L'olocausto degli Armeni

L’antica comunità, che aveva abbracciato la fede cristiana fin dal III secolo, fu sterminata in massa

Nell’Impero Ottomano, soprattutto nelle zone orientali dell’Anatolia (ma anche nella stessa capitale) vivevano 2 milioni di Armeni, un popolo di stirpe indoeuropea che aveva abbracciato la fede cristiana fin dal III secolo. Un altro milione di loro abitava oltreconfine, nell’Armenia Russa, sottoposto alla sovranità dello Zar. Quando nell’inverno 1914-1915 l’andamento delle operazioni si mise male per l’Esercito Turco sul Caucaso, da più parti si imputò la responsabilità delle sconfitte a un presunto “tradimento” degli Armeni ottomani, che sarebbero stati più propensi ad appoggiare l’avanzata del nemico, cioè il cristiano Impero Russo.
Così maturò assurdamente il primo genocidio del XX secolo, avente per vittima un popolo che fece da capro espiatorio. In verità la comunità armena aveva dimostrato lealtà al Sultano, rispondendo alla chiamata alle armi del 1914. Pochissimi erano passati dalla parte dei Russi, nonostante l’Impero Turco trattasse questa minoranza col pugno di ferro. Già vent’anni prima della Grande Guerra i Turchi avevano distrutto cento villaggi armeni solo perchè questi cristiani davano segni di insofferenza all’oppressione. Nel 1894 gli Armeni del distretto di Sassun si erano rifiutati di pagare una tangente alle bande di Curdi musulmani (a quei tempi in rapporti fin troppo buoni coi Turchi!).
Il Sultano Abdul Hamid II aveva reagito con una spietata repressione, operata da soldataglia turca e curda. Massacri come quello di Erzurum del 30 ottobre 1895 erano costati la vita a circa 200.000 Armeni. Ulteriori violenze si erano avute nel 1909 in Cilicia ed erano costate a quella gente 30.000 vite. L’avvento del nuovo Sultano Maometto V e l’ascesa del movimento nazionalistico dei “Giovani Turchi” non lasciavano presagire nulla di buono, perchè alla vigilia della Prima Guerra Mondiale furoreggiava ad Istanbul l’ideologia del “panturchismo”, o “panturanismo”, che sosteneva la creazione di un Impero Turco etnicamente “puro”, inglobante tutti i popoli di stirpe turcomanna e di fede islamica, compresi quelli stanziati nelle steppe fra il Mar Caspio e la Cina.
Stava per scatenarsi un nuovo inferno, la cui prima avvisaglia fu nel gennaio 1915 il disarmo dei soldati armeni inquadrati nell’Esercito. Non ci si fidava più di loro e li si considerava ormai non solo potenziali “traditori”, ma anche ostacoli al pazzoide sogno panturanico, poichè il loro territorio separava i Turchi dai “fratelli turcomanni” dell’Azerbaijan e dell’Asia Centrale. Fu creata una commissione incaricata di guidare lo sterminio e formata dai seguenti aguzzini: i politici Nazim e Behattin Shakir, il Ministro della Pubblica Istruzione Shoukrie e il Ministro degli Interni Talaat Pascià. Cominciò tutto fra il 15 e il 24 aprile 1915, quando la polizia turca effettuò una gigantesca retata degli Armeni residenti a Istanbul, compresi il poeta Daniel Varujan e il deputato Krikor Zorhab. Intanto, nei villaggi armeni delle regioni di Kharput, Sassun e Van, bande di Curdi, “longa manus” del potere turco, decapitavano o impiccavano donne e bambini. In maggio, migliaia di Armeni furono salvati dall’avanzata dei Russi su Van.
In seguito, con la definitiva ritirata russa del 1917, almeno 300.000 Armeni avrebbero seguito i Russi, stabilendosi nella futura Repubblica Sovietica dell’Armenia. Ma la maggior parte non fu così fortunata. Nella sola giornata del 17 giugno 1915 le milizie curde uccisero 5000 Armeni a Siirt, presso Bitlis. Agghiacciante la testimonianza del console italiano Gorrini, secondo cui alla data del 23 luglio restavano vivi solo 100 dei 14.000 Armeni residenti a Trebisonda. Sempre in luglio, ad Ankara i soldati turchi uccisero i 20.000 membri della locale comunità armena. Ai massacri seguiva la deportazione dei sopravvissuti, a marce forzate e con poco cibo e acqua, verso Sud. I più deboli morivano di stenti lungo il cammino, mentre le donne più belle venivano avviate ai bordelli. Destinazione, il campo di concentramento di Deir al-Zor, in Siria, dove si moriva di sete e di torture. Il governatore di quella provincia, un certo Zekki, si divertiva a “visitare” di tanto in tanto il lager, cavalcando in mezzo ai prigionieri e calpestando i bambini.
In tanto orrore c’era chi non si perdeva d’animo e lottava. Dal 28 luglio, ben 4000 Armeni stanziati presso il Golfo di Alessandretta, sulle sponde del Mediterraneo, si rifugiarono sul monte Mussa Dag. Armati di fucili, si organizzarono per la resistenza sotto la guida di un comitato presieduto da Dikran Antreasian. Respinsero per un mese gli assalti dei soldati turchi. Nel frattempo, i ribelli segnalarono la loro presenza alle navi anglo-francesi che battevano quel tratto di costa, grazie a un’enorme bandiera con una croce rossa in campo bianco, ben visibile dal mare. Il 5 settembre l’incrociatore francese “Guichon” si avvicinò incuriosito alla costa e fu raggiunto dal nuotatore armeno Movses Kerekian, che spiegò la situazione. Entro il 14 settembre 1915 la flotta francese avrebbe permesso di evacuare in Egitto i coraggiosi del Mussa Dag. Purtroppo, per un numero di Armeni valutabile fra 1 milione e mezzo e 2 milioni, non c’era più nulla da fare. Nel 1916 sopravvivevano solo poche comunità, come quella di Smirne. Perfino le vivaci proteste dei diplomatici e dei militari tedeschi non riuscirono a far rinsavire le criminali autorità turche.