LEPANTO:
LA BATTAGLIA CHE SALVO' L'EUROPA
7
Ottobre, il giorno che salvò l'Occidente
Poitiers,
Lepanto e Vienna. Tre grandi vittorie, splendide e sanguinose. Tre vittorie
dell'Occidente, tre vittorie della Cristianità. Tre vittorie contro un
mondo di volta in volta arabo o musulmano, ferocemente aggressivo, ma anche
giovane, forte e spavaldo. Un mondo però che ogni volta, e proprio nel
cuore dell'Europa, si è infranto contro il valore degli Europei, decisi
a non cedere la propria terra fino all'estremo sacrificio. Europei ancora in
possesso di amore per la propria terra, di Fede, di istituzioni politiche e
religiose che non li avevano abbandonati, come da troppo tempo accade oggi.
Istituzioni che li spronavano anzi, con Re, Papi e Imperatori. Un Europa, in
tre epoche distanti tra loro anche mille anni, nella quale gli Europei accorsero
volontariamente, popolo e signori, a difendere la propria civiltà e la
propria Religione. Un'epoca nella quale la Cristianità non confondeva
ancora la Carità, una virtù Teologale, con una solidarietà
che ne è oggi la caricatura: rifugio sentimentale di chi è Disposto
a sacrificare la propria civiltà per un egoistico bisogno di apparir
buono a sé stesso. Un'epoca nella quale gli intrighi politici, per quanto
spietati e interessati come lo sono oggi, trovavano un limite in un sistema
di valori superiori, di fronte ai quali ogni sacrificio veniva accettato con
entusiasmo. L'Europa difendeva il suo modello di civiltà, si direbbe
oggi. Sì, ma difendeva anche il suo sangue, le sue chiese, le sue monarchie
e repubbliche. Forse non siamo meno coraggiosi dei nostri avi, auguriamocelo
almeno. Ma abbiamo perso ogni riferimento a qualsiasi cosa di superiore, abbiamo
smarrito il senso di appartenenza a un popolo, ne abbiamo smarrito il giusto
orgoglio. Abbiamo smarrito il normale senso di vivere la religione, abituati
da secoli di propaganda illuminista e peggio a ritenere la Fede un relitto del
Medioevo. Né siamo più capaci di pensarci membri di una comunità.
Una vera comunità, con delle radici e una storia che abbiano plasmato
noi e che ci vive accanto facendoci amare gli uni gli altri, perché questi
riconosciamo simili a noi, perché in essi vediamo noi stessi, i nostri
figli e i nostri genitori. L'occidente di oggi conosce solo disanimate comunità
indotte dall'ideologia, tanto più vaste quanto insulse, dove ognuno,
prigioniero dell'incomunicabilità cui è costretto, si ripiega
su sé stesso. Solo e individualista come la dimensione della vita al
giorno d'oggi. Però abbiamo il libero mercato: la libertà di vendere
e comprare qualunque cosa a chiunque e da chiunque. La libertà di dimenticare
storia, tradizioni e religioni per costellare le nostre città di orribili
negozi tutti uguali, di essere condannati a vedere i nostri soldi aumentare
o diminuire di valore a seconda di quel che accade alla Borsa di New York, o
Tokio o chissà dove. Abbiamo persino letto dei sacerdoti chiamare alla
difesa d'Europa in nome della difesa del libero mercato. La battaglia dell'Occidente
deve quindi essere una battaglia contro sé stesso, o contro chi lo ha
ridotto in questo modo. Bisogna riempire il vuoto delle nostre anime coi valori
della Tradizione. A quei profeti dei listini di borsa ha risposto Bossi sul
Messaggero del 1 ottobre: l'Islam, oggi come oggi, è forte perché
ha più valori di noi. Non si accorre a Poitiers, a Lepanto o sotto le
mura di Vienna per il libero mercato, né per gli interessi delle multinazionali.
Sono necessari coraggio e un amore tanto più profondo quanto più
disinteressato. Carlo Martello, San Pio V, Prinz Eugen ne sono gli eroici simboli;
ma dietro di sé, essi ebbero tutta la Fede e il Sangue della Nostra Europa.
Per riempire i ranghi delle loro file servono questi valori.
La flotta turca fu affondata dalla coalizione cattolica formata da pontifici,
imperiali, veneziani, genovesi, Cavalieri di Malta e di S. Stefano.
Lepanto 1571: quando l'unione fece la forza
La vittoria dell'Occidente dopo quattro ore di furiosa battaglia nel Golfo
di Patrasso
Fra
i molti dipinti di Paolo Veronese che vi sono a Venezia nelle Gallerie dell'Accademia,
ve n'è uno che raffigura, in alto, sopra una cortina di nuvole, San Pietro,
San Rocco, Santa Giustina e San Marco che implorano la Vergine affinché
conceda la vittoria alla flotta che è raffigurata al disotto, mentre
combatte con delle navi turche, contro le quali un angelo lancia delle frecce
incendiarie. Questo dipinto era un tempo a Murano, a sinistra dell'altare del
Rosario nel Duomo e, dipinto probabilmente nel 1572, era un ex-voto, che Veronese
dipinse per Pietro Giustinian, l'anziano membro del Maggior Consiglio che da
quella battaglia era tornato vittorioso. La battaglia di Lepanto. 430 anni orsono,
all'alba del 7 di ottobre 1571, la flotta della Lega Cristiana entrava nel Golfo
di Patrasso. Dopo 4 ore di furiosi combattimenti, di terribili corpo a corpo
combattuti sui ponti delle imbarcazioni, le navi cattoliche avrebbero colto
quella vittoria per la quale i turchi sarebbero stati esclusi per sempre dal
Mediterraneo occidentale.
I TURCHI A CIPRO
La guerra era stata dichiarata a Venezia dai Turchi all'inizio dell'anno precedente:
ma all'intimazione di abbandonare Cipro, la Serenissima aveva risposto con un
netto rifiuto. La resistenza veneziana, sotto il comando di Nicolò Dandolo,
fu tenace, ma non fu possibile evitare lo sbarco e, nonostante le fortificazioni
di Nicosia, ancora oggi visibili, fossero appena state innalzate, e la lunga
ed eroica difesa sostenuta soprattutto da Romagnoli e Marchigiani, la città
fu presa il 9 settembre 1570.
"IN HOC SIGNO VINCES"
La minaccia turca era stata chiaramente compresa in tutta la sua gravità
da uno dei più grandi Papi che la storia della Chiesa ricordi: San Pio
V. Egli si era messo all'opera già all'indomani della dichiarazione di
guerra turca, e non tralasciò nulla per creare quell'alleanza di principi
e uomini cristiani che sbarrò la strada agli Ottomani. Nacque così
la prima Lega Cristiana a capo della quale il Papa pose il già famoso
Marcantonio Colonna Duca di Paliano, che l'11 giugno 1570 ricevette dalle sue
mani la nomina a Prefetto e Capitano Generale insieme con lo stendardo raffigurante
sul fondo di Damasco rosso il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo; in
alto il motto "In hoc signo vinces". Si trattava ora di convincere
a soccorrere Venezia le altre potenze dell'epoca e in particolare Filippo II,
i cui interessi fatalmente contrastavano a quelli di Venezia, che era di fatto
l'unico stato libero della penisola. Egli possedeva infatti i reami di Na poli,
Sicilia e Sardegna e controllava Genova, il Piemonte e la Toscana. Gli Interessi
di Spagna e Venezia collidevano in particolare in Lombardia. Qui Milano, Lodi,
Como e Pavia erano in mano a Filippo, mentre Bergamo e Brescia, con Vicenza
e Verona, erano domini veneziani. Il Re di Spagna tratteneva così Toscana,
Genova e il ducato di Savoia dall'intervenire. E' singolare che questo compito
toccasse a un Papa che molto meno di tanti altri ebbe interesse a assumere impegni
militari, a dimostrazione del fatto che quando la necessità lo impone,
alla preghiera e al digiuno possono essere uniti i cannoni.
UN PAPA VOLUTO DA SAN CARLO
Il conclave nel quale era stato eletto, che fu il capolavoro diplomatico di
San Carlo Borromeo, ebbe luogo nel 1565, l'anno al quale si possono far risalire
gli antefatti di Lepanto. Turchi e barbareschi si gettarono in quell'anno su
Malta per scacciarne, come già avevano fatto da Rodi, i Cavalieri dell'Ordine
Ospitaliero di San Giovanni in Gerusalemme, che avevano di recente ottenuto
l'isola da Carlo V. 500 navi e 50.000 uomini, tra giannizzeri della guardia
e corsari di Dorghut Pascià, il leggendario corsaro che perse la vita
decapitato da una palla di cannone, assalirono Malta. 700 Ospitalieri, sostenuti
da una sprovveduta ma tenace popolazione, riuscirono a resistere fino all'arrivo
delle navi spagnole che costrinsero i Turchi a togliere l'assedio. L'anno seguente
però, Genova perdette l'isola di Chio: le chiare intenzioni ottomane
erano a questo punto evidenti e l'attacco a Cipro ne fu la logica conseguenza.
Pio V non risparmiò alcuna energia per dar vita a quella Lega che infine
comprese, oltre naturalmente a Venezia, che sostenne anche lo sforzo maggiore,
la Spagna di Filippo II, la Repubblica di Genova, il ducato di Savoia, gli "uomini
neri", come erano chiamati dai Turchi gli Ospitalieri di San Giovanni,
e il Granducato di Toscana, con in particolare i Cavalieri del Sacro Militare
Ordine Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire.
"UOMINI NERI" CONTRO PIRATI
L'ordine che era stato creato da Cosimo I de' Medici, proprio per combattere
la pirateria nel Tirreno, e autore, in questo e nel secolo successivo, di straordinarie
imprese in tutto il Mediterraneo. Infine Lucca, Mantova, Parma, Urbino e Ferrara.
Il 5 agosto 1571 cadde l'ultimo baluardo veneziano a Cipro: Famagosta. Il generale
Marcantonio Bragadin, che ne era capitano, l'aveva difesa disperatamente per
mesi. Ingannato da Alì Pascià, che gli aveva concesso una resa
con onore, una volta consegnata la città fu preso e gli furono mozzati
naso e orecchie. Fu quindi torturato per 11 giorni e infine scuoiato vivo il
17 agosto, sulla Piazza di Famagosta, mentre la splendida cattedrale gotica
di San Nicolò era trasformata in moschea. La sua pelle fu riempita di
paglia e trasportata a Costantinopoli. L'urna che la contiene si trova a Venezia,
nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, il Pantheon delle glorie della Serenissima,
dove giunse nel 1596 dopo essere stata avventurosamente trafugata dall'arsenale
di Costantinopoli.
LA CRISTIANITÀ TUTTA UNITA
Le navi cristiane si riunivano nel frattempo a Messina. Erano 208 galere, vale
a dire vascelli a remi e a vela armati con artiglieria pesante sulla piattaforma
anteriore e leggera sui fianchi. Il grosso della flotta era costituito dalla
squadra veneziana: 105 vascelli al comando del vecchio generale da mar Sebastiano
Venier; quindi la squadra di Filippo II Re di Spagna, comandata da Gian Andrea
Doria, con 81 navi di cui 14 spagnole; la squadra pontificia schierava 12 navi
ed il suo generale Marcantonio Colonna Duca di Paliano era vice comandante dell'intero
schieramento. Tre navi erano genovesi, tre dei Cavalieri di Malta e tre addirittura
del Ducato di Savoia. Comandante generale era Don Giovanni d'Austria, fratello
del Re di Spagna, che aveva ricevuto a Napoli dalla mani del Cardinal Granuela
il bastone del comando e il nuovo stendardo: un ricco drappo di seta cremisina
con l'immagine del Redentore in croce. Complessivamente 50.000 soldati, archibugieri
e corsaletti, e 13.000 marinai. Fra loro anche corsi, tedeschi e 6000 valloni,
l'eroico popolo pronto in ogni epoca a difendere l'Europa dai suoi nemici. Le
forze cattoliche avevano soprattutto 1800 cannoni, i quali fecero la differenza
coi 750 dei Turchi, poco superiori per il numero di navi e in grado di schierare
un numero equivalente di uomini.
DUE FLOTTE CONTRO
Il 16 settembre l'Armata Cristiana usciva dal porto di Messina dirigendosi a
Corfù. Qui ricevette la notizia che la flotta turca era entrata nel golfo
di Lepanto. Si riprese il mare la notte sul 4 per fermarsi presso Cefalonia
il 5. Trascorse il 6, finché verso le sette di sera la flotta turca uscì
dal golfo. Le flotte si incontrarono all'imboccatura del golfo di Patrasso verso
la prima ora di sole della domenica sette ottobre. Dopo mezzogiorno Doria girò
il bordo al largo dando l'impressione di fuggire. Al tiro che gli fu rivolto
rispose Don Giovanni col cannone di corsia accettando così la battaglia.
Furono abbassate tutte le bandiere dei Principi e dei Capitani, tranne quella
di Colonna, mentre la Reale spiegò il grande stendardo della Lega e quello
della Beata Vergine. Don Giovanni percorse la linea della battaglia, quindi,
suonate le trombe, si diede a danzare di gioia sul ponte della Reale. Intanto
Gesuiti, Domenicani, Francescani e quanti Preti erano presenti sulle galee,
benedicevano le armi cristiane. Più tardi molti di loro le avrebbero
a propria volta furiosamente impugnate. I turchi si gettarono sulle navi cristiane
mal governando l'artiglieria; intanto la capitana del Papa investì quella
turca, mentre era a sua volta investita da quella del Pascià Pertaù.
In un indescrivibile furore, mentre la battaglia pareva ormai più terrestre
che navale, lo stendardo cristiano restavo intatto e non una sola freccia giungeva
a lacerarlo. Don Giovanni e Colonna combatterono davanti a tutti per tre ore
invadendo la reale turca. Infine giunsero 400 soldati freschi che irruppero
per prua e per fianco. Alì Pascià fu ucciso, sterminati i giannizzeri
e, scesa la mezzaluna, prendeva il vento lo stendardo di Gesù Crocifisso.
All'ala sinistra era la squadra gialla, quella veneziana. Il loro valore si
riassume in quello di Agostino Barbarigo che li capitanava. Ricevuta ben presto
una freccia nell'occhio destro, non abbandonò il ponte, e tra i tormenti
della ferita mortale continuò a dirigere le operazioni finché
54 delle 56 navi che lo avevano attaccato non furono prese. Scese allora dal
ponte e, strappatasi di sua mano la freccia dall'occhio, dopo aver avuto notizia
della vittoria, morì rendendo grazie a Dio. All'ala destra Andrea Doria
continuava a rifiutare il combattimento. La galea Fiorenza e la San Giovanni
del Papa lo abbandonarono e si volsero insieme contro il nemico sostenendo insieme
alla squadra azzurra l'assalto di Uluds Alì. Numerosi morirono i cristiani
ma le sorti generali della battaglia erano decise. La capitana di Malta fu presa
da Alì, il Pascià calabrese di Algeri, che fece sgozzare sul ponte
36 cavalieri, mentre quasi tutti i Cavalieri di S. Stefano morirono sulla Fiorenza
del Papa.
QUATTRO ORE DI FUOCO
La battaglia era durata poco più di quattro ore. Erano morti 40.000 turchi
e solo 25 galee furono salve. La potenza navale ottomana era finita per sempre.
San Pio V, che aveva trascorso le ore della battaglia in preghiera dinanzi all'effigie
della Madonna della Salute, nella Chiesa di S. Maria Maddalena, stabilì
in segno di ringraziamento alla Vergine al 7 ottobre la festività di
Santa Maria della Vittoria che fu estesa da Clemente XI a tutta la Cristianità
e definitivamente fissata al 7 ottobre da Leone XIII.
Pio V, papa milite della fede
Il clima di grande santità nel quale Michele Ghislieri, nel 1566, fu
eletto Papa, fu quello delle costituzioni emanate da Pio IV: esse prevedevano
la clausura assoluta e i 53 cardinali elettori la rispettarono pienamente. Fu
San Carlo Borromeo a perorare particolarmente l'elezione di questo cardinale
domenicano, che era stato recentemente sollevato dall'incarico di Inquisitore
generale. Dopo una parentesi come Vescovo di Mondovì, rimaneva a Roma,
dove viveva solitario e penitente, allontanato dal Vaticano e malato al punto
da essere prossimo a morire. Antonio Ghislieri era nato a Bosco, nel Ducato
di Savoia, nella diocesi di Tortona, il 17 gennaio 1504. Entrò nel convento
domenicano di Vigevano a soli 14 anni, per entrare nell'Ordine dei Frati Predicatori
col nome di Michele. Si recò quindi allo Studio di Bologna, la vera patria
da dove la sua famiglia era stata esiliata tre generazioni prima, dove in breve
divenne Lettore di Logica, Filosofia e Teologia. Ordinato a 24 anni, predicò
numerose Quaresime nel Capitolo Provinciale della Lombardia. Fu quindi chiamato
al duro ufficio di Inquisitore, dapprima a Pavia e quindi a Como, dove, scomunicato
il Vicario e il Capitolo, fu aggredito e si salvò a stento. Inquisì
ancora il Vescovo di Bergamo, ma non volle mai deporre l'abito domenicano per
paura d'esser riconoscibile come inquisitore. Giunse quindi a Roma come Commissario
del Sant'Uffizio, rifiutò dapprima il vescovado, e fu eletto Cardinale
col titolo di Santa Sabina e nome di Cardinale Alessandrino. Anche quando fu
eletto Sommo Inquisitore perseverò con i consueti zelo e ostinazione,
sempre vestito da frate tranne nelle occasioni pubbliche, quando vi era obbligato.
Fu quindi adorato come Sommo Pontefice, e incerto se accettare la tiara, gli
fu miracolosamente suggerito di accettarla. I digiuni e la preghiera che gli
erano abituali, si intensificarono. Si vestì degli abiti del Pontefice
precedente, ma sempre con gli indumenti domenicani al di sotto. Dormiva solo
alcune ore e su di un pagliericcio. Pellegrinava per le chiese di Roma, scalzo
e a capo scoperto. Nel governo della Corte prescrisse la medesima austerità
che usava con se stesso. Contro le eresie fu inflessibile e attivo: mandò
milizie in Francia perché combattessero gli Ugonotti, e eventi miracolosi
accompagnarono quelle lotte, scomunicò Elisabetta regina d'Inghilterra
e prescrisse che gli Ebrei potessero risiedere esclusivamente a Roma. Aprì
ancora numerose strade e costruì acquedotti, e insieme con le ordinanze
per migliorare la moralità del popolo di Roma, istituì la Congregazione
dell'Indice. Ma, oltre alla Lega Cristiana vittoriosa a Lepanto, applicando
la riforma ecclesiastica secondo i canoni del Concilio di Trento, pubblicò
nel 1568 quell'immutabile "Missale Romanum", il più grande
monumento che abbia lasciato, l'unico vero mezzo con cui celebrare il Sacrificio
di Cristo. Morì il 1 maggio 1572, senza aver mai commesso un peccato
mortale, come riportarono i suoi confessori. Beatificato da Clemente X, fu santificato
nel 1710 da Clemente XI.