisici attorno ai quali si coagula, anche senza cristallizzarsi,
una possibile visione alternativa della città. In senso antiautoritario,
anticapitalista, in primo luogo, ma anche in senso più lato, meno specificatamente
di battaglia, controculturale, controistituzionale, e quindi creativo».
Il linguaggio, come si vede è sinistrese doc.
Seguiva una mappa della città per chi voleva «organizzare sin da
ora, oggi, una diversa vita quotidiana, senza attendere il sole dell'avvenire».
Significativo che fra i mezzi di informazione «buoni» si segnalasse,
pur con qualche riserva dovuta ai «vecchi tromboni» ancora purtroppo
presenti in redazione, il «Corriere della Sera». Diceva quella guida
dell'ultrasinistra che «il Corrierone... ha fatto molta strada... da sanfedista
triste si trasformava in progressista eclettico e fervente». Certo c'erano
ancora, diceva la guida, «le solite tristissime firme dei Moravia-Pasolini-Cassola
& Co.», ma c'erano anche «più giovani firme di giornalisti
quasi incazzati e quasi all'americana, tipo Giuliano Zincone, a far da battistrada
alla nuova era. Da parte nostra, alternativamente, che altro dire se non: lunga
vita al giovane e glorioso comitato di redazione?».
Un capitolo della guida era intitolato «Gay power», e spiegava a
chi rivolgersi (Partito radicale, corso di Porta Vigentina 15/A) per vivere
la propria sessualità «contro l'imperialismo del cazzo».
Un altro capitolo era dedicato alle «terapie alternative», perché
«la medicina convenzionale, si sa, è al servizio delle Case farmaceutiche
e degli ospedali catene di montaggio».
E il capitolo riservato allo sport è illuminante per comprendere quanto,
allora, davvero tutto fosse politicizzato. Spiegava la guida che «tutte
le strutture dello sport milanese, dallo stadio dei 100 mila all'ultimo campetto
parrocchiale, vivono all'ombra della gigantesca macchina che produce sport-spettacolo,
alienante per chi lo produce come per chi lo consuma». Ogni sport, poi,
aveva una precisa caratterizzazione ideologica: «Il nuoto, che potrebbe
e dovrebbe essere popolare, è strangolato dalla mistica nazista... Il
basket, relativamente recente, è per sua natura troppo spettacolare,
è gioco già tutto creato per lo spettatore... Il tennis è
bollato dallo snobismo manageriale... Le palestre, del trionfante neocapitalismo,
sono più che spesso luoghi osceni, per la mistica e il culto della forza
che ci si respira, e non a caso sono spesso covi di fascisti... Il ciclismo,
anche lui popolare, è sempre stato troppo legato a un agonismo feroce,
e ai sogni di Bartali e Coppi... I cosiddetti sport invernali costano troppo,
e sono più che altro ricreazione sociale e snobistica della middle class,
e spettacolo ...».
E allora quali sport poteva praticare il giovane democratico degli anni Settanta?
«Forse lo sport allo stesso tempo popolare e alternativo più d'ogni
altro è quello delle bocce... L'atletica, soprattutto praticata nelle
scuole, se è fatta senza martirizzarsi negli allenamenti, per arrivare
primi e fare i record, può anch'essa essere buona, e alternativa»,
suggeriva la guida.
E il calcio? Milano alternativa spiegava che il tifo per Inter e Milan era «rincoglionimento»,
ma siccome «il pallone è proletario», c'è anche «una
pratica del gioco del calcio per il gusto del gioco, e del pallone, che è
gioiosa, alternativa quasi».
Un'altra
guida per vivere la città senza essere out fu Milano? Guida in jeans,
edita dalla Vallecchi. Più didascalica e meno commentata di quella della
SugarCo, è comunque anch'essa una testimonianza sugli stili di vita di
allora. Ad esempio, dove spiega come far ricorso al modo di viaggiare allora
più in voga: l'autostop. «Per cercare passaggi potete rivolgervi
a qualche radio privata, che organizza annunci di questo genere (esempio Radio
Popolare o Canale 96) oppure potete con almeno una settimana di anticipo fare
un annuncio su "Secondamano" o ancora mettere un annuncio all'università»
era scritto.
E interessante anche il capitoletto «Dormire», dove oltre che fornire
gli indirizzi degli Ostelli della gioventù, si diceva: «Il consiglio
è farsi degli amici in fretta. Se si hanno esperienze da scambiare, storie
da raccontare, se lo scopo non è solo approfittare della generosità
altrui, non sarà difficilissimo, soprattutto d'estate quando la gente
si sente sola, farsi ospitare».
L'ospitare in casa propria gente che non si era mai vista fino a un minuto prima,
e viceversa andare a dormire a casa di gente mai conosciuta, fu un classico
di quegli anni. «Ti presento un compagno, è uno che ha una storia
incasinata, puoi tenerlo a casa tua per qualche giorno?» ci si sentiva
chiedere. E si accettava. Il nomadismo caratterizzò per anni la vita
di molti giovani del movimento.
Così come fu ordinario il ricorso ai lavoretti saltuari. In un celebre
locale alternativo di Milano, il «Macondo», il lavoro saltuario
venne addirittura istituzionalizzato con un convegno sull'«Arte di arrangiarsi».
Al «Macondo» si faceva di tutto: si mangiava, si fumava l'hashish
(la polizia fece chiudere il locale quando aveva già 6000 tesserati,
ma un giudice lo fece riaprire), si imparavano le arti marziali, si vedevano
film naturalmente alternativi, si organizzavano mostre, si radunavano i gay.
LE NUOVE BIBBIE: SCRITTE ...
Il
nome di quel locale non era casuale. Macondo era la città immaginaria
di Centanni di solitudine, il romanzo del colombiano Gabriel García Márquez,
il più venduto (per quanto riguarda la narrativa) fra i libri di culto
della generazione del Sessantotto.
Scritto nel '67, Cent'anni di solitudine piombò in Italia nei primi mesi
del '68, pubblicato da Feltrinelli, e fu l'inizio di un successo strepitoso:
oltre 450.000 copie. Solo nei paesi di lingua spagnola questo libro vendette
di più.
Pasolini lo stroncò («Márquez è davvero un affascinante
burlone, tant'è vero che gli sciocchi ci sono cascati... è il
romanzo di uno scenografo o di un costumista»), ma il libro aveva quel
tanto di antiamericanismo, terzomondismo e utopismo sufficiente per sfondare.
Un altro libro-simbolo di quegli anni è Porci con le ali, scritto da
Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, e pubblicato nel 1975 da Savelli. Fu,
per i giovani, una mini-bibbia della cosiddetta liberazione sessuale. Protagonisti
del libro erano due ragazzi e i loro genitali, ripetutamente citati e minuziosamente
descritti fin dalla prima pagina. Ben altro livello, s'intende, rispetto al
romanzo di Márquez, che ha continuato negli anni il successo di vendite.
Porci con le ali appare oggi datatissimo: ma è una testimonianza efficace
dell'epoca.
Un'epoca in cui la sinistra -e non parliamo solo della sinistra ortodossa, cioè
quella comunista- dominò letteratura, arte, cinema, teatro, musica. Dominò,
in una parola, la cultura, come hanno riconosciuto, in un servizio sulla «Stampa»
del 20 maggio 1993, il leader comunista Pietro Ingrao e il padre storico del
«Manifesto» Valentino Parlato. «C'è stata una forte
cultura della sinistra anticapitalista, che si è espressa nel campo del
pensiero, dell'arte e delle lettere» ha detto Ingrao. E Parlato: «Sul
mercato andavano bene i romanzi, i film, i saggi degli autori comunisti, o impropriamente
annessi dagli altri al comunismo». Un'egemonia, sostengono Ingrao e Parlato,
che non fu imposta, ma che venne da sé, dalla legge dell'offerta e della
domanda.
Sia stata la sinistra a scegliere di andare alla presa del «palazzo»
che controlla le coscienze, o siano stati gli altri -liberali e cattolici- a
lasciare campo libero con la loro assenza, sta di fatto che in quegli anni tutto
ciò che non poteva esibire un imprimatur laico, democratico e antifascista
non veniva considerato «cultura». Furono quelli, fra l'altro, gli
anni in cui gli storici marxisti ottennero quasi il monopolio dei libri di testo
delle scuole medie superiori.
... E CANTATE
E
furono quelli gli anni della musica politicizzata, con l'esplosione dei cantautori
«impegnati»: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Lucio Dalla,
Francesco Guccini, Pierangelo Bertoli, Roberto Vecchioni, Fabrizio De André,
Edoardo Bennato, Eugenio Finardi.
La musica leggera non fu più una mera occasione di svago, ma al contrario
una specie di catechesi politico-rivoluzionaria, o quanto meno un messaggio
di impegno sociale. Chi continuava a cantare il cosiddetto «privato»,
scandagliando nei sentimenti dell'uomo e facendo riferimento a valori tradizionali,
veniva marchiato come fascista.
E' il caso di Lucio Battisti, forse il maggior talento musicale italiano degli
anni Settanta. Non piacevano i suoi maglioni dolce vita neri, le sue polemiche
(che parevano «da destra») contro il consumismo, il suo raccontare
amori e sentimenti «privati». Battisti cantava Emozioni quando gli
altri parlavano di ingiustizie sociali, e cantava Innocenti evasioni quando
gli altri urlavano il dovere di impegnarsi.
E mentre gli altri sostenevano che la libertà era l'abbattimento delle
classi, Battisti cantava «In un mondo che / non ci vuole più /
il mio canto libero / sei tu». E a proposito di amori, ne raccontava anche
uno con una ragazza che viveva oltre la cortina di ferro, in una canzone, La
luce dell'Est, che mandò in bestia i comunisti.
Così Lucio Battisti diventò un nemico della sinistra, che lo accusò
di finanziare Ordine nuovo. Ha detto al «Corriere della Sera» del
29 settembre 1992 Pierangelo Bertoli: «Negli anni Settanta si sapeva che
stava a destra e che era vicino al Movimento sociale. Lo si sapeva e basta».
Prove di tutto questo, nessuna. E del resto Ornella Vanoni ha commentato: «Negli
anni Settanta chiunque parlasse d'amore veniva considerato di destra: anch'io
ho patito rimproveri dalle femministe...».
E lo stesso Giulio Rapetti, in arte Mogol, paroliere di Battisti, in un'intervista
all'«Avanti!» nell'agosto del '92 ha ricordato: «La contestazione
era diventata una forma di manierismo quasi nazista. Io, come autore, ho evitato
di speculare e mi sono anche preso del fascista per non aver inseguito il mito
della sinistra, del pugno chiuso. (...) Esistevano due culture: quella privata,
interiore, dei sentimenti e di certi valori. Poi la cultura appiccicata, determinata
da un momento di furore, forse anche con delle ragioni iniziali di stimolo ma
poi degenerata in una cultura di simbolo: "Io sono questo, tu sei quello"».
«Negli anni Settanta» ha detto Red Canzian, dei Pooh «non
eri forte se non salivi col pugno chiuso sul palco. E la sinistra ne ha approfittato».
UN SOTTILE VELENO
E
questa è la testimonianza di uno di quei cantautori che pure, in quegli
anni, riscuotevano grandi consensi a sinistra, Franco Battiato: «Il Sessantotto
è stato una buffonata. C'era puzza di semplice incazzatura. A che serve
se uno si ubriaca senza evolvere il proprio pensiero? (...)
«Ricordo scene orribili degli anni Settanta. Avevo molto seguito, i miei
concerti erano riti woodoo, la gente spaccava le sedie dei teatri. Ho toccato
la violenza che si respirava nei Festival dell'Unità. Ed ero l'unico
musicista che suonava nei circuiti dei terroristi. Li ho conosciuti, ho visto
la loro violenza, l'incapacità di ascoltare. Ero nelle aule di Roma nei
momenti caldi. A Parco Lambro tutto era paradossale. Odiavo quella violenza
ma, per certi versi, con la mia musica anch'io ne ero la causa» («La
Stampa», 28 settembre 1992).
Anch'io, dice Battiato, con la mia musica, fui una delle cause di quella violenza.
Un'autocritica non isolata.
Ha scritto Giulio Savelli, editore di punta della contestazione (pubblicò,
oltre a Porci con le ali, anche il mitico La strage di Stato, la controinchiesta
sulla bomba di piazza Fontana di cui s'è già fatto cenno):
«Insieme a qualche (raro) buon libro, pubblicammo in quegli anni un mare
di paccottiglia, di "robaccia ". (...) Robaccia: attraverso la quale,
però, instillammo goccia a goccia nei giovani che ci leggevano un sottile
veleno. Sono responsabile anch'io della morte di Calabresi perché ho
contribuito a far credere ai giovani di allora che per migliorare la società
fosse necessario distruggerla e che tramite la violenza rivoluzionaria sarebbe
nata un'organizzazione sociale perfetta (...). Provo davvero vergogna per quegli
anni. Sento davvero un grande peso se mi capita di pensare che anche uno solo
dei "terroristi" di allora possa essere stato convinto da uno dei
libri pubblicati dalla Savelli che predicavano la rivoluzione. Né mi
consola il fatto che quella responsabilità è da dividere con tanti;
e che tra i tanti ci sono molti più colpevoli di me. E soprattutto più
ipocriti, che oggi fingono di essere stati altrove. Le opere di Marx e di Lenin
che esaltavano la violenza levatrice della storia sono state pubblicate dalle
Edizioni Rinascita prima che dalla Savelli; il disprezzo della democrazia borghese
io l'ho imparato a diciannove anni nella sezione del Pci» (articolo sull'«Indipendente»
del 12-13 luglio 1992).
IL MITO DEL «CHE»
La
contestazione interna si ispirava naturalmente, in gran parte, anche a modelli
stranieri. Ed è chiaro che la congiuntura internazionale del periodo
rivoluzionò, fra gli italiani, la scelta dei punti di riferimento.
La guerra del Vietnam, con le immagini dei villaggi bombardati più volte
trasmesse in tv, incrinò -per la prima volta dalla fine della guerra-
il mito dell'America. I vietcong diventarono così il simbolo della lotta
per il comunismo e contro l'imperialismo del grande capitale; le marce e gli
slogan anti-Usa («Creare uno, due, tre, cento Vietnam») furono una
costante soprattutto all'inizio del decennio della contestazione.
L'America, certo, forniva ancora miti ed eroi; che non erano più, però,
interpreti del «sogno americano», ma al contrario rappresentanti
della rivolta contro quel sistema: gli studenti dei campus occupati, le comuni
californiane, la controcultura, il Black Power e Malcolm X.
La grande potenza-modello diventò così la Cina, dove la Rivoluzione
culturale del 1966-67 sembrava aver indicato una nuova strada per la costruzione
del socialismo: non più l'organizzazione gerarchica e centralistica dell'Unione
Sovietica, ma -finalmente- un movimento di massa spontaneo e antiautoritario.
Ma nulla e nessuno colpi l'immaginazione dei giovani come il personaggio di
Ernesto Guevara, detto il «Che».
Argentino, nato nel 1928 da Ernesto Guevara Linch (figlio di un'irlandese) e
da Cella de La Serna, laureato in medicina a Buenos Aires nel 1953, il «Che»
aveva cominciato a costruire la sua leggenda nel 1955, quando si era arruolato
nel corpo rivoluzionario cubano di Fidel Castro. Arrestato, liberato, ferito
in battaglia, il 31 dicembre 1958 vinse la battaglia (decisiva) di Santa Clara,
costringendo alla fuga il leader cubano Batista. Era la vittoria della rivoluzione
castrista, e il «Che» divenne prima cittadino cubano, poi ambasciatore,
poi capo del dipartimento dell'industrializzazione dell'istituto per la riforma
agraria, quindi presidente del Banco Nacional, infine ministro dell'Industria.
Ma anziché godersi poltrone e successo, Che Guevara continuò il
suo sogno di rivoluzionario al servizio non di una patria, ma di un'idea: e
girò il mondo che riteneva oppresso, dall'America Latina all'Algeria,
per organizzare guerriglie e rivolte.
L'8 ottobre 1967 venne ferito e catturato in Bolivia, il cui governo era andato,
appunto, a combattere. Interrogato, si rifiutò di rispondere. Il giorno
dopo, 9 ottobre 1967, alle 13.10 il sergente Mario Teran lo uccise con una raffica
di mitra. Come sempre, morto l'uomo nacque il mito.
«Perché
ci piaceva tanto, perché ci piaceva più di tutti?» ha scritto
Massimo Fini. «Perché il "Che", con i suoi ideali, con
il suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili
pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra.
(...) Noi, come tutti i giovani, amavamo la violenza, rimpiangevamo la guerra,
anche se non potevamo dirlo nemmeno a noi stessi. E il "Che" legittimava
se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni e
i cubetti di porfido.»
Naturalmente Che Guevara piaceva molto meno alla sinistra ortodossa, quella
del Partito comunista e del socialismo reale. Che Guevara era per loro un rompiscatole
che avrebbe messo in discussione anche lo status quo raggiunto dopo la rivoluzione,
un teorico della trotzkiana «rivolta permanente», un personaggio
difficilmente addomesticabile.
Molto tempo dopo, verso la metà degli anni Ottanta, non pochi si sorpresero
quando il «Che» venne celebrato anche dalla Nuova Destra. Ma se
la sorpresa era giustificata dal fatto che, politicamente, Che Guevara è
da collocare fra i nemici, cioè fra i marxisti, per altri versi l'ammirazione
che certi elementi della destra estrema hanno nutrito per lui è più
che comprensibile. Che Guevara era un paladino di quell'antiamericanismo che
è una delle poche cose che uniscono sinistra extraparlamentare con destra
radicale; combatteva le odiate plutocrazie, e soprattutto incarnava quel mito
dell'eroe, del guerriero romantico tanto celebrato dalla mistica fascista.
La storia gli ha dato torto. Non tanto perché la Cuba di Castro si è
rivelata ben diversa da quel paradiso terrestre che i rivoluzionari credevano
e volevano far credere. Ma perché Che Guevara rappresenta la massima
espressione dell'utopista, di colui che non vuole accettare né l'impossibilità
del sistema perfetto né l'ineluttabilità di un lungo e duro lavoro
per un lento (e peraltro sempre parziale) miglioramento delle cose. Rappresenta
l'utopista che si illude di cambiare tutto con un solo atto risolutivo, e che
ritiene, secondo l'insegnamento di Jean-Jacques Rousseau, che cambiato il regime
tutti gli uomini diventeranno buoni.
L'illusorio mito dell'«uomo nuovo» è stato spinto alle estreme
conseguenze da questo guerrigliero che, una volta constatati i limiti del sistema
che lui stesso aveva contribuito a edificare, anziché fermarsi a lavorare
per migliorare il regime ha sempre preferito andare alla caccia di altre rivoluzioni,
e quindi di altri paradisi terrestri.
Ha scritto l'insospettabile Giulio Savelli nel venticinquesimo anniversario
della morte: «Avrei preferito che Guevara, uomo onesto, fosse ancora vivo
(avrebbe solo sessantaquattro anni): per spiegarci dove i rivoluzionari cubani
avevano sbagliato e per distogliere i giovani dal seguirne l'esempio. Ma fino
a questo punto Guevara non ebbe coraggio. Come molti suoi compagni dell'originario
gruppo guerrigliero che, per continuare a tacere, hanno preferito togliersi
la vita».
Così scrive oggi l'ex editore-rivoluzionario Savelli. Ma per anni il
volto del guerrigliero Guevara, con basco e stella rossa, è stato un'icona
immancabile nelle case di centinaia di migliaia di giovani.
BENVENUTI ALLUCINOGENI
Ma
se una delle anime del Sessantotto fu appunto incarnata dall'ideologo imbottito
di fede nel Progresso e nella Ragione, un'altra anima fu, al contrario, quella
del «drogato», cioè di chi fugge dalla realtà. Diciamo
«drogato» fra virgolette pensando a certi slogan come «l'immaginazione
al potere» e al rifiuto di pensare o accettare qualsiasi forma di ordine
costituito.
Ma bisogna parlare di droga anche senza usare le virgolette. Perché il
decennio del Sessantotto è stato il primo momento in cui la droga, in
Occidente, è diventata un fenomeno di massa. Entrando pesantemente nella
vita comune di milioni di persone.
E non solo per la formidabile rete distributiva messa a punto da grandi organizzazioni
criminali. Già nel Medioevo la droga fu massicciamente importata dall'Oriente.
Ma non attecchì, probabilmente perché la cultura popolare espressa
dalla cristianità medievale non costituiva un humus fecondo per la sua
diffusione. Se alla fine degli anni Sessanta la mafia, e chi per lei, hanno
deciso di riconvertire la propria attività passando al narcotraffico,
è -invece- perché i tempi erano maturi.
Gli stupefacenti erano infatti visti -agli albori della contestazione- come
un mezzo di liberazione personale e persino di emancipazione delle masse. E
furono proprio i profeti del pre-Sessantotto a battersi per la loro diffusione.
I Beatles, Graham Greene, illustri cattedratici, intellettuali, attori famosi
firmarono nel 1967 sul «Times» una petizione per la liberalizzazione
della marijuana: e la richiesta venne appoggiata da un editoriale dell'autorevolissimo
quotidiano londinese.
Droghe leggere? No: gli stessi Beatles dedicarono addirittura un inno al micidiale
acido lisergico, più noto come Lsd: la canzone si chiamava Lucy in the
Sky with Diamonds, e le iniziali delle tre parole principali, come si vede,
erano già un messaggio.
L'Lsd, scoperto per caso nel 1943 dal ricercatore Albert Hofmann, che stava
tentando di realizzare uno stimolatore cardiovascolare, era un allucinogeno
potentissimo, in grado di far compiere, come si dice in questi casi, autentici
«viaggi» fuori da sé.
Così lo stesso Hofmann ha raccontato la sua scoperta: «Una goccia,
o almeno una traccia lievissima, mi cadde casualmente sulla pelle, che la assorbì.
La sensazione fu fortissima, netta: all'improvviso, la percezione del mondo
esterno si modificò radicalmente, tutti i miei organi ne furono intensamente
stimolati. Ebbi l'impressione di essere diventato una parte del mondo esterno,
di non essere più un elemento separato».
Per più di vent'anni l'Lsd fu usato solo in medicina, e con mille cautele;
poi cominciò a circolare, negli Usa, in ambienti esclusivi. Fu Cary Grant,
con un'intervista a «Life», a farla diventare un «caso»,
dicendo di aver finalmente risolto, grazie all'Lsd, i suoi problemi sessuali.
E la giornalista Jean Dunlap confermò, raccontando in un libro -naturalmente
diventato subito un best-seller- non solo di aver vinto la frigidità,
ma di vivere, per merito dell'Lsd, straordinarie esperienze erotiche.
Il vero «profeta» di questo allucinogeno fu però un professore
di Harvard, Timothy Leary, che sperimentò l'Lsd con i suoi studenti.
Lui stesso dice che questa sostanza che permette di vedere forme strane e immagini
psichedeliche, di sentirsi senza peso e di «dialogare» con la mente,
«ha prodotto la grande controcultura» di quegli anni.
Quella
«controcultura», e insomma il clima della contestazione, favorirono
l'uso delle droghe, trasformando in fenomeno di massa quello che fino a quel
momento era sempre rimasto un vizio d'élite. Ci vollero anni perché
una certa sinistra potesse capire il grande errore compiuto alla fine degli
anni Sessanta.
Fu proprio Feltrinelli -il più grande, autorevole e combattivo editore
della sinistra rivoluzionaria di quegli anni– a pubblicare nel settembre
del 1967 il libro Lsd, la droga che dilata la coscienza, affidando l'introduzione
proprio a Timothy Leary. Il libro, che segnò non poco una generazione,
dava all'uso della droga una valenza ideologica e anche politica. «Per
l'uomo moderno» si legge nella quarta di copertina «l'Lsd e droghe
analoghe come la psilocibina e la mescalina possono forse rappresentare proprio
ciò che per gl'indiani d'America sono stati i funghi e il peyote: delle
armi di difesa spirituale, dei mezzi per sopravvivere all'incalzare sempre più
alienante della civiltà tecnologica. Forse questi agenti ci abbisognano
per preservare la nostra umanità minacciata dalla standardizzazione,
per poter penetrare a piacimento in certe regioni del nostro pensiero che sono
brutalmente escluse dalla vita di tutti i giorni.»
E nella prefazione il curatore dell'opera, David Solomon, scriveva: «Le
droghe psichedeliche... sono in grado di spalancare le "porte della percezione",
spesso potenziando una capacità di penetrazione che permette di vedere
oltre la miriade di pretese e di illusioni che costituiscono la mitologia della
Posizione Sociale. Le sostanze psichedeliche, quindi, nella misura in cui le
strutture del potere, per puntellare e stabilizzare le loro egemonie, poggiano
sull'accettazione popolare controllata del mito della Posizione Sociale, rappresentano
veramente una sorta di minaccia politica.
«Per fortuna, tuttavia, solo la società più statica e repressiva
ha motivo di preoccuparsi della sovversione psichedelica. In realtà le
sostanze chimiche per la dilatazione della coscienza non costituiscono un pericolo
per una struttura orientata in senso democratico, ma anzi le offrono motivi
di speranza e di incoraggiamento».
L'Lsd non ebbe vita lunga: ma aprì una strada in cui si infilarono le
droghe di massa, lo spinello e la ben più micidiale eroina.
L'UTERO E' MIO
Con
il Sessantotto, ma destinata ad andare oltre il Sessantotto, esplose in Italia
la questione femminista.
Già discriminate dal sistema economico (nel 1975 i salari delle donne
erano in media più bassi del 12 per cento di quelli degli uomini, e i
lavori più umili erano affidati per il 67 per cento alle donne e per
il 23 per cento ai maschi), e sofferenti per le frustrazioni imposte dalla vita
della casalinga, le donne si accorsero che anche il «movimento»
dell'estrema sinistra conservava un'impronta maschilista.
Escluse dalle leadership dei gruppi rivoluzionari, e relegate a ruoli di secondo
se non di terzo piano nelle assemblee, le donne ritennero di essere state prese
in giro, e di essersi trasformate, da «angeli del focolare», in
«angeli del ciclostile». Al massimo, insomma, le mettevano a stampare
volantini.
A partire dal 1970, soprattutto nelle grosse città, nacquero così
i gruppi femministi organizzati, che si differenziarono per la scelta degli
obiettivi.
Rivolta femminile si batteva contro quella che chiamava la dominazione del maschio
all'interno della famiglia; Lotta femminista lanciò la campagna per «il
salario alle casalinghe»; l'Udi, Unione donne italiane, legata al Pci,
lavorò per introdurre nella legislazione nuove norme a tutela delle donne
nelle fabbriche; il Mld, Movimento di liberazione delle donne italiane, vicinissimo
al Partito radicale, fece della battaglia per i diritti civili il suo principale
campo d'azione.
Tutti i vari gruppi, poi, ovviamente, si trovarono compatti nell'invocare una
legge che depenalizzasse l'aborto. La richiesta femminista era anzi, in materia,
la più radicale: aborto libero e gratuito per tutte, senza limiti alcuni.
«L'utero è mio e lo gestisco io», era la parola d'ordine.
Fiorirono anche i giornali di area: «Sottosopra», «Differenze»,
«Nuova dwf-donnawomanfemme», «Quotidiano donna», «Le
operaie della casa», «...E siamo tante ...», «Lilith».
Contrariamente
ad altri movimenti stranieri, e similmente a quanto accadeva negli Stati Uniti,
il femminismo italiano non puntò tanto sull'uguaglianza dei diritti fra
uomo e donna, ma sul cosiddetto «separatismo». Diceva il manifesto
di Rivolta femminile nel luglio del 1970: «La donna non va definita in
rapporto all'uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto
la nostra libertà. L'uomo non è il modello a cui adeguare il processo
di scoperta di sé da parte della donna. La donna è l'altro rispetto
all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna».
Luoghi di riscatto erano i «collettivi di autocoscienza», e le assemblee
femministe, dalle quali gli uomini erano categoricamente esclusi. Lo slogan,
mutuato dal gruppo americano «Now», era «Il personale è
politico». La rivoluzione, insomma, doveva cominciare nei rapporti con
il marito, il fidanzato, i bambini. In questi campi la donna doveva, si diceva,
«emanciparsi».
Ancora dal manifesto di Rivolta femminile: «Verginità, castità,
fedeltà non sono virtù: ma vincoli per costruire e mantenere la
famiglia... Nel matrimonio la donna, privata del suo nome, perde la sua identità
significando il passaggio di proprietà che è avvenuto fra il padre
di lei e il marito... Riconosciamo nel matrimonio l'istituzione che ha subordinato
la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio... La donna è
stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante».
Il manifesto si concludeva perentoriamente: «Comunichiamo solo con donne».
Una decisione che portò a non pochi scontri fra le femministe e gli uomini
del movimento. Uno di questi fu il 6 dicembre del 1975, quando un gruppo di
maschi di Lotta continua «disturbò» una manifestazione di
ventimila femministe per le strade di Roma, tentando di forzare il servizio
d'ordine per infilarsi nel corteo. La sera stessa, femministe furenti occuparono
per ritorsione la sede nazionale di Lotta continua.
E una delle battaglie principali delle femministe fu la cosiddetta «liberazione
sessuale». Le donne si ritenevano usate come oggetti dagli uomini, e impossibilitate
a essere «soggetti attivi» persino sotto le lenzuola.
Sempre dal manifesto di Rivolta femminile: «Accogliamo la libera sessualità
in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità
un'alternativa onorevole. Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è
una necessità del potere; l'unica scelta soddisfacente è un rapporto
libero. Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità
e i giochi sessuali».
In piena logica separatista, le femministe fecero una bandiera politica del
ricorso alla masturbazione e al rapporto fra lesbiche, in modo da poter dimostrare
l'inutilità del maschio. «Col dito/col dito/orgasmo garantito»
fu uno degli slogan più urlati nei loro cortei.
LA COPPIA APERTA
La
rivoluzione sessuale (forse l'unica rivoluzione di quegli anni ad avere vinto,
vista la profonda modificazione, oggi, dell'etica comune in questo campo) era
peraltro già stata intrapresa anche da altri, con la teorizzazione della
«coppia aperta».
L'utopismo giacobino del tempo aveva portato a ritenere che «l'uomo nuovo»
avrebbe debellato anche il «sentimento borghese» della gelosia,
e che quindi nessuno avrebbe più sofferto quando il partner si fosse
permesso ogni genere di libertà. In realtà, per citare ancora
una volta Paul Ginsborg, certo non sospettabile di bigottismo, «in nome
della liberazione nascevano nuove forme di oppressione: la più rilevante
fu l'obbligo alla libertà sessuale».
E la rivoluzione sessuale, che aveva fra i suoi fini il riscatto di una donna
che si sentiva «oggetto», ha portato -viceversa- al massimo della
mercificazione della donna. E' di quegli anni l'esplosione, ad esempio, della
pornografia. E a far cambiare in senso più «liberale» i costumi
non furono estranei uomini di cultura dichiaratamente «di sinistra».
Ultimo tango a Parigi, il film plurisequestrato diventato famoso soprattutto
per la scena-chiave della sodomizzazione con il burro fra Marlon Brando e Maria
Schneider, era del regista Bernardo Bertolucci. E il romanzo erotico Emmanuelle,
diventato poi un film di successo, fu tradotto in Italia da Goffredo Fofi, uno
degli animatori dei «Quaderni Piacentini» e fra i maitre-à-penser
della contestazione. «Sì, l'ho tradotto io, ma me ne vergogno»
ha detto Fofi in un'intervista alla «Stampa» del 15 agosto 1992:
«Il fatto è che la pornografia ha poi vinto. Quella che sembrava
allora una battaglia antiborghese era una guerra finta: la pornografia ha invaso
tutto, ha conquistato il mercato, è uno strumento di massificazione».
La
stessa distruzione della famiglia, allora teorizzata, viene oggi ripensata criticamente
dai più sensibili: e Luciana Castellina (ex Pdup, poi Rifondazione comunista),
che in quegli anni aveva definito «prostitutorio» ogni rapporto
fra uomo e donna, nel «Corriere della Sera» del 15 settembre 1992
ha definito «molto ingiusta» quell'affermazione, aggiungendo: «Essere
casalinga può essere infinitamente più interessante che non andare
a massacrarsi in fabbrica. E' più interessante far figli che far mattonelle».
Lo stesso Pier Paolo Pasolini già nel luglio del 1974 aveva avvertito
i rischi di una certa mentalità, scrivendo sul «Mondo»: «E'
stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita edonistico che ha determinato
il trionfo del "no" al referendum sul divorzio». Il «no»,
lo ricordiamo, stava per «no all'abrogazione della legge sul divorzio»,
e quindi significava «si al divorzio».
E come non riflettere sul fatto che fu proprio negli anni immediatamente successivi
alla «rivoluzione sessuale» che esplose e si diffuse il virus dell'Aids?
Una fonte non sospettabile di vetero-clericalisrno, il fotografo Oliviero Toscani,
allora «impegnato» a sinistra e oggi noto soprattutto per le sue
scandalose foto pubblicitarie, ha scritto sull'«Europeo» del 12-26
marzo 1993: «Io ricordo gli anni '70 più che altro come il grande
laboratorio nel quale è stato pensato e messo a punto il virus dell'Aids:
anni di assoluta promiscuità sessuale. (...) Ogni combinazione era lecita,
qualsiasi iniziativa incoraggiata».
XIII - VERSO LA FINE
Il
1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia.
Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte:
il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato
lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia,
la scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo
molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati
nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all'atteggiamento
verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato
dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio forse più
rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario,
della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno
dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi,
del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile.
Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è
stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto
dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione
del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione
di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno
pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo
a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare
di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.
LA CRISI DEI GRUPPI
Di
questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice
segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari
organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione.
I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la
classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale;
e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo
lo spirito «movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi»
ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari
terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano
dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro
forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore»
era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve
concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione,
deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che
la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che
bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione
di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano spazzare
via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano
Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua.
E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei
gruppi del Sessantotto, si sciolse.
Il 20 giugno c'erano state le elezioni politiche, e i risultati erano stati,
per l'estrema sinistra, disastrosi. Democrazia proletaria, l'unica lista che
avrebbe dovuto rappresentare gli eredi della contestazione del Sessantotto,
aveva preso solo 557.000 voti, l'1,5 per cento, meno della metà di quanti
sperava. E i radicali, pur entrando per la prima volta in Parlamento, non erano
andati oltre l'1,1 per cento.
Ma più che la constatazione della modestia della propria forza, a deprimere
l'area della sinistra rivoluzionaria fu lo straordinario consenso elettorale
-e quindi popolare- ancora una volta riscosso dalla Democrazia cristiana, che
aveva ottenuto il 38,7 per cento, cioè il 3,7 per cento in più
rispetto alle elezioni amministrative dell'anno precedente. Un risultato che
smentiva la previsione, più volte espressa, di un ormai imminente crollo
della Dc, e che costringeva a un rinvio sine die della rivoluzione.
Certo: aveva guadagnato anche il Pci, in continua crescita, passando dal già
rilevantissimo 33 per cento del 15 giugno 1975 al 34,4 per cento del 20 giugno
1976. Ma questo non era, per l'estrema sinistra, una consolazione. Anzi: come
ricorda l'ex di Lotta continua Luigi Bobbio, «l'ulteriore rafforzamento
del Pci non apre la strada a un'alternativa di potere alla Democrazia cristiana,
ma prefigura piuttosto un processo di stabilizzazione giocato su due grossi
poli convergenti. Il quadro che esce dal 20 giugno non è quello del "governo
delle sinistre"; se mai, è quello del "compromesso storico"»
(Storia di Lotta Continua).
Lo smacco fu tale che Adriano Sofri parlò, al Comitato nazionale, di
«sconfitta politica» e definì le previsioni elettorali di
Lc «l'errore più clamoroso della nostra storia». Ancor più
drastico fu Marco Boato, che lasciò intravedere l'ormai prossimo autoscioglimento:
«Siamo a una svolta storica in cui si decide della vita e della morte
di Lotta continua. Abbiamo sbagliato tutto. Un partito rivoluzionario che sbaglia
tutto nella fase che ha definito storica e decisiva della lotta di classe nel
nostro Paese non può permettersi di uscirne con qualche aggiustamento
di tiro».
EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA
La
batosta elettorale di Democrazia proletaria non era l'unico grattacapo di Sofri
e compagni. All'interno del movimento il dissenso cresceva, anche e soprattutto
perché mal si tollerava la scimmiottatura dei partiti tradizionali, che
come detto aveva snaturato l'originale spirito movimentista. E' ancora Luigi
Bobbio a ricordare: «Il partito... diviene il principale bersaglio dei
militanti, non tanto per le scelte compiute, quanto per essersi costituito come
autorità superiore e averli quindi trascinati in quell'avventurosa separazione.
Il termine "espropriazione" è quello che ricorre di più
nelle requisitorie, spesso cariche di recriminazioni, formulate dai compagni
della base».
E ad aggravare la situazione interna si aggiunse la questione delle donne e
degli operai. Le prime -si era ormai in pieno clima femminista- da un anno avevano
preso a riunirsi da sole e a praticare l'«autocoscienza». I secondi
rimproveravano al nucleo dirigente di aver smarrito la «centralità
operaia». Donne e operai si erano così posti alla testa della rivolta
contro la linea dei vertici di Lc.
Fu in questo clima che si aprì a Rimini, il 31 ottobre 1976, il secondo
congresso nazionale di Lotta continua, a cui parteciparono un migliaio di militanti.
Invano Sofri cercò di ricompattare le forze.
Donne e operai continuarono a riunirsi, anche durante il congresso, in assemblee
separate. Sul banco degli imputati, la dirigenza di Lc. La compagna Vichi di
Torino intervenne invitando gli operai «a mettersi in discussione a partire
dal loro rapporto sessuale e dalla loro vita», e la compagna Laura, anche
lei di Torino, dichiarò che «non è possibile nessuna alleanza
in questo momento fra operai e donne».
Il congresso finì senza alcun ricompattamento. Il giornale «Lotta
continua» lo definì, il giorno dopo la chiusura, una «straordinaria
esperienza politica e umana». Il titolo del giornale del 6 novembre 1976
fu: Apriamo ovunque le nostre contraddizioni. Portiamo ovunque la ricchezza
del nostro congresso. Ma il destino di Lotta continua era segnato. Pur senza
alcun atto ufficiale, il movimento si sciolse. Il comitato nazionale smise di
riunirsi, gli organi dirigenti non vennero rinnovati, le federazioni furono
abbandonate a se stesse. Rimase in vita il giornale, che continuò a uscire
fino al 1982; si videro ancora, nei cortei, gli striscioni con la scritta «Lotta
continua». Molti giovani continuarono a rivendicare la propria appartenenza
a quel movimento. Ma il movimento, inteso come organizzazione, non c'era più.
Molto si è discusso sul perché della fine di Lotta continua. Certo
la struttura, da partito, era rifiutata da gran parte della base. Certo la questione
femminista ebbe un peso rilevante.
Ma il fatto che i vertici di Lc non fecero, dopo Rimini, alcun tentativo di
salvare il movimento, e anzi lo lasciarono deliberatamente morire, dà
credito alla versione secondo cui il vero motivo dell'autoscioglimento di Lotta
continua sta nell'inquietudine di molti militanti che «spingevano»
affinché si passasse decisamente alla lotta armata. Sofri, già
da tempo drasticamente risoluto nel condannare la scelta delle Brigate rosse,
cercò di frenare queste pulsioni, tentò di isolare coloro che
chiedevano di trasformare Lc in un gruppo clandestino terroristico. Ma non ci
riuscì. E allora sciolse il movimento.
E' una versione, questa, mai ufficializzata, e anzi smentita dai capi di Lc,
che associano sempre la fine dei movimento alla «questione femminista».
A dimostrare però che la spinta verso la lotta armata c'era, sta il fatto
che gran parte dei componenti della nascente Prima linea veniva da Lotta continua.
PROLIFERA IL PARTITO ARMATO
Non
era un problema solo di Lotta continua. Il partito armato stava facendo proseliti
un po' dappertutto, ed ebbe la sua parte nello sfaldamento dei vari movimenti.
Pareva non avesse più senso, infatti, chiamarsi «gruppi rivoluzionari»,
distinguendosi dai partiti della sinistra tradizionale, e non fare la rivoluzione.
Sembrava più logica una scelta netta: o di qua, con il Pci, o di là,
con le Brigate rosse. E infatti, in quello stesso 1976 in cui i gruppi si sciolsero,
crebbero sia il Pci che le azioni dei terroristi di sinistra.
Costoro avevano subito un duro colpo, all'inizio dell'anno, con la cattura (a
Milano) di Renato Curcio e Nadia Mantovani. Ma avevano in quegli stessi mesi
ingrossato le file, proprio attingendo nel grande mare dei «delusi»
dai gruppi tipo Lotta continua. Fra le azioni più importanti compiute
nel '76, una serie di attentati alle fabbriche (il più grave fu forse
l'incendio alla Fiat Mirafiori, 3 aprile, un miliardo di danni di allora), che
indussero gli operai di molte aziende a trascorrere la Pasqua negli stabilimenti
per organizzare dei «presidi volontari». E poi l'uccisione, ad opera
di militanti dell'Autonomia che stavano per costituire Prima linea, del consigliere
provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi (29 aprile); l'omicidio del procuratore
generale di Genova Francesco Coco e dei due carabinieri della scorta, compiuto
dalle Brigate rosse a Genova l'8 giugno; l'omicidio, il 1° settembre a Biella,
del vicequestore Francesco Cusano, anche lui vittima delle Br; l'agguato dei
Nap al capo del nucleo antiterrorismo del Lazio Alfonso Noce (a Roma, il 14
dicembre) che finì in una sparatoria in cui rimasero uccisi l'agente
Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichitella; l'altra tragica sparatoria,
il giorno dopo a Sesto San Giovanni, in cui il brigatista Walter Alasia uccise
il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, prima di
rimanere a sua volta fulminato dai poliziotti.
Il partito armato -e in particolare le Br, decisamente passate sotto la guida
di Mario Moretti- stava preparando il «salto di qualità»
che lo avrebbe più volte portato, negli anni successivi, a mettere in
ginocchio lo Stato.
BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO
Proprio
mentre i gruppi rivoluzionari dichiaravano la bancarotta e le Br diventavano
sempre più efficienti, il Partito comunista si trovò vicino alla
presa del potere come mai era stato in precedenza, e come mai più accadde
in seguito.
Le elezioni del 1975, oltre a far compiere al Pci un balzo di 6 punti e mezzo
in percentuale (rispetto alle amministrative del 1970), avevano portato i comunisti
al governo di Lombardia, Piemonte e Liguria, oltre che a quello di regioni già
«rosse» come l'Emilia Romagna, la Toscana e l'Umbria. Non solo:
tutte le grandi città italiane, ad eccezione di Palermo e Bari, erano
passate sotto la guida di giunte di sinistra.
A favorire questo grande balzo del Pci aveva contribuito in modo sensibile la
linea politica del suo segretario, Enrico Berlinguer, che si era conquistato
la benevolenza di una discreta parte dei ceti borghesi, rinnegando esplicitamente
il socialismo reale e dichiarandosi disponibile a una collaborazione con i cattolici.
Già nell'ottobre del 1973, con un articolo su «Rinascita»,
Berlinguer aveva proposto il «compromesso storico» fra le due forze
popolari del Paese, quella della sinistra e quella appunto cattolica. Un'idea
maturata dopo il colpo di Stato che in Cile aveva spazzato via il governo socialista
di Salvador Allende: Berlinguer era convinto che il golpe era stato favorito
dalla mancata unità dei partiti democratici. L'articolo su «Rinascita»
si intitolava appunto Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile.
E a questa proposta di abbraccio con la Dc, Berlinguer fece seguire, insieme
con i segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo, la creazione dell'«eurocomunismo»,
ossia di una via occidentale al socialismo, nettamente diversa dalle spietate
dittature dell'Est. Il documento che i segretari comunisti italiano e spagnolo
firmarono insieme il 12 luglio 1975 era un'autentica apostasia del marxismo-leninismo.
Ma
se in Italia parte della borghesia smise di associare il Pci allo spauracchio
dell'Armata Rossa, negli Stati Uniti l'eurocomunismo non venne accolto bene.
Anzi, fu ritenuto pericolosissimo e destabilizzante. Il 14 giugno 1976, a pochi
giorni dalle elezioni politiche, il prestigioso settimanale americano «Time»
pubblicò in copertina una foto di Berlinguer e il significativo titolo:
Italia: la minaccia rossa.
Berlinguer si diede subito da fare per tranquillizzare gli italiani, e il giorno
dopo rilasciò a Giampaolo Pansa, sul «Corriere della Sera»,
un'intervista in cui si impegnava, in caso di vittoria elettorale, a mantenere
l'Italia all'interno della Nato. «Mi sento più sicuro stando di
qua» disse. Un'affermazione storica per il segretario di un partito comunista.
La tradizionale avversione degli italiani al comunismo rimaneva tuttavia molto
forte, e se è vero che da un lato una certa parte della borghesia credette
che il Pci fosse ormai un partito socialdemocratico, dall'altra si fece muro
contro il «pericolo rosso». La Dc fu ritenuta da tutti la barriera
più efficace, anzi la sola barriera possibile: e anche grazie alla campagna
promossa dal laico Indro Montanelli («Queste non sono elezioni, sono un
referendum: turiamoci il naso e votiamo Dc» scrisse sul «Giornale»),
alla mobilitazione dei cattolici di Comunione e liberazione e al travaso di
voti dall'estrema destra (il Msi perse un 3 per cento che affluì, evidentemente,
alle liste democristiane), la Dc riuscì a contenere l'avanzata del Pci
e a restare saldamente il partito di maggioranza relativa.
Nonostante la sfida elettorale, subito dopo si aprì la stagione della
collaborazione fra democristiani e comunisti, che culminò nei vari governi
della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale»:
esecutivi a guida Dc a cui il Pci diede un appoggio esterno.
ARRIVA L'AUTONOMIA
Dopo
la fine dei gruppi organizzati la sinistra, come abbiamo visto, si era divisa
in due: da una parte il Pci, ormai ben inserito nel potere grazie alla conquista
di gran parte delle amministrazioni locali e alla collaborazione di governo
con la Dc; dall'altra il partito armato.
Ma la distanza fra Pci e Br era troppo grande, e in mezzo restava comunque un
vuoto. Un vuoto in cui si infilò la cosiddetta autonomia, un'area molto
complessa e in realtà spesso contigua alle formazioni terroristiche vere
e proprie. Rispetto alle Br, l'autonomia non faceva un'esplicita scelta di lotta
armata, non era costretta alla clandestinità e poteva agire alla luce
del sole. Era però, come si diceva allora, «l'acqua dove nuotano
i pesci»: l'ambiente, insomma, dove il partito armato poteva reclutare
i suoi militanti e ottenere importanti appoggi e coperture.
Secondo alcuni osservatori, l'incubatrice dell'autonomia fu l'occupazione della
Fiat Mirafiori del 1973: sia perché sfuggì totalmente alla guida
del sindacato e del Pci, sia perché a gestirla furono, più che
i tradizionali operai Fiat emigrati dal Sud, giovani della «cintura»
torinese protagonisti, cinque anni prima, del Sessantotto nelle scuole. «Le
urla senza senso, senza più slogan, senza più minacce né
promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato intorno alla fronte,
i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano che una nuova stagione
si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia. Una fase senza ideologie
progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna affezione per il
sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti della rivoluzione proletaria,
mostrava le sue prospettive. Fu in questo mutamento di scenario che prese forma
il nuovo fenomeno politico-culturale dell'autonomia operaia» hanno scritto
Nanni Balestrini e Primo Moroni.
Un altro sintomo premonitore dello stile dell'autonomia furono forme di protesta
tipo l'«autoriduzione» e gli «espropri proletari».
L'autoriduzione nacque nell'agosto del 1974 su iniziativa di alcuni operai della
Fiat Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono
alla società dei trasporti pubblici l'equivalente dei vecchi abbonamenti,
e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman
si passò all'autoriduzione delle bollette della luce e del telefono.
Questa pratica si estese poi alle altre città, diventando spesso un puro
pretesto per non pagare il biglietto: non solo sugli autobus, ma anche, ad esempio,
al cinema, dove gruppi di estremisti assistevano alle prime visioni pagando
500 lire, e i gestori delle sale lasciavano correre temendo ritorsioni dai danni
ben più gravi. Così come gli «espropri proletari»
ai danni dei negozianti (qualcuno arrivò a chiamarli «riappropriazioni»)
furono in realtà autentici furti, o addirittura rapine quando compiuti
con minacce e violenze.
Fare
una mappa dell'area autonoma è ben più difficile che non fare
quella dei gruppi nati dopo il 1968. Anzi, è un'impresa impossibile,
essendo gli autonomi per loro stessa definizione sganciati da qualsiasi organizzazione.
Si possono tuttavia, schematizzando, ricordare tre filoni.
Il primo è quello cosiddetto «creativo», «spontaneo»,
alieno da ogni forma di gerarchia. Di questo filone, gli elementi più
rappresentativi furono gli «indiani metropolitani», giovani che
si dipingevano il viso, appunto, come i pellerossa, e che rifiutavano, fra le
tante etichette, anche quella di essere «di sinistra».
Il secondo filone è quello delle teste d'uovo: intellettuali che teorizzarono
il nuovo messaggio, e che erano concentrati soprattutto all'Università
di Padova e in una serie di librerie nelle maggiori città.
Il terzo filone è quello che fa capo all'Autonomia operaia organizzata
(con la A maiuscola; quando scriviamo autonomia con l'iniziale minuscola intendiamo
invece tutta l'area che stava in mezzo fra Pci e Br; l'area, insomma, che comprende
tutti e tre i filoni di cui stiamo parlando). L'Autonomia operaia organizzata
conservò una linea leninista e militarista, esplicitamente favorevole
alla cultura della violenza e all'organizzazione della «battaglia contro
lo Stato». Questo terzo filone, strettamente legato al secondo, aveva
come leader ex esponenti di Potere operaio, quali il docente universitario Toni
Negri e Oreste Scalzone.
A sua volta, l'Autonomia operaia organizzata aveva varie sfumature al suo interno,
che si esprimevano in un'incontrollabile quantità di correnti, fra le
quali ricordiamo i Comitati autonomi romani; i Comitati comunisti rivoluzionari;
le Assemblee autonome operaie; i Cps, Collettivi politici studenteschi; i Collettivi
autonomi, presenti nelle grandi città (famoso quello di via dei Volsci
a Roma).
L'area dell'autonomia produsse anche una miriade di giornali: alcuni di fabbrica
come «Senza Padroni» all'Alfa Romeo, «Lavoro Zero» a
Porto Marghera, «Mirafiori Rossa» a Torino; e altri di maggiore
diffusione come «Aut Aut», «Primo Maggio», «Rosso»
e «Senza Tregua» a Milano, «Potere Operaio per il Comunismo»
(poi trasformato in «Autonomia») in Veneto, «Rivolta di Classe»
(poi diventato «I Volsci»), «Metropoli» e «Pre-print»
a Roma. Quello che ebbe maggiore fortuna fu «A/traverso», fatto
a Bologna dal gruppo di Francesco Berardi detto «Bifo», che nel
'77 arriverà alle 20.000 copie.
Questa nascente area dell'autonomia si poneva in forte contrasto con il Pci,
cui rimproverava di essere ormai «sistema».
La sinistra si spaccò fra «garantiti» e «non garantiti»,
cioè fra coloro che nelle fabbriche potevano contare sull'«ombrello»
del Pci e i giovani che, viceversa, non trovavano lavoro o perdevano quello
che avevano appena trovato. Arrivato ormai nel «palazzo», il Pci
non volle, o non poté, cavalcare la protesta dei «non garantiti»,
e anzi passò al pugno di ferro contro questi nuovi contestatori: ad esempio,
schierandosi a favore del rinnovo di quella legge Reale sull'ordine pubblico
contro la quale aveva invece nel 1975 votato «no».
Lo scontro fra autonomi e Pci esploderà drammaticamente nel 1977, e risulterà,
alla fine, ancora più grave e più violento di quello fra lo stesso
Partito comunista e i sessantottini.
XIV - IL SETTANTASETTE
Mentre
sono ormai consuete, alle ricorrenze canoniche, le rievocazioni del Sessantotto,
quasi mai si ricorda il movimento del 1977.
Eppure, quello fu l'anno più burrascoso del decennio. Le occupazioni
delle scuole e delle università tornarono a un ritmo molto vicino a quello
del 1968; e, rispetto al 1968, le manifestazioni di piazza furono molto più
violente: basti pensare che, alla fine dell'anno, ci furono quarantamila denunciati,
quindicimila arrestati, quattromila condannati e decine di morti e feriti.
Autonomi e indiani metropolitani si sentivano tagliati fuori da tutto e da tutti.
Non solo dal Pci, che aveva coniato lo slogan «la classe operaia si fa
Stato» e che poteva offrire ai suoi iscritti la tutela del posto di lavoro;
ma anche dai sessantottini, visti come patetici reduci che s'appuntavano sul
petto medaglie di una rivoluzione mai fatta, e che ormai beneficiavano a loro
volta del nuovo sistema. All'Università Statale di Milano il Movimento
lavoratori per il socialismo, nato dalle ceneri del Movimento studentesco, aveva
acquisito posizioni importanti in termini di potere ma anche di posti di lavoro,
essendosi assicurata la gestione della libreria e della cooperativa universitaria.
E' solo un esempio, per far capire come i «settantasettini» si sentissero
dimenticati e traditi non solo dallo Stato, ma anche da quella sinistra -Pci
e gruppi del '68- che aveva promesso il cambiamento e che si era invece limitata,
ai loro occhi, a guadagnare posizioni all'interno dell'odiato «regime».
Per questo la loro rabbia esplose violentissima.
LA CACCIATA DI LAMA
La
recrudescenza degli scontri di piazza del '77 aveva avuto un prologo il 7 dicembre
del '76 a Milano, quando i Circoli proletari giovanili e i Circoli giovanili
(il lettore non pensi a un errore: erano proprio due formazioni diverse) avevano
boicottato la tradizionale «prima» della Scala.
Come otto anni prima, si voleva contestare lo spreco di denaro dell'alta borghesia
milanese, che in piena crisi occupazionale si permetteva centomila lire -di
allora- per un biglietto dello spettacolo di inizio stagione (questa volta era
di scena l'Otello), e chissà quant'altro denaro per le spese di sartoria.
Questa volta, però, i contestatori di Sant'Ambrogio non si limitarono
al tutto sommato innocuo lancio di uova di Capanna e compagni; questa volta
fu una guerriglia, che impegnò cinquemila fra poliziotti e carabinieri,
e che si concluse con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti e decine di tram
e di automobili incendiate.
Nel
'77 la tensione si spostò però soprattutto a Roma e a Bologna.
A Roma, il l° febbraio era stata occupata l'Università. Il pretesto
era una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti,
democristiano, che vietava agli studenti universitari di sostenere più
esami nella stessa materia. Che di un pretesto si trattasse, lo dimostra il
fatto che l'occupazione continuò anche dopo il ritiro della circolare
da parte dello stesso Malfatti.
Gli occupanti non erano però uniti. Pci, Democrazia proletaria e Avanguardia
operaia contestavano la linea dell'Autonomia, protagonista di scontri in città
con estremisti di destra e polizia. Ma era proprio l'Autonomia ad avere in pugno
la gestione dell'occupazione. Il 9 febbraio, il movimento del '77 fece il suo
esordio con un corteo, per le strade di Roma, di trentamila studenti. «Il
Manifesto» criticò («Gli autonomi sono la faccia più
negativa, e vecchia, della nuova sinistra»), la Cgil e il Pci organizzarono
un comizio di Luciano Lama, per il giorno 17, all'interno dell'Università,
nel tentativo di riprendere in mano la situazione.
Ma Lama, il 17, non riuscì praticamente a parlare. Gli autonomi glielo
impedirono, ingaggiando una furiosa battaglia con il servizio d'ordine del Pci,
al grido «Via, via, la nuova polizia». Alla fine di scontri violentissimi,
con decine e decine di feriti, i comunisti dovettero abbandonare l'Università.
La manovra del Pci era fallita, gli autonomi si erano rivelati «ingestibili»:
per i vertici di Botteghe Oscure, erano «i nuovi squadristi».
La cacciata di Lama dall'Università aveva così dato vigore al
movimento degli autonomi, che alla fine di febbraio si era già diffuso
in molte città italiane, in particolare a Padova, dove l'Università
era stata occupata.
Il 5 marzo il movimento diede una prova di forza scatenando per le strade di
Roma quattro ore di guerriglia, per protesta contro la condanna di Fabrizio
Panzieri per l'omicidio dello studente missino Mikis Mantakas. I raid degli
estremisti furono coordinati da un'emittente privata, Radio Città Futura,
che inaugurò così una strategia destinata a più d'una replica
nel corso dell'anno. Grazie alla radio, gli autonomi sapevano dov'era la polizia,
dove potevano raggiungere i compagni, dove conveniva organizzare barricate e
mettere fuori uso i semafori.
GUERRIGLIA A BOLOGNA
E
guerriglia ancora più grave fu quella scoppiata l'11 marzo a Bologna.
All'istituto di anatomia dell'Università era in programma un'assemblea
dei cattolici di Comunione e liberazione. Fatto assolutamente intollerabile,
per un movimento che si riempiva la bocca con la parola «democrazia»
ma che non ammetteva altre manifestazioni di pensiero al di fuori della propria.
E infatti i ciellini furono assediati e costretti a barricarsi all'interno dell'istituto.
Ancora oggi circola la versione secondo cui gli incidenti sarebbero scoppiati
perché i ciellini avrebbero malmenato alcuni studenti del movimento che
si erano semplicemente presentati all'ingresso dell'aula dov'era in corso l'assemblea.
Ma per male che si possa o si voglia dire dei ciellini, non s'è mai sentito
di pestaggi da loro compiuti. Valga il volantino diffuso lo stesso pomeriggio
dal Pci e dalla Fgci, che parlava di «un'inammissibile decisione di un
gruppo della cosiddetta Autonomia di impedire l'assemblea di CL».
E comunque la realtà fu quella: i ciellini barricati in un'aula, e fuori
gli studenti del movimento, armati e ben più numerosi, a sferrare l'attacco.
Inevitabile l'intervento dei carabinieri, contro i quali gli autonomi lanciarono
parecchie molotov, a dimostrazione del fatto che all'Università non erano
giunti impreparati. La battaglia si allargò, e alla fine negli scontri
rimase ucciso il giovane di Lotta continua Francesco Lorusso.
Cominciò così il «sacco» del centro di Bologna. Gli
autonomi, che oltre alle molotov avevano già le famigerate pistole «P38»,
ingaggiarono sparatorie ovunque; distrussero decine di negozi, innalzarono barricate,
appiccarono incendi. Fu occupata la stazione ferroviaria; furono assaltati due
commissariati di polizia, la redazione del «Resto del Carlino» e
la sede provinciale della Dc; fu devastata la libreria di CL «Terra Promessa».
I guerriglieri si sfamarono, ed evidentemente non male, al «Cantunzein»,
uno dei più noti ristoranti della città, le cui riserve furono
ripulite con un «esproprio» proletario. Anche qui gli incidenti
furono coordinati via etere: e la magistratura ordinò l'arresto di Francesco
Berardi detto «Bifo», il ventottenne insegnante di lettere animatore
di Radio Alice. Era stato lui, attraverso i microfoni, a guidare assalti e distruzioni,
sosteneva la procura della Repubblica. Radio Alice venne chiusa, ma Bifo riuscì
a sfuggire all'arresto e a rifugiarsi a Parigi.
Il saccheggio di Bologna durò tre giorni, e per ristabilire l'ordine
dovettero intervenire -cosa mai successa neppure nel '68- i mezzi blindati,
con tremila uomini a presidiare il centro. Alla fine di quei tre giorni di guerra
si contarono 131 arresti. Fu uno smacco storico per il Pci, che vantava la «sua»
Bologna come fiore all'occhiello, come dimostrazione di città comunista,
efficiente, ordinata e felice.
Il 12 marzo, giorno successivo alla morte di Lorusso, anche Roma divenne un
campo di battaglia: gli autonomi saccheggiarono due armerie e partirono all'assalto
della città. Attaccarono l'ambasciata cilena in Vaticano, la sede del
quotidiano democristiano «Il Popolo», la caserma dei carabinieri
di piazza del Popolo, la sede della Gulf, una concessionaria della Fiat, alcune
banche. Centinaia di vetrine di negozi vennero abbattute. Sparatorie e incendi
si protrassero fino a notte. E, nello stesso 12 marzo, incidenti gravi scoppiarono
anche a Napoli, Padova, Firenze, Palermo e Milano, dove a colpi di P38 furono
mandate in frantumi le vetrate dell'Assolombarda, la sede regionale degli industriali.
UN PROBLEMA PER LA SINISTRA
Il
clima era tale che il 16 marzo l'Università di Roma, quando riaprì,
restò presidiata dalla polizia. L'attività poteva comunque riprendere
regolarmente. Ma gli studenti del movimento vollero imporre le loro condizioni:
immediato allontanamento degli agenti, università aperta dalle 8 alle
22, libera scelta dell'argomento da portare all'esame e 27 trentesimi come voto
minimo garantito.
Di fronte allo scontato «no» che fu opposto a queste richieste,
gli autonomi rioccuparono l'Università. Il 21 aprile la polizia intervenne
e riuscì a sgomberarla, in mattinata, senza particolari incidenti. Nel
pomeriggio, però, gli autonomi passarono al contrattacco. Assaltarono
l'Università armati di molotov e di P38, uccisero un agente di polizia
-Settimio Passamonti, ventitré anni- e ne ferirono gravemente altri due.
Il giorno dopo, vista l'eccezionale gravità della situazione dell'ordine
pubblico, il governo proibì ogni manifestazione pubblica, a Roma, per
un mese.
Incuranti del divieto, i radicali organizzarono proprio a Roma, per il 12 maggio,
una manifestazione pubblica per il terzo anniversario della vittoria nel referendum
sul divorzio. La polizia intervenne e furono altri scontri, fino a tarda sera:
e a cadere, uccisa da un colpo di pistola sparato da un agente, questa volta
fu una dimostrante, Giorgiana Masi, vent'anni, simpatizzante radicale.
Due giorni dopo a Milano, durante un corteo di protesta per l'arresto di due
avvocati di Soccorso rosso, gli autonomi uccisero in via De Amicis il brigadiere
di polizia Antonino Custrà. Fu in quell'occasione che un dilettante scattò
la fotografia divenuta l'immagine-simbolo degli anni di piombo: un giovane autonomo,
con il volto coperto, sparava impugnando la pistola con entrambe le mani.
L'Autonomia era ormai un problema grave anche per i gruppi alla sinistra del
Pci. «Di Autonomia operaia e non solo delle sue violenze ultime occorre
liberarsi» scrisse Rossana Rossanda sul «Manifesto» del 17
maggio. E Luca Cafiero, segretario nazionale del Mls: «Noi toglieremo
le pistole agli autonomi e gliele faremo ingoiare».
AL BAR SI MUORE
Che
il 1977 sia stato un anno di guerra lo testimoniano, oltre al numero degli scontri
di piazza, anche le azioni delle Brigate rosse e delle altre formazioni clandestine,
che in quell'anno si erano fatte ancor più efficienti e spietate. Il
28 aprile, a Torino, le Br uccisero il presidente dell'Ordine degli avvocati
Fulvio Croce: un omicidio-avvertimento nel più classico stile mafioso,
perché Croce avrebbe dovuto designare i difensori d'ufficio al processo
contro Curcio e altri terroristi; si volle in questo modo intimidire avvocati
e giudici popolari, e infatti questi ultimi, il 31 maggio, rifiutarono l'incarico,
provocando il rinvio del processo.
Anche i giornalisti finirono nel mirino delle Br. Nel mese di giugno ne furono
feriti alle gambe dodici, fra cui Indro Montanelli, il direttore del Tg 1 Emilio
Rossi e il vicedirettore del «Secolo XIX» di Genova Vittorio Bruno.
E il 16 novembre, a Torino, ancora le Br uccisero il vicedirettore della «Stampa»
Carlo Casalegno, definito un «servo dello Stato».
Quanto alle fabbriche, i dirigenti e i capireparto «gambizzati»
in quell'anno furono decine.
Ma per dare un'idea di quanto questa guerra fosse una minaccia costante per
tutti, si pensi che il pericolo poteva raggiungere chiunque e ovunque. Come
dimostrano la morte di Roberto Crescenzio e i sette feriti del bar di largo
Porto di Classe.
L'assalto al bar di largo Porto di Classe a Milano, zona Città Studi,
fu opera di commando di Avanguardia operaia e dei Caf, i comitati antifascisti.
Scattò il 31 marzo 1976, alle sei di sera.
Il bar era ritenuto un covo di «neri». Quella sera, però,
di fascisti all'interno del locale non ce n'era neanche uno.
Gli estremisti -in buona parte erano gli stessi che un anno prima avevano ucciso
Ramelli- incendiarono il bar lanciando bottiglie molotov, e sprangarono gli
avventori in fuga. In sette rimasero feriti in modo grave, e tre di loro portano
ancora oggi i segni del pestaggio. Un atto tanto vile da provocare, nei giorni
seguenti, una discussione interna che fu uno dei primi sintomi della crisi di
Avanguardia operaia.
Massimo Bogni, uno dei responsabili dell'assalto, in seguito convertitosi al
cattolicesimo e sinceramente pentito (si presentò spontaneamente al giudice
istruttore), ha raccontato al processo, celebrato nell'87: «Emulavamo
gli eroi, Garibaldi e Guevara, e poi eravamo vigliacchi».
Anche
Roberto Crescenzio non era un fascista. Aveva ventidue anni, ed era un perito
chimico disoccupato. Ebbe la tragica sfortuna di trovarsi, il l° ottobre
1977, al bar l'«Angelo azzurro» di Torino.
Quel giorno Torino, come Roma e altre città italiane, fu sconvolta da
nuovi, furibondi scontri fra la polizia e i giovani di estrema sinistra, inferociti
per l'uccisione avvenuta il giorno prima a Roma, ad opera di neofascisti, del
militante di Lotta continua Walter Rossi.
A un certo punto il corteo passò vicino all'«Angelo azzurro»
e qualcuno riferì di aver visto, al liceo Gioberti, una scritta secondo
cui quel bar era un punto di ritrovo dei fascisti. Tanto bastò per scatenare
l'attacco.
Il locale fu incendiato e gli avventori costretti a fuggire all'esterno. Un
bimbo di tre anni e la sua baby-sitter sedicenne rimasero semiasfissiati e furono
portati in ospedale.
Roberto Crescenzio restò intrappolato nella toilette. Quando, con le
ultime energie, riuscì a spalancare l'uscio, ad attraversare la sala
del bar, a sfondare una vetrata e a gettarsi sull'asfalto, all'aperto, il suo
corpo era ormai devastato dal fuoco. Ed era troppo tardi.
Anche in questo caso la morte di un innocente (ammesso che altri possano essere
considerati colpevoli) provocò una crisi all'interno del movimento. Proprio
pochi giorni dopo il rogo dell'«Angelo azzurro» in corso Valdocco
qualcuno tracciò su un muro una grande scritta: «E' un momentaccio».
Un piccolo, ma non insignificante indizio di un travaglio che i più sensibili
cominciavano ad avvertire, e che avrebbe portato, di lì a poco, a un
ripensamento da parte di tutti. In fondo non solo la gente comune, ma anche
la maggioranza dei giovani che andavano in corteo cominciava a essere stanca
di tanto sangue e di tanti lutti.
GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE
Ma,
contrariamente alla gente comune, gli intellettuali -o almeno certi intellettuali-
rimanevano convinti che tutta quella violenza fosse frutto della repressione
organizzata da un sistema che andava sempre più assumendo la sostanza
di una nuova dittatura.
Così pensavano, ad esempio, Nanni Balestrini ed Elvio Facchinelli, i
quali chiesero, polemicamente, che un padiglione della Biennale di Venezia venisse
riservato al dissenso in Italia. E altri uomini di cultura, fra cui Leonardo
Sciascia, si mantennero in una posizione che il comunista Giorgio Amendola,
con un duro articolo sull'«Unità», definì ambigua.
Ma fu da Parigi, dove l'intellighenzia italiana cerca solitamente la propria
consacrazione, che venne l'attacco più duro contro il nuovo «regime»
Dc-Pci.
L'8 luglio, proprio a Parigi, era stato arrestato Bifo, l'animatore di Radio
Alice e delle riviste «A/traverso» e «Zut», accusato,
come abbiamo visto, di avere incitato e promosso, via radio, gli incidenti dell'11
marzo a Bologna («Ammazzate, ammazzate, abbiamo bisogno di cadaveri»,
una delle frasi che gli furono contestate).
A Parigi, dov'era scappato per sottrarsi al mandato di cattura firmato dal tribunale
di Bologna, Bifo aveva trovato alloggio nientemeno che a casa del professor
Felix Guattari, lo psicanalista direttore della rivista «Recherches»
e autore, con il filosofo Gilles Deleuze, dell'Anti-Edipo.
L'8 luglio, come detto, fu arrestato. Poco importava che solo tre giorni dopo
le autorità francesi l'avessero rimesso in libertà, negando l'estradizione
alla giustizia italiana e imponendo all'imputato l'unico vincolo della firma
da apporre, ogni quindici giorni, su un registro al palazzo della prefettura
di polizia di Parigi. Il mandato di cattura contro Bifo convinse un gruppo di
intellettuali francesi a inviare a Belgrado, dov'era in corso una conferenza
Est-Ovest, un «appello contro la repressione in Italia».
«Noi vogliamo attirare l'attenzione» era scritto nell'appello «sui
gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e, più particolarmente,
sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti
intellettuali in lotta contro il compromesso storico.
«In queste condizioni» proseguiva l'appello «che vuol dire
oggi, in Italia, "compromesso storico"? Il "socialismo dal volto
umano" ha, negli ultimi mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo
di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato
giovanile che rifiutano di pagare il prezzo della crisi; dall'altro, progetto
di spartizione dello Stato con la Dc (banche ed esercito alla Dc; polizia, controllo
sociale e territoriale al Pci) per mezzo di un reale partito "unico";
è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi
mesi i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. (...)
«I sottoscritti» terminava poi l'appello «esigono la liberazione
immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della
campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale
proclamando la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto
inchiesta.»
Seguivano le firme di Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Felix Guattari, Gilles
Deleuze, Roland Barthes, Philippe Sollers, François Chatelet, Claude
Mauriac, Pierre Clementi, Maria Antonietta Macciocchi e in seguito anche Dario
Fo e altre personalità della cultura e dello spettacolo.
L'appello fu commentato molto duramente in Italia. Il «Corriere della
Sera» osservò: «Immaginare [alla Biennale di Venezia, n.d.a.]
un padiglione del dissenso italiano, magari a due passi da quello sovietico,
è assurdo. Mandar petizioni alla conferenza di Belgrado, dove il problema
maggiore è quello di ridurre il numero degli internati negli asili psichiatrici
e di impedire che l'Urss metta a tacere una volta per sempre la voce di Sacharov,
rivela una miopia libresca che non giova a chi se ne fa promotore».
Ma anche i giornali comunisti, «l'Unità» e «Paese Sera»,
furono durissimi; e pure «il Manifesto» ebbe parole severe. Il fatto
è che il Pci, entrando nella gestione dello Stato, aveva dovuto per forza
di cose abbassare la voce della protesta, moderarne i toni, distinguere fra
ciò che era possibile conquistare subito e ciò che andava rinviato
e atteso con pazienza. E alla sua sinistra s'era creato lo spazio per rivendicazioni
libertarie e utopistiche.
IL CONVEGNO DI BOLOGNA
Proprio
Guattari e gli altri intellettuali, comunque, erano riusciti a dare il la a
quello che si rivelò poi l'ultimo grande avvenimento della stagione della
contestazione: il convegno di Bologna sulla repressione.
Il 23, 24 e 25 settembre nel capoluogo emiliano calarono chi dice cento, chi
dice cinquanta, chi dice venticinquemila giovani provenienti da tutta Italia
e in piccola parte anche dall'estero. C'erano ovviamente gli autonomi e gli
indiani metropolitani; ma anche ciò che restava dei gruppi organizzati.
E non mancavano -lo accerteranno poi diverse inchieste giudiziarie- «osservatori»
delle Br e di altre formazioni, venuti a caccia di nuove reclute.
Il Pci accettò la sfida: «Bologna è la città più
libera del mondo» disse il sindaco comunista Renato Zangheri. Ma è
ovvio che la paura di una replica della guerriglia di marzo era enorme. Proprio
in quei giorni, fra l'altro, Berlinguer gettò benzina sul fuoco definendo
gli autonomi «poveri untorelli».
Bologna fu invasa anche da polizia e carabinieri. Ma non ci fu, contrariamente
ai timori, alcun incidente. I tre giorni trascorsero fra bivacchi e spettacoli
nelle piazze e le assemblee al Palazzetto dello Sport. Ecco, le uniche violenze
furono proprio lì dentro, al Palazzetto dello Sport, dove si trovarono
a convivere decine di posizioni diverse, a volte radicalmente diverse: dall'ideologia
ancora impregnata di marxismo-leninismo dei vecchi gruppi alla tematica del
«rifiuto del lavoro» degli autonomi e degli indiani metropolitani.
Divergenze che si manifestarono spesso con botte da orbi, a colpi di sedia in
testa, per strapparsi il microfono. Alla fine, l'Autonomia operaia organizzata
riuscì a prendere in mano il controllo dell'assemblea, dalla quale furono
espulsi, nell'ordine, prima il Mls, poi Avanguardia operaia e infine Lotta continua.
Tutti quanti, poi, si ritrovarono insieme nel grande corteo (trentacinquemila
persone, secondo la stima della questura) che il giorno 25 concluse il convegno.
C'erano tutti, e quelli dei gruppi tentarono, in realtà senza riuscirci
troppo, di tenere gli autonomi al centro del corteo, per controllarli meglio.
Comunque, non ci furono incidenti. E gli stessi slogan urlati in quell'occasione
mostrarono l'eterogeneità del corteo. C'erano quelli che agitavano le
mani con le dita a pistola e gridavano «Con la P38 / ti spunta un foro
in bocca», «Lotta armata / per la rivoluzione», «Per
il comunismo / per la rivoluzione», «Carabiniere, basco nero / il
tuo posto è al cimitero». Quelli che cercavano la satira: «Carabiniere
levati il cappello / e fumati con noi uno spinello». Le femministe che
pensavano soprattutto alle proprie rivendicazioni: «Nelle case e nelle
galere / siamo sempre prigioniere». Gli omosessuali che avevano trovato
la formula per vincere la rivoluzione: «Coito anale / abbatte il capitale».
Nonostante la straordinaria massa numerica, il convegno di Bologna non rappresentò
una vittoria del movimento, ma una sconfitta. L'ultima sconfitta, quella decisiva.
Il movimento aveva radunato centinaia di voci di rifiuto, di dissenso, di rivolta,
ma non era riuscito a coagularle. Era emersa, in modo ancor più netto
che in passato, l'impossibilità di un'azione unitaria. I nouveaux philosophes
francesi che erano venuti a cavalcare la rivolta fecero la misera figura degli
opportunisti, e non trovarono alcun seguito fra quei giovani che avevano cercato
di blandire. Anche l'intervento che Bifo aveva inviato dalla sua latitanza di
Parigi, e che fu letto durante l'assemblea al Palasport, venne sonoramente fischiato.
Privo di una guida, privo di unità ma ancor più privo di fondamenta
veramente solide, il movimento si sciolse. E il Sessantotto finì veramente
lì, quel 25 settembre 1977.
EPILOGO
S'è
detto che, contrariamente ai moti del 1968, quelli del 1977 raramente hanno
diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e negli stessi libri di storia.
Forse, la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il primo
fu un fenomeno mondiale, e il secondo quasi esclusivamente italiano, e come
tale meno importante.
Ma forse c'è anche, da parte di molti, una sorta di tentativo di rimozione.
Il movimento del 1977 non ha goduto -a parte le snobistiche prese di posizione
di certi intellettuali- della benevolenza e degli ammiccamenti che erano stati
elargiti, nove anni prima, ai sessantottini; i suoi protagonisti erano dei «veri»
proletari, e non figli della borghesia come furono, nella stragrande maggioranza,
gli universitari del '68; per certi versi la protesta del '77 era, come vedremo,
più giustificata; e a cavalcarla non c'era più, non poteva più
esserci quel Pci ormai entrato nel Palazzo, e ben più risoluto nel chiedere
le maniere forti contro i «sediziosi» di quanto non fossero stati,
in precedenza, i vari presidenti del Consiglio e ministri democristiani.
Gli autonomi e gli indiani metropolitani del 1977 vengono rimossi anche perché
la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del peggiore
brigatismo, è un fantasma ingombrante per una sinistra che prima ha predicato
la lotta di classe e la rivoluzione (chi stando nel partito, chi stando nei
salotti) e poi ha detto che la rivoluzione non andava fatta più (chi
perché ormai arrivato dentro il sistema, chi perché ancora ben
inserito nei salotti). Per buona parte della sinistra, gli autonomi e gli indiani
metropolitani sono quindi figli, o nipoti, con cui non si vuole avere nulla
a che fare, e che è meglio disconoscere.
E non è un caso che si tenti sempre di scindere i due fenomeni, e dire
che il Sessantotto è una cosa, il Settantasette un'altra. Pur nelle loro
differenze, le due proteste sono invece strettamente legate fra loro, anzi sono
l'inizio e la fine del medesimo avvenimento. Come ha scritto Toni Negri: "In
Italia il '77 è la seconda fase del '68. (...). Il '77 è l'ultima
data dentro la quale questo processo [quello iniziato nel '68, n.d.a.] viene
complendosi, un processo perciò di rottura ma soprattutto di continuità,
work in progress".
Del Sessantotto, i «settantasettini» hanno pagato gli errori più
evidenti: se Capanna e soci avevano trovato una scuola vecchia e imbalsamata,
loro ne hanno trovata una inesistente, trasformata grazie alla logica tutta
sessantottina del «sei politico» e degli esami di gruppo in una
fabbrica di disoccupati. Posti di fronte a una crisi economica più grave
di quella di nove anni prima, i giovani proletari del 1977 faticavano a trovare
lavoro, e si accorgevano che nemmeno impegnandosi a fondo in un'università
ormai a pezzi potevano sperare di emanciparsi.
Ma c'è un altro motivo -più profondo, anche se forse meno evidente-
per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli, sono stati i veri «fregati»
dal Sessantotto.
Del Sessantotto hanno infatti ereditato la sconfitta più grave, e cioè
il nulla con cui si cercò di colmare un vuoto esistanziale. A una generazione
che non si accontentava degli idoli offerti dal mondo borghese -una «posizione»,
una bella macchina, un'amante- il Sessantotto ha offerto altri idoli, non meno
fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso,
ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica
delle «feste» quale arma contro l'alienazione. In realtà
il giovane del '77 -nonostante la regia delle solite teste d'uovo marxiste-leniniste-
nei cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro
il compromesso storico, ma, più tragicamente, contro la sua noia e la
sua disperazione. Si leggano le molte lettere giunte in quell'anno a quella
specie di confessionale pubblico che era diventato il quotidiano «Lotta
continua». In una di queste lettere, pubblicata il 29 ottobre 1977 e firmata
«Antonella, una quattordicenne stanca di vivere», è scritto:
«Sono arrivata al punto di non poter più uscire da questa tremenda
sensazione quale è la solitudine. Questo mi ha fatto pensare al suicidio,
ma forse ho paura di aver paura di morire. Personalmente lotterò finché
questa mia lunga vita non si fermerà. Saluti rivoluzionari».
Ha scritto allora Mino Monicelli (L'ultrasinistra in Italia): «La nuova
etica purtroppo non è nata; e poiché quella vecchia, dello studio,
del lavoro, della famiglia, della militanza è sempre più rifiutata,
passa solo l'etica della morte. Siccome ‘la vita non ha alcun valore e
non me ne frega niente' si è disposti anche a rischiarla. Questa è
l'elaborazione teorica che oggi esprimono settori importanti del movimento:
una specie di etica del negativo che coinvolge, in modo più o meno serio,
molti giovani, dalla base della Fgci all'Autonomia».
Non è un caso se i giovani eroinomani siano passati, in Italia, dai diecimila
del 1976 ai settantamila del 1978. Non è un caso se fu proprio in quel
1977 che nacquero, prima in Inghilterra e poi un pò ovunque, quei movimenti
dei «punk», dei «dark», degli «skin» che
(fra l'altro con una singolare liturgia funerea, evidentissima già nell'abbigliamento
e nei simboli) incarnano il disagio sprofondando nel più totale nichilismo.
Passato il convegno sulla repressione di Bologna, il movimento del '77 si dissolverà.
Dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo di uomini che
continueranno a credere nella rivoluzione.
Ma nelle strade e nelle piazze, più niente.
E i ventenni del 1968 saranno i quarantenni che gestiranno, negli anni Ottanta,
la più spietatamente egoistica ed edonistica delle società, quella
del «reaganismo» e dello «yuppismo» rampante. Una contraddizione?
Del resto, l'eredità del Sessantotto pare tutta contraddire le attese
di chi fu protagonista di quella protesta.
Il Sessantotto -parliamo del nocciolo, dell'essenza dell'ideologia del Sessantotto-
voleva spazzare via il capitalismo ed edificare un uomo nuovo e una società
giusta ed egualitaria. Voleva, con la rivoluzione sessuale, mettere finalmente
sullo stesso piano i rapporti fra uomo e donna. Voleva, rivendicando il diritto
di ciascuno di fare ciò che vuole purché non danneggi gli altri,
portare finalmente alla felicità una gioventù che si sentiva sgomenta
di fronte alla prospettiva di una vita borghese.
Ma per ottenere tutto questo ha sbaraccato quei residui valori tradizionali
che, forse, erano proprio l'ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore
del capitalismo.
La messa in liquidazione di una certa religiosità, di un prevalere del
trascendente sul materiale e, non ultimo, di un certo senso della parsimonia
e della rinuncia, hanno consentito l'esplosione del consumismo più sfrenato.
Il crollo di quelli che venivano chiamati «tabù sessuali»
ha portato a un'espansione senza precedenti del mercato della pornografia e
a un'impennata dei reati di stupro, cioè a quanto di meno rispettoso
della dignità della donna. La caduta di quel saggio senso di autodifesa
che veniva considerato una barriera contro il proprio piacere, ha indotto una
generazione disperatamente alla ricerca della felicità a cadere nella
schiavitù della droga.
Sembra insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo contrario.
Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi dell'uomo
di stabilire lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di costruire in terra
il suo paradiso. Tentativi di cui la storia è piena, e che sono sempre,
misteriosamente ma implacabilmente, falliti.