569 d.C :
I LONGOBARDI DILAGANO IN PADANIA

Nella primavera del 569 d.C. i Longobardi, che erano penetrati nel Friuli l’anno precedente, dilagano nella Pianura Padana.

Il Lario cade invece sotto il controllo longobardo solo nel 589 d.C. quando l’Isola Comacina, citata nel VII sec. dal geografo Giorgio Ciprio tra i castelli bizantini e quasi certamente centro di un distretto fortificato, viene conquistata probabilmente ad opera del duca longobardo di Bergamo dopo essere stata difesa per vent’anni dal magister militum Francione. Il territorio di Erba doveva far parte di questo distretto fortificato che fronteggiava a nord le terre occupate dai Franchi e a sud quelle già occupate dai Longobardi con una serie di fortificazioni poste tra la zona paludosa dei laghi di Olgiate e Alserio e le Prealpi: se è corretta l’identificazione di Castelmarte e del Baradello con due castelli bizantini inseriti nell’inventario di Giorgio Ciprio, il primo avrebbe avuto la funzione di chiudere l’accesso alla Valassina e dunque al centro del lago e il secondo di presidiare gli ingressi alla convalle di Como.

Un solo ritrovamento archeologico, avvenuto nel maggio 1961 a Erba-fraz. Parravicino, nei pressi della chiesa di Casiglio, durante i lavori di sterro per la costruzione della nuova strada provinciale per Como, testimonia la presenza longobarda nel territorio erbese: si tratta di una sepoltura maschile con corredo costituito da una spatha con impugnatura ageminata e da uno scramasax.

I MATERIALI LONGOBARDI

Paolo Diacono, storico dei Longobardi, ci fornisce alcune preziose informazioni sul costume maschile longobardo nella sua Historia Langobardorum (IV, 22): "si scoprivano la fronte radendosi tutt’intorno fino alla nuca e i capelli erano divisi da una scriminatura in due bande che cadevano ai lati fino alla bocca. I loro vestiti erano piuttosto ampi, fatti per la più parte di lino, come sono soliti portarli gli Anglosassoni, e ornati di balze più larghe e intessuti di vari colori. Portavano inoltre calzari aperti fino alla punta del pollice e fermati da lacci di cuoio intrecciati. In seguito cominciarono a portare le uose, sulle quali, andando a cavallo, mettevano gambali rossastri di lana: usanza questa che avevano derivato dai Romani". La descrizione fornita da Paolo Diacono, che in un altro passo della sua opera (I, 8-9) spiega l’etimologia del nome "Longobardi" con lang che significa "lunga" e baert "barba", viene confermata dalla rappresentazione di re o guerrieri su manufatti coevi quali, ad esempio, il piatto d’argento di Isola Rizza (VR), la lamina frontale di elmo di Agilulfo (Firenze-Museo del Bargello) ed altri ancora.

Le parole di Paolo Diacono sia riguardo all’uso di vesti di lino ornate di balze di broccato d’oro, sia per quanto concerne la progressiva e relativamente rapida assunzione del costume romano indigeno trovano conferma nei rinvenimenti archeologici che hanno inoltre permesso di cogliere importanti dettagli riguardo l’abbigliamento e, nel caso delle tombe maschili, dell’armamento.

Le tombe longobarde, infatti, erano dotate di un corredo funerario che costituiva parte di un rituale di sepoltura, caratterizzato da modalità a noi non del tutto chiare e soggetto probabilmente a variazioni individuali: il morto veniva sepolto con gli abiti della tradizione nazionale (completi di accessori e ornamenti) indicativi di stati sociali e di mode, e accanto al suo corpo venivano deposti oggetti inerenti al rango, alla vita quotidiana e alle funzioni del defunto.

Quando i Longobardi arrivarono in Italia l’armamento del guerriero consisteva nella spada a un taglio (detta spatha) portata appesa a una cintura ornata di poche placche, nella lancia con punta a foglia di salice e in uno scudo con umbone di ferro a calotta conica cui talvolta si aggiungevano punte di freccia che dovevano naturalmente accompagnare un arco.

Negli ultimi decenni del VI sec. d.C. i corredi si modificano: alla spatha si aggiunge lo scramasax, una sorta di coltellaccio a un solo taglio, ed entrambi questi oggetti vengono portati sospesi ad una cintura ornata ora da molte placche; le punte di lancia sono a forma d’alloro e gli umboni di scudo a coppa emisferica.

La spatha presenta l’impugnatura decorata con agemina d’argento e trova un unico confronto in Italia, precisamente nella spatha con impugnatura ed elsa con agemina d’argento e di ottone scoperta nel 1965 a Ciringhelli (VR) durante lavori di dissodamento per estrarre ghiaia. L’agemina è una tecnica orafa che trova particolare diffusione durante l’altomedioevo: si ottiene battendo a freddo (dopo aver inciso il disegno) o a caldo sulla superficie di un oggetto in metallo non prezioso (ferro o bronzo) sottili fili d’ottone, oro o argento per ottenere motivi ornamentali contrastanti.

Più difficile è il tentativo di ricostruzione dell’abbigliamento delle donne longobarde che si fonda quasi esclusivamente sui rinvenimenti archeologici.

Al momento dell’invasione sembra attestato l’uso di portare una blusa chiusa da una coppia di fibule a "S" sopra una gonna chiusa "a portafoglio" da un’altra coppia di fibule a staffa: riguardo queste ultime però alcuni studiosi ritengono invece che fossero fissate a un nastro che pendeva dalla cintura.

Il precoce adeguamento al costume latino-mediterraneo si manifesterà nel caso dell’abbigliamento femminile con l’adozione di un mantello chiuso sul petto da una grossa fibula a disco e di nuovi gioielli.

Ed è proprio l’imitazione di un’usanza mediterranea che consisteva nel porre sul volto dei defunti un sudario su cui erano cucite delle crocette che viene invocata dagli studiosi per spiegare l’improvvisa e quantitativamente rilevante comparsa nelle tombe longobarde italiane di crocette in lamina d’oro del tutto assenti nelle sepolture della Pannonia, regione dalla quale i Longobardi muovono per invadere l’Italia. La presenza di motivi pagani infatti induce a ritenere non corretta l’idea di spiegare la diffusione delle crocette con l’adesione alla religione cristiana: si tratta di un problema più complesso che attende ancora una risposta definitiva.

LA "LONGOBARDIA MINOR"

Accanto alla "Longobardia Maior" (capitale Pavia) sorgerà una meno conosciuta Longobardia Minor, i cui centri più importanti furono Spoleto, Benevento e Capua.
C’è tutta una corrente culturale che vuole svalutare le fonti antiche.

La principale fonte di notizie sui Longobardi, è rappresentata dagli scritti di Paolo Diacono. Un episodio minore, che tutti reputavano leggenda, è stato confermato da recenti scoperte archeologiche.
Nel 1987 a Campochiaro (CB), in località Vicenne, lungo il tracciato di un antico sentiero che collegava Pescasseroli con Candela, viene alla luce un’intera necropoli medievale di oltre centoventi tombe databili al VII secolo.
Sembra un classico reperto longobardo. Sono ben visibili diversi esemplari di scramasax, il tipico lungo pugnale ad un solo taglio e diverse fibbie di bronzo, caratteristiche di quel popolo. Però, ad un certo punto gli esperti allibiscono. Dieci tombe contengono accanto all’uomo, anche uno scheletro di cavallo. Non esistono testimonianze di tale uso da parte dei Longobardi.
Nella, quasi contemporanea, necropoli di Nocera Umbra, sono si stati trovati dei resti di cavallo, ma ben distinti da quelli umani. Seppellirli vicino ai padroni è una tipica usanza delle steppe asiatiche. Ciò conferma una narrazione di Paolo Diacono, sino ad ora considerata leggenda.
Correva l’anno 668. Alla corte del re longobardo Grimoaldo a Pavia, si presenta uno spettacolo insolito. Il duca dei Bulgari, Alzeco, alla testa di una caterva d’orde barbariche(si tratta, in massima parte, ovviamente, di Bulgari, ma non mancano Unni, Avari, Vandali, Slavi, Finni, Peceneghi, Baltici e Tartari), si presenta per mettersi al suo servizio, rinnovando, in tal modo, gli antichissimi vincoli di alleanza e vassallaggio che legavano i suoi avi alla corona longobarda. Da meno di un secolo i cavalieri longobardi, che si erano battuti con ferocia contro i Romani sin dai tempi di Aureliano e di Stilicone, erano usciti dalla barbarie. La vista di questi
loro antichi " colleghi "di scorreria e di saccheggio provoca ribrezzo nei giovani e nostalgie nei vecchi. Il re pensò di prendere due piccioni con una fava, destinandoli nelle spopolate terre di confine del ducato di Benevento, tra Sepino, Boiano ed Isernia. Quando, circa un secolo dopo, Paolo Diacono scrive le sue note, aggiunge che i Bulgari ed i loro " aggregati " stavano ancora là e che avevano mantenuto la loro lingua e le loro usanze.

La necropoli di Campochiaro, a prescindere che può essere la conferma di tale racconto, dimostra certamente che le nostre terre sono sempre state crocevia di popoli.