Dieci anni di illusioni:
storia del Sessantotto

Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli


UNA LUNGA CRONACA

Intorno all'anno millenovecentosessantacinque, l'Occidente era la parte più ricca e più libera del mondo.
Quasi tutti potevano mangiare tre volte al giorno. Quasi ovunque c'erano diritto di voto e libertà di espressione. La possibilità di studiare era di gran lunga cresciuta, e anche per i figli degli operai si erano aperte, finalmente, le porte dell'università.
Sembra dunque che mai l'uomo fosse stato così bene come in quel periodo, e in quella parte del mondo.
Eppure, fu proprio in quel periodo -1965 o giù di lì- e proprio in quella parte del mondo che fermentò la grande rivolta che sarebbe esplosa poco dopo. Dagli Usa alla Francia, dalla Germania all'Italia, un'intera generazione mostrò di non accontentarsi affatto di quel mondo, «così libero e così ricco», che i genitori avevano preparato per loro. Diceva, il 16 giugno 1962, il primo manifesto programmatico della contestazione studentesca, quello di Port Huron, Stati Uniti: «Siamo figli della nostra generazione, cresciuti nel benessere, parcheggiati nelle università, e guardiamo al mondo che ereditiamo con sconforto». E una delle ragazze intervistate dalla «Zanzara», il giornale studentesco del liceo Parini di Milano al centro, nel marzo del 1966, di uno scandalo nazionale: «Se mi offrissero una vita solo dedita al matrimonio, alla casa e ai figli, piuttosto di vivere così mi ammazzerei».
Nacquero, e dilagarono in tutto l'Occidente, i movimenti dei «beat», degli «hippies», dei «provos» e dei «figli dei fiori». Contestavano l'autorità della famiglia e della scuola, il servizio militare, l'esistenza delle carceri, l'integrazione nel mondo del lavoro. Era scritto su un documento di «Onda Verde», uno dei più influenti gruppi underground italiani: «Non ci vanno le autorità, la famiglia, la repressione sessuale, l'economia dei consumi, la guerra e gli eserciti, i preti, i poliziotti, i culturali, i pedagoghi e demagoghi. (...) Noi vogliamo cambiare subito e con urgenza le situazioni in cui ci troviamo. (...) La vecchia generazione, che detiene o sostiene o subisce il controllo sociale e la repressione, deve morire prima di noi».
Sintomi, segnali di un qualcosa che sarebbe poi esploso, con singolare, misteriosa sincronia, attorno al predestinato anno 1968. E che sarebbe passato alla storia, appunto, come «il Sessantotto».

Il Sessantotto durò dieci anni, fino al settembre del 1977, ed ebbe poi, ancora per molto tempo, una tragica appendice con la lotta armata. Il perché di questo record di durata è di difficile comprensione.
Il Sessantotto appare come qualcosa di molto complesso. Dove convivono, da ogni parte, ragioni e torti. Dove s'intrecciano molti fattori: il bigottismo di una società, quella pre-sessantottina, molto più attenta alle forme e ai valori materiali che non agli ideali; la nuova, ulteriore crescita dei ritmi di lavoro nelle fabbriche; una casta industriale che, abituata a molto guadagnare e a poco rispettare le garanzie per i lavoratori, tardava ad adeguarsi agli standard europei.
Ma anche la fisiologica voglia di menare le mani della prima generazione a non aver mai vissuto una guerra; la semina di milieu intellettuali che predicavano, dai salotti, Verbi obsoleti e ingannatori, che -in caso di vittoria- avrebbero portato a società ben peggiori di quella che si voleva distruggere; l'opportunismo dei molti che trovarono presto il «lato comodo» della rivolta; l'accodamento inerte, infine, degli immancabili conformisti.
E c'è anche un aspetto quasi sempre dimenticato (oppure frainteso, equivocato) quando si parla del Sessantotto. E cioè la secolarizzazione selvaggia, l'immane crisi di fede collettiva di quegli anni. Fu per quella crisi che le istanze più genuine e sincere dei giovani si indirizzarono verso la pretesa della costruzione di una sorta di paradiso terrestre; e fu anche e soprattutto per quella crisi che il disagio e la protesta degenerarono come degenerarono.


I - IL SESSANTOTTO

Cominciò con una beffa.
I primi a far sul serio, infatti, furono gli studenti di sociologia di Trento; loro diedero il la, all'inizio di novembre del '67, agli «stati di agitazione».
Davvero una beffa, perché quell'Università era stata voluta da Flaminio Piccoli e da un gruppo di altri democristiani con lo scopo preciso di farne una fucina di pensatori cattolici. Finalmente, pensavano i fondatori, anche il cosiddetto mondo cattolico avrebbe avuto i suoi sociologi. E invece quell'Università fu la culla non solo della contestazione, ma anche del terrorismo. Lì si formarono, ad esempio, Renato Curcio e Margherita Cagol, fra i genitori delle Brigate rosse.
Pochi giorni dopo -il 17 novembre, per la precisione- un altro ateneo venne occupato: nientemeno che l'Università del Sacro Cuore di Milano, fondata da padre Agostino Gemelli e considerata un fiore all'occhiello della cultura cattolica italiana.
Il giorno dopo a cadere fu architettura, a Torino. E il 27 novembre, ancora a Torino, palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche: gli studenti rimasero dentro un mese esatto, fino all'intervento della polizia.
Nei primi due mesi del 1968 quasi tutte le più importanti università italiane erano occupate. Secondo un'inchiesta fatta allora da «Tempi moderni», nell'anno accademico ‘67-‘68 furono 102 le occupazioni di sedi e facoltà universitarie. In testa lettere (18 facoltà occupate su 22) e scienze, in particolare fisica (16 occupate su 22).

IN UN MARE DI GUI

Come in tutte le guerre, anche qui ci fu un casus belli. Il governo, retto da Aldo Moro, aveva presentato un progetto di riforma dell'università, chiamato «progetto Gui» dal nome del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, o «ventitré-quattordici» dal numero del disegno di legge, che era 2314. Un progetto che partiva dalla constatazione che l'università, in effetti, era vecchia e soprattutto inadeguata alle esigenze dei tempi nuovi. Dal 1961 al 1968 la popolazione studentesca era cresciuta del 117 per cento. Nel 1859, al tempo delle leggi Casati, c'erano mille cattedre e ottomila iscritti; alla fine del 1967, 3000 docenti e 500.000 studenti. Le università di Roma, Napoli e Bari avevano, rispettivamente, 60.000, 50.000 e 30.000 studenti, mentre erano state costruite per accoglierne non più di cinquemila ciascuna. L'ultima riforma universitaria risaliva al 1923.
Tutti d'accordo, dunque, sulla necessità di cambiare le cose. Ma gli studenti bocciarono subito la «ventitré-quattordici» coniando uno slogan: «Siamo in un mare di Gui».
Il ministro proponeva la creazione dei dipartimenti, aggregazioni di insegnamenti, istituzione di tre gradi di laurea (diploma al termine del primo biennio, dottorato di ricerca due anni dopo la laurea). Il Pci contestava, ma senza esagerare: gli bastava qualche emendamento al disegno di legge.
Ben altro volevano gli studenti. Spiegava in un manifesto il «Movimento per una università negativa» di Trento (di cui faceva parte lo stesso Curcio):
«Solo il rovesciamento dello Stato permetterà una reale ristrutturazione del sistema d'insegnamento. (...) Lo studente deve quindi, al di là del suo status, agire, in una prospettiva di lungo periodo, per la formazione (stimolazione) di un movimento rivoluzionario delle classi subalterne. (...) A un uso capitalistico della scienza bisogna opporre un uso socialista delle tecniche e dei metodi più avanzati ... ».
Questo documento, scritto in gran parte da uno studente di buona cultura destinato a diventare uno dei cervelli di Lotta continua, Mauro Rostagno, chiamato il «Che» di Trento, è -come si vede- già fortemente intriso di ideologia. Molto più di quanto fossero gli studenti delle altre università nei primi mesi del 1968. Il movimento studentesco di Trento -che fra i «cervelli» aveva anche i cattolici Marco Boato e Paolo Sorbi, anche loro finiti poi in Lotta continua- era affascinato, almeno nei suoi leader, dalla «teoria critica della società» elaborata dai filosofi della Scuola di Francoforte.
Ma era davvero un fatto singolare che di «repressione universitaria» si cominciasse a parlare proprio a Trento. Questa università fu la prima (e a quel tempo rimaneva l'unica) facoltà umanistica ad ammettere anche gli studenti provenienti dagli istituti tecnici. Se è vero che gli atenei erano allora frequentati perlopiù da figli della borghesia (pur se molto meno che in passato, come dimostrano le cifre sugli iscritti), è un fatto che a Trento, nell'anno accademico ‘68-‘69, su un totale di 2813 iscritti, ben 2230 provenivano dagli istituti tecnici.

Un altro documento «storico» sulle occupazioni universitarie è Contro l'università, scritto sui «Quaderni Piacentini» nel gennaio del 1968 da Guido Viale, uno dei leader del movimento torinese e fra i protagonisti, quindi, della rivolta di palazzo Campana. Per Viale la scuola era «di classe», e serviva al potere per omologare ai suoi disegni le coscienze dei giovani: «L'università funziona come strumento di manipolazione ideologica e politica teso a instillare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere, qualsiasi esso sia ... ».
Secondo il «movimento», all'università era impossibile elevarsi in qualunque modo. I figli dei ricchi si preparavano a diventare dirigenti. I figli degli operai, essendo figli di operai, avrebbero soltanto subito un lavaggio del cervello. «Il movimento studentesco si muove dal rifiuto della condizione di predeterminazione che il sistema assegna agli studenti» scriveva Luigi Bobbio, anche lui fra i protagonisti delle occupazioni torinesi. Si diceva che la laurea sarebbe servita solo a chi aveva una famiglia «bene» alle spalle; per lo studente proletario, non c'erano speranze di un futuro migliore rispetto alla vita dei genitori.
E si contestava, ovviamente, la formula dell'esame per valutare la preparazione dello studente. Il docente che interrogava era visto come un poliziotto, un inquisitore; lo studente come un imputato; l'esame stesso, come un moderno strumento di tortura.
Al bando anche i libri, che in più di un'occasione finirono al rogo nei cortili delle università. Erano considerati strumenti del «sistema» per indottrinare la gioventù; e come alternativa a questo vecchio, obsoleto e pericoloso metodo di insegnamento, si inventò l'«autoeducazione».
A «far cultura», in luogo dei libri, arrivarono quindi i volantini, su cui si scriveva di tutto, dalle informazioni su cortei e occupazioni alle analisi politiche. Il ciclostile diventò all'improvviso uno degli strumenti più importanti della vita del paese. Di nuovo una testimonianza di Guido Viale:
«Prima ciclostilati in poche centinaia di copie, e poi in migliaia [i documenti delle occupazioni] si diffondono e circolano, anche da una città all'altra, attraverso una serie di contatti e rapporti personali che coincide con l'organizzazione stessa del movimento. Raggiungeranno presto, fino ad occuparle del tutto, le pagine delle riviste culturali (di avanguardia e non) e politiche (ufficiali e non). (...) La cultura del Sessantotto, se il Sessantotto ne ha una, è questa, come quella dell'anno dopo sarà costituita soprattutto dai volantini distribuiti nelle fabbriche. Un'intera generazione si forma quasi solo su di essi, e ne risentirà pesantemente i limiti. Tutti gli altri saranno costretti ad adeguarsi, o tacere, per alcuni anni».

C'ERA UNA VOLTA IL REGOLAMENTO

Dalle università l'agitazione si estese molto presto alle scuole medie superiori.
Un liceo simbolo del Sessantotto è il Mamiani di Roma. Una scuola frequentata da figli della borghesia, di cui non staremo a fare la cronaca delle occupazioni (che videro fra i protagonisti Paolo Liguori, allora detto «Straccio», leader di un gruppo che si chiamava «Gli Uccelli»), delle assemblee, degli sgomberi e delle sospensioni: una cronaca che è uguale a quella di tanti altri licei. È interessante, invece, cercare di capire lo stacco, il «gap» si dice oggi, fra la struttura di una scuola come quella -simile a molte altre scuole, se non a tutte- e i tempi nuovi che incombevano.
È sufficiente leggere stralci del regolamento del Mamiani di allora:
«1. Gli ingressi sono separati: le femmine entrino esclusivamente da via Brofferio entro le ore 8.20, i maschi da viale delle Milizie 28 dalle ore 8.20 alle ore 8.35.
«2. Le professoresse invitino le ragazze a presentarsi decorosamente, con il grembiule nero o bleu e a non usare rossetti e cosmetici.
«7. Su ogni registro di classe sia diligentemente compilata la pianta dell'aula, e i maschi siano separati, per quanto è possibile, dalle femmine.
«9. Gli alunni, tranne in casi eccezionali, non possono recarsi nei gabinetti prima delle ore 11.20.
«10. L'intervallo dura quindici minuti e si svolge dalle ore 11.20 fino alle ore 11.36. Per quanto possibile gli alunni e le alunne siano tenuti divisi durante l'intervallo per elementari norme igieniche».

Basterà confrontare queste norme con quanto, come abbiamo già visto, scrivevano gli hippy su «Onda Verde» o i ragazzi sulla «Zanzara», per rendersi conto di che razza di conflitto stava scoppiando.

UN CALCIO AL MONDO DEI PADRI

Il fatto è che la protesta contro la «ventitré quattordici», contro le «baronie» degli accademici, contro un'università ritenuta classista e strumento del capitalismo e contro una scuola ancorata a schemi e regole antiquate, non fu -come detto- che il casus belli. Fra i giovani covava soprattutto il desiderio di ribellarsi all'Italia nata con il «boom» economico, a una società vista come ingessata e bigotta, a un futuro personale che appariva già disegnato dai padri su valori ben lungi dall'appagare le aspirazioni di un ventenne. Le «tre emme» su cui molti genitori volevano impostare l'avvenire dei figli -mestiere, moglie e macchina- si prospettavano come una gabbia soffocante.
C'era la voglia di dire basta a un modo di essere che molti giovani consideravano ipocrita, formalista, egoista. Francesco Guccini scrisse una bellissima canzone: Dio è morto. Diceva: «(...) ai bordi delle strade Dio è morto, nelle auto prese a rate Dio è morto, nei miti dell'estate Dio è morto. Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede (...) perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudini e paura, una politica che è solo far carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto ... ».
La Rai la censurò, e fu la dimostrazione del bigottismo del tempo. Infatti, subito dopo il niet della Rai, Dio è morto fu trasmessa dalla Radio Vaticana: al di là del Tevere avevano capito la religiosità di una canzone che, fra l'altro, finiva così: «Tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge, in ciò che noi crediamo Dio è risorto, in ciò che noi vogliamo Dio è risorto, nel mondo che vogliamo Dio è risorto, Dio è risorto».

Voglia di dare un significato all'esistenza. E, di conseguenza, anche voglia di cambiare le abitudini di vita quotidiana. Racconta Tiziana Maiolo, ex giornalista del «Manifesto» ed ex deputato di Rifondazione comunista:
«Per me il Sessantotto è stato davvero, e soprattutto, il ribaltamento delle abitudini di ogni giorno. Regalai quello che avevo agli amici. Non per spirito di carità, ma perché ero davvero convinta che stavamo cambiando il mondo e che certe cose non erano più importanti. Io, che venivo da una famiglia benestante, regalai gli anellini, che pure mi piacevano e mi piacciono tuttora; regalai i foulard di Hermès, che andavano di gran moda. Me ne andai di casa, e andai a vivere in due stanze di un vecchio palazzo di ringhiera. Non me ne fregava più niente, dei soldi».
E il vicedirettore della «Stampa» Gad Lerner, allora di Lotta continua:
«Quel movimento ti faceva sentire adulto. A quattordici anni ci vedevamo già grandi, a diciotto già uomini fatti e finiti».
Questa è la testimonianza di Primo Moroni, gestore della libreria Calusca di Milano, punto di riferimento dell'estrema sinistra negli anni della contestazione:
«Nel 1968 ero un importante dirigente della Vallardi, con tre segretarie. Guadagnavo benissimo. Mi dimisi. Me ne andai perché non sopportavo più di essere complice del padrone. Ormai avevo dimostrato a me stesso che ero capace anche di fare i soldi: così, in futuro non avrei mai più potuto pensare di essere comunista solo per una rivalsa personale, solo perché io, nato e cresciuto povero, non ero riuscito a entrare nel "giro" dei ricchi.
Con i soldi della liquidazione aprii in un antico palazzo di Milano, in via San Maurillo 14, il club "Si o si". Era una specie di agorà non ideologizzato, aperto un po' a tutti. Con noi c'erano preti-operai, le prime femministe, ma anche insegnanti, commesse, studenti di licei, professionisti, persino qualche democristiano. Avevamo 3800 soci. Facevamo spettacoli, incontri, dibattiti. Aprivamo alle 9 del mattino e chiudevamo alle 2-3 di notte. Danilo, barman della buvette del Piccolo Teatro, allora occupato da attori e tecnici per protesta contro la politica culturale di Paolo Grassi, ci portò molti attori. Ricordo Randone, la Proclemer, Buazzelli. Ma il club serviva anche come rifugio durante le manifestazioni. Per sfuggire alla polizia, ci si infilava nel portone del palazzo, che era in centro, e quindi in un'ottima posizione strategica».

VITA IN BRANCO

Cambiò naturalmente il modo di abbigliarsi. Basta con le giacche e le cravatte, basta con i capelli corti, si a jeans, barba e capelli lunghi, fazzoletti rossi annodati sul collo. Anche le ragazze abbandonarono trucco e abiti ricercati, passando pure loro ai jeans, e ai maglioni larghi e agli stivali.
Poco più tardi arriverà l'eskimo, impermeabile grigioverde di stile militaresco, in fibra sintetica con interno in finto pelo.
Ha scritto Guido Viale nel suo libro Il Sessantotto tra rivoluzione e restaurazione:
«Si vive in branco; si mettono in comune non solo le case (chi ce l'ha) e gli averi; ma anche il sapere e le proprie storie individuali: ma solo quello che di esse si ritiene importante... Si vive, si mangia, si dorme (poco) insieme. Si sciolgono e si ricompongono le coppie con una libertà prima sconosciuta».
Ha detto al «Corriere della Sera» (23 gennaio 1993) Giuseppe «Popi» Saracino, allora uno dei leader del Movimento studentesco della Statale di Milano, poi divenuto piccolo imprenditore:
«Mi sento ancora sessantottino, al cento per cento. (...) Mi sono rimaste nel cuore le occupazioni delle facoltà, le notti con le ragazze».
Naturalmente in tutto questo ribaltone c'erano, accanto alla voglia di ideali e alla sete di assoluto, anche desideri più terra terra. Avere in tasca le chiavi di casa, non dover sopportare i genitori che rompono», passare le giornate nel cortile dell'università invece che in biblioteca a studiare, rivendicare come un diritto il «sei politico» (cioè la sufficienza sempre e comunque), cambiare ragazza o ragazzo quando fa comodo, fare del sesso quando si vuole.
Franco Piperno, allora leader del movimento romano, intervistato dal «Corriere della Sera» il 10 gennaio 1993, ha parlato di «sensualità» del movimento. E l'ex leader trentino Paolo Sorbi, oggi fra i più severi critici di quell'esperienza, commenta: «Il vero dramma di quella generazione è stato l'avere avuto un ragionamento, che viene poi dalla Scuola di Francoforte e da altri filoni del marxismo rivoluzionario, sostanzialmente radical-borghese. Ci fu una totale incapacità di capire cosa significassero parole come felicità, verità, libertà, menzogna. La famosa sensualità di cui parla Piperno è diventata stile di vita generalizzato di tantissime fasce della realtà del Paese. L'esito vero del Sessantotto è una secolarizzazione selvaggia, con un narcisismo nel modo di vivere».

ASSEMBLEA UBER ALLES

E se certi comportamenti rivelarono la realtà di un opportunismo che spesso ebbe il sopravvento sull'impegno sincero, lo stesso modo di condurre la protesta tradì in breve tempo lo spirito bellicoso dei giovani del movimento.
I quali, lo abbiamo visto, dicevano di voler combattere soprattutto l'autoritarismo, e invocavano una democrazia «dal basso», diretta, senza mediazioni e senza mediatori. Il nuovo ordine, questa finalmente autentica democrazia, sarebbe stato reso possibile dalla continua, praticamente perpetua convocazione di assemblee. Da Trento a Torino a Milano a Roma a Napoli, gli studenti universitari e quelli medi non riconoscevano altro sovrano che, appunto, l'assemblea. Tonnellate di documenti certificano il rifiuto della democrazia per delega, cioè il rifiuto di eleggere un rappresentante che amministri fino a una nuova verifica elettorale. Non ci doveva essere nessuno ad amministrare e nessuno a decidere, neanche se democraticamente eletto. In ogni momento e per ogni circostanza, doveva essere l'assemblea a stabilire, a maggioranza, cosa si doveva fare e cosa non fare.
Scrisse allora il cattolico Gabrio Lombardi: «So bene la suggestione che esercita sui giovani la prospettiva della democrazia diretta. So bene che il meccanismo della rappresentanza è quanto di meno entusiasmante si possa immaginare. Ma la rappresentanza è il sistema meno peggiore che secoli di storia abbiano saputo elaborare per far vivere in termini di libertà vaste comunità di milioni di uomini. (...) Se la rappresentanza non è entusiasmante, l'assemblea per contro è decisamente mistificatrice: dà l'impressione di un'immediata partecipazione generale e diretta, ed è invece il luogo tipico in cui una minoranza decisa e abile conduce come vuole e dove vuole. L'assemblea è il preludio inesorabile della dittatura di una minoranza o addirittura di uno solo».
E infatti così avvenne, in un certo senso. Dopo le primissime, spontanee esplosioni «dal basso», fu chiaro che a guidare la rivolta non era, come si voleva far credere, la massa degli studenti. Ma, al contrario, manipoli di agitatori, soggetti più dotati e più astuti degli altri. Al vecchio e odiato autoritarismo dei professori se ne sostituì quindi un altro, spesso ancor più intollerante. Come ha scritto lo storico di sinistra Paul Ginsborg nella sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi:
«Gli studenti non erano esenti da difetti; spesso erano presuntuosi, arroganti e intolleranti; accettavano troppo facilmente l'uso della violenza come mezzo, e non misero mai in discussione, per molto tempo, la natura dei valori maschili dominanti. Le assemblee spesso non erano il modello di democrazia diretta che avrebbero dovuto essere, dato che gli interventi contrari al punto di vista della maggioranza venivano più di una volta interrotti o addirittura neppure permessi. Fu questo che fece temere al filosofo tedesco Habermas, tra gli altri, l'avvento di un "fascismo di sinistra"».


II - DA VALLE GIULIA IN POI

L'esordio in grande stile di questo «uso della violenza come mezzo» di cui parla Ginsborg è il 1° marzo 1968, giorno degli scontri di Valle Giulia, a Roma.
Quegli scontri, ancora oggi, vengono registrati come «incidenti fra studenti e polizia»: non si specifica quasi mai, insomma, chi attaccò e perché; si ripete lo stereotipo dello studente disarmato che vuole solo protestare, e della polizia brutale che interviene per reprimere.
Ecco però (dal libro L'Orda d'oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni) il racconto di una fonte insospettabile, Oreste Scalzone, che partecipò alla «battaglia di Valle Giulia» e che sarebbe diventato, in seguito, un leader dell'Autonomia:
«Avevano serrato la facoltà di architettura, che era dunque in mano alla polizia. La sera, la notte, alla riunione del comitato d'agitazione dell'università decidemmo che saremmo andati a riprenderla. Ci svegliammo presto e andammo, orgogliosi di aver messo in piedi un embrione di servizio d'ordine ... Arrivammo sotto quella scarpata erbosa e cominciammo a tirare uova contro i poliziotti infagottati, impreparati, abituati a spazzar via le manifestazioni senza incontrare resistenza. Quando caricarono, non scappammo. Ci ritiravamo e contrattaccavamo, sassi contro granate lacrimogene, su e giù per i vialetti e i prati della zona, armati di oggetti occasionali, sassi, stecche delle panchine e roba simile. Qualche "gippone" finì incendiato, ci furono fermi e botte da orbi .. ».
Alla fine della battaglia, si registrarono 148 feriti fra gli agenti di polizia e 47 fra i dimostranti. Quattro gli arresti, duecento le denunce. Certo non si era ancora alla violenza organizzata, ai servizi d'ordine ben armati e addestrati, né tantomeno alle P38: ma Valle Giulia, come ricorda Scalzone, fu una tappa importante perché per la prima volta, in quel 1968 costellato da occupazioni e sgomberi, furono gli studenti a prendere l'iniziativa dell'attacco. E se -sempre come rammenta Scalzone- «qualche "gippone" finì incendiato», evidentemente le bottiglie molotov avevano già fatto la loro comparsa.

La battaglia di Valle Giulia fu orgogliosamente considerata dal movimento come un punto d'onore, una dimostrazione del proprio coraggio e delle proprie possibilità rivoluzionarie. Paolo Pietrangeli compose allora una canzone destinata a diventare una sorta di inno degli studenti: si chiamava Valle Giulia, ma per tutti il vero titolo era la frase del ritornello, che diceva «Non siam scappati più».
Ma a Valle Giulia sono legati anche altri versi. Scandalizzando il mondo della cultura (e della sinistra), Pier Paolo Pasolini compose una poesia divenuta famosa. Era rivolta agli studenti, e diceva:

Adesso i giornalisti di tutto il mondo
(compresi quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di essere stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo
anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità. (...)

REPRESSIONE?

Da Valle Giulia in poi, i moti di piazza non furono più gli stessi. Cambiarono slogan e scritte murali. Gli studenti che all'inizio gridavano di volere «L'immaginazione al potere» e che minacciavano «Una risata vi seppellirà», passarono ai più bellicosi: «Na-na-na-na-na-NAPALM!» e «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi», oltre al militante «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung».
Cambiò anche l'atteggiamento di chi andava in corteo. I vecchi leader del Sessantotto, esclusi quelli «pentiti», sostengono che la repressione fu durissima, e che se nelle manifestazioni fecero la loro comparsa i servizi d'ordine armati fu solo per difendersi dagli attacchi brutali della polizia.
Sta di fatto però, ad esempio, che gli arrestati di Valle Giulia furono rilasciati subito dopo su pressione del governo, che diede incarico al rettore D'Avack di riaprire l'Università di Roma. Gli studenti che il 1° marzo avevano attaccato architettura per cacciare la polizia e far cessare la serrata avevano dunque ottenuto il loro scopo.
E fu sempre un rappresentante del governo, il nuovo ministro della Pubblica Istruzione Sullo, in dicembre, a condonare i provvedimenti disciplinari emessi dal liceo Mamiani contro i duecento studenti protagonisti delle occupazioni.
E sta di fatto anche che nel 1968 la reazione della polizia e del governo italiano fu di gran lunga meno dura di quanto avvenne in tutti gli altri Paesi del mondo.
Ad esempio, in Francia. Durante il «mitico maggio», gli studenti occuparono strade e piazze, innalzarono barricate, incendiarono centinaia di macchine. Solo durante gli scontri al Quartiere Latino, ci furono 123 feriti fra i poliziotti e 1500 fra i civili (compresi molti passanti). Ma quando De Gaulle decise che era venuto il momento di ripristinare l'ordine («La chienlit c'est finie», la carnevalata è finita, disse) a Parigi arrivarono i carri armati. Undici organizzazioni politiche furono messe al bando, 115 stranieri fra cui il tedesco Daniel Cohn-Bendit detto «Dani il rosso», capo del «Movimento 22 Marzo» e fra gli ispiratori della rivolta, furono espulsi; il Parlamento venne sciolto per indire nuove elezioni, che si rivelarono un trionfo per «il generale». In un mese di scontri, furono cinque i morti fra i manifestanti. Urlavano gli studenti francesi durante l'occupazione della Sorbona: «Ce n'est qu'un début, continuons le combat», non è che l'inizio, continueremo a combattere. Ma il loro Sessantotto durò poco più di trenta giorni.
E non durò molto di più in Germania o in Spagna, dove fu dichiarato lo stato d'emergenza. O a Città del Messico, dove il 3 ottobre in piazza delle Tre Culture la polizia aprì il fuoco con le mitragliatrici su diecimila studenti in manifestazione: i morti furono trecento. Il 20 gennaio 1969, a Tokio, la polizia entrò nell'università occupata e fece settecento arresti. E non parliamo di ciò che accadde a Praga durante la famosa «primavera». Solo in Italia il Sessantotto è durato più di dieci anni.
Certo sarebbe ingenuo spiegare la longevità della contestazione italiana con la non eccessiva durezza della risposta delle istituzioni; e sarebbe criminale dolersi del fatto che in Italia la polizia picchiò e sparò meno che altrove. Ma resta il fatto che da noi la risposta dello Stato alla contestazione fu meno dura che all'estero, e parlare di repressione è esagerato. Senz'altro le forze dell'ordine italiane reagirono in alcuni casi con durezza eccessiva o anche sciagurata: ma non nei primi mesi del 1968, non all'inizio della protesta.
E comunque non si può sostenere che quella del «movimento» fu solo una violenza di legittima difesa. Una volta ideologizzata e incanalata nei binari del marxismo-leninismo o del maoismo, la protesta non poté che diventare rivoluzionaria e, quindi, aggressiva e violenta.
Ma di questo parleremo più avanti.

CAPANNA E LE SUE MASSE

Torniamo al dopo-Valle Giulia. Il 10 e l'11 marzo all'Università Statale di Milano ci fu uno storico «Convegno nazionale degli studenti in lotta». «Storico» perché segnò un passaggio importante del movimento degli studenti. Ha scritto Guido Viale: «Il convegno di Milano è importante, non tanto per le cose che si dicono, ma perché con esso il movimento si pone dichiaratamente al di fuori del sistema politico italiano; fuori e contro la logica parlamentare e la mediazione di partiti e sindacati».
La relazione introduttiva venne tenuta dagli studenti milanesi di architettura, quella principale dai trentini. L'assemblea decise, per la prima volta, di intervenire politicamente sulla classe operaia, saltando i sindacati. Cominciò così l'epoca degli «studenti e operai uniti nella lotta».

Il 25 marzo fu un'altra giornata storica. Per la prima volta, fu Milano ad assistere a un grande scontro fra studenti e polizia. Accadde in largo Gemelli, di fronte all'ingresso dell'Università Cattolica.
Tre giorni prima la polizia aveva sgomberato lo stesso ateneo, la Statale di via Festa del Perdono e il Politecnico. Tutte e tre le università rimanevano temporaneamente chiuse.
Il pomeriggio del 25 gli studenti si piazzarono davanti all'ingresso della Cattolica. Li guidava lo studente Mario Capanna, già espulso dalla stessa università insieme con altri due studenti, Luciano Pero e Michelangelo Spada. Megafono in mano, Capanna intimò ai poliziotti di andarsene («Avete cinque minuti di tempo per sciogliervi») e avvisò il rettore che aveva un quarto d'ora per riaprire l'università: «Altrimenti provvediamo noi».
E infatti, trascorso inutilmente il quarto d'ora, gli studenti cercarono di sfondare i cancelli. Intervenne la polizia e furono scontri durissimi, al termine dei quali rimasero feriti 86 agenti e 30 studenti. Capanna e altri compagni vennero fermati e portati nelle celle di sicurezza della questura. Un fermo di poche ore: alle due di notte furono rimessi tutti in libertà, e la mattina dopo poterono partecipare a un'altra grande manifestazione, in piazza Duomo.

Ma chi era, questo Capanna? Protagonista dell'occupazione della Cattolica del 17 novembre '67 (prima protesta: per l'aumento delle tasse universitarie) e poi della Statale (l'ateneo pubblico, a Milano, fu tranquillo finché non arrivò lui), è forse considerato oggi l'uomo-simbolo di quegli anni, che lui chiama «formidabili». E' ed era dotato di buona cultura, ma non fu uno dei cervelli del movimento: da questo punto di vista, altri leader del Sessantotto gli furono senz'altro superiori. Ad esempio Guido Viale, Mauro Rostagno e soprattutto Adriano Sofri, studente della Normale di Pisa e futuro numero uno di Lotta continua.
Capanna, tuttavia, era dotato di un carisma particolare, adattissimo, per quegli anni, a trascinare gli studenti. O, come amava dire lui, «le masse». Barba, kefiyeh palestinese al collo, mantello nero e immancabile megafono in mano, era il vero «capo» delle assemblee, anche se ha sempre rifiutato questa etichetta. Parlava con la sua «bella voce fonda, perentoria e scandita, nella quale par di sentire non solo i punti, non solo le virgole, ma anche i punti e virgola», ha scritto Camilla Cederna riprendendo un'idea di Oreste del Buono. E la gente lo seguiva.
Veniva da Badia Petroia, 476 abitanti, provincia di Perugia. L'agiografia ufficiale lo voleva proveniente da una famiglia poverissima, orfano di un fabbro e fratello di un meccanico di biciclette. In realtà il padre, morto quando lui aveva sette anni, era un meccanico, e la famiglia era proprietaria di un bar, di un'officina per la riparazione di auto e trattori e di una stazione di servizio della Shell.
Alla Cattolica, di Milano arrivò con due lettere di raccomandazione: una del vescovo monsignor Luigi Cicuttini, l'altra del parroco del suo paese, don Giuseppe Bologni. «Era il migliore della parrocchia,» raccontò don Giuseppe al «Corriere d'Informazione» in un'intervista nel 1973, «una fede come pochi altri. Faceva la comunione tutte le domeniche e spesso anche nei giorni feriali, era felice di servire la messa. Si confessava da me e dopo passavamo pomeriggi interi a parlare all'oratorio.»
Una volta arrivato a Milano, dal cattolicesimo passò presto al dissenso cattolico; poi alle massime di Mao («Ribellarsi è giusto»). Ripeteva instancabilmente: «Sono le masse popolari che fanno la storia e non gli uomini e i duci». Dallo Stato, riceveva il presalario: 360 mila lire (di allora) all'anno.
Capanna ha ricordato e raccontato molte volte le sue lotte di quegli anni. Ma più che il linguaggio delle rievocazioni vale quello immediato, diretto, dell'epoca. Ecco cosa pensava e diceva allora Capanna sull'università e sul movimento degli studenti. Sono stralci di un'intervista rilasciata alla «Domenica del Corriere» dell'11 marzo 1969:
«Il movimento nasce non tanto come movimento di contestazione universitaria, per un miglioramento della scuola, bensì come un movimento che dalla scuola prende consapevolezza dei problemi sociali, di sfruttamento e di alienazione che ci sono (...).
«Noi diciamo che (l'università) è classista per due motivi: primo perché esclude da sé la stragrande maggioranza della popolazione giovanile (nel sistema sociale in cui viviamo l'85 per cento della popolazione universitaria proviene dalle classi agiate...); secondo perché alleva in modo classista quella parte di studenti che vi entra. Vi si insegna, infatti, soprattutto con criteri atti ad imparare a ubbidire oggi per comandare domani. L'esame è una forma di imposizione, lo stesso la lezione cattedratica».
Ed ecco la soluzione che Capanna proponeva:
«Una radicale trasformazione dell'università è impossibile senza un analogo e contemporaneo radicale mutamento dei sistema sociale: ecco il binomio "contestazione globale", e subito dopo rivoluzione. Cioè rovesciamento dei rapporti di potere, cioè abbattimento del capitalismo. Il problema di fondo è uno solo, cioè fare la rivoluzione, in quanto essa è l'unico strumento valido per mutare radicalmente i rapporti di potere. (...) Gli studenti non potranno mai farla da soli, ma solo insieme con gli operai, con i contadini, con il ceto medio che si sta proletarizzando. (...)
«Auspichiamo una società di tipo dichiaratamente socialista, ove per socialismo non si intenda che ci riferiamo a Paesi oggi esistenti, i cosiddetti Paesi socialisti dell'Est europeo. (...) Siamo per un socialismo che riusciamo a definire in alcuni suoi elementi abbastanza generici. La definizione concreta... di esercizio del potere, uscirà nel corso della lotta.(...) Il marxismo, nella sua accezione più vasta, da Marx a Mao fino a Fidel Castro anche, è a tutt'oggi la teoria più scientifica, più plausibile, più realistica, se vogliamo la più semplice, per chi voglia rendersi ragione fino in fondo dei complessi problemi della società attuale».

IL PCI E I NIPOTI RIBELLI

Per creare la società comunista Capanna, così come l'intero movimento, non contava certo sul Pci.
I giovani, che pure accettavano il marxismo o le sue rielaborazioni, vedevano nel grande, vecchio Partito comunista una sorta di relitto storico o, nel migliore dei casi, uno strumento inadeguato alle loro lotte.
Diffusa era poi la convinzione che il Pci avesse tradito gli ideali della Resistenza, rinunciando alla promessa rivoluzione che avrebbe portato il socialismo in Italia. Il Pci, dicevano quelli del movimento, si era convertito al riformismo, e anzi era ormai inquinato da una mentalità borghese.
E il Pci, come reagì? La storia di quel periodo che noi chiamiamo Sessantotto e che abbraccia dieci anni, è una storia di incomprensioni e spesso di scontri violenti fra il Partito comunista e i giovani dei vari movimenti extraparlamentari. Ma all'inizio della contestazione a Botteghe Oscure quegli «scalmanati» erano visti di buon occhio, dato che la protesta era comunque «di sinistra», e bisognava cercare di cavalcarla. I giovani vennero blanditi, nella convinzione che poi, con un «lavoro politico», sarebbero stati completamente ricondotti nella migliore tradizione del partito di Gramsci e di Togliatti.
Scrisse il segretario nazionale Luigi Longo su «Rinascita» del 3 maggio 1968: «Io non considero affatto come un arbitrio, come un qualche cosa che non spetta agli studenti in quanto tali, passare dalle considerazioni dei loro problemi più specifici a quelli più generali della rivoluzione italiana. Al contrario, questa estensione del proprio campo di indagine e di lotta è del tutto naturale, da salutare e da incoraggiare».
Ancora alla fine del 1968, dopo i gravissimi incidenti alla Bussola di Viareggio (di cui parleremo più avanti), il Pci aveva preso le difese degli estremisti, tanto da meritarsi un rimbrotto addirittura dall'«Avanti!»: «Non li invitiamo [i comunisti] a dire che cosa pensino della politica di sistematica persecuzione che in molti Paesi comunisti, e nell'Urss in primo luogo, si va svolgendo contro i movimenti giovanili di protesta. Ci limitiamo a domandare loro se essi credono sul serio che la contestazione giovanile abbia sempre e comunque ragione, quali ne siano le forme, i modi e gli obiettivi ... » scrisse il quotidiano socialista.

Ma all'interno del Pci c'era una spaccatura sulla posizione da prendere. Una buona parte, forte anche del fatto che il Pc francese aveva subito preso le distanze dagli estremisti di maggio, volle esprimere chiaramente la propria disapprovazione nei confronti dei «sessantottini».
A rendere palese questa spaccatura fu Giorgio Amendola, esponente dell'ala moderata del partito, con un articolo pubblicato su «Rinascita» del 7 giugno 1968 e intitolato Necessità della lotta sui due fronti.
«Bisogna notare» scrisse Amendola «una nostra debolezza nel condurre una lotta coerente contro le posizioni estremiste e anarchiche affiorate nel movimento studentesco, e di qui diffuse anche in certi settori del movimento operaio. In realtà tutto il nostro fronte di sinistra è restato a lungo scoperto, per il modo debole e incoerente con il quale viene condotta la lotta sui due fronti. Ora la lotta sui due fronti è una necessità permanente del movimento comunista. La lotta contro l'opportunismo socialdemocratico è efficace se essa viene accompagnata da un'azione coerente contro il settarismo, lo schematismo e l'estremismo.»
Amendola contestava «la tesi, che solletica la vanità di certi strati studenteschi, di una pretesa iniziativa rivoluzionaria che spetterebbe al movimento studentesco», e sosteneva che il Pci doveva «richiamare e valorizzare, davanti a un rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche, il patrimonio ideale che abbiamo accumulato in decenni di dure esperienze. (...) Già Lenin aveva ammonito a non giocare con l'insurrezione!».
Né il pur moderato Amendola accettava -a proposito di Lenin- la posizione dei sessantottini sul socialismo reale dell'Urss: «Ora v'è un tratto che lega le varie posizioni estremiste ed anarchiche: ed è, più che la critica, che a volte può essere doverosa, la polemica astiosa e calunniosa antisovietica. Quando a Pechino la manifestazione dei giovani in solidarietà con gli studenti francesi si muove dietro uno striscione nel quale si dichiara la volontà di lottare "contro gli Stati Uniti e contro l'Unione Sovietica", ebbene si compie un'azione assurda, e noi non possiamo permettere che senza una nostra resistenza simili calunnie penetrino nel movimento giovanile, circolino fra i lavoratori, creino nuovi motivi di confusione e di divisione».
Amendola chiuse l'intervento su «Rinascita» sostenendo che la funzione del Pci era quella di «indirizzare questa forza in un senso giusto». La funzione di guidare la protesta dei giovani, diceva Amendola, «spetta, storicamente, al Partito comunista».
Fu giudicato incauto, ai vertici del Pci, quell'intervento di Amendola, che si poneva a muso duro di fronte agli studenti. Passò solo una settimana e «Rinascita» diede al segretario Longo l'opportunità di una replica.
«Il nostro Comitato centrale» disse Longo «ha già definito chiaramente la posizione da prendere nei confronti del movimento studentesco: considerarlo come un momento e un aspetto della lotta e del movimento anticapitalistici, di cui deve essere apprezzato l'apporto che può dare e l'autonomia di organizzazione e di iniziativa, che deve essere rispettata e che costituisce la condizione di sviluppo del movimento stesso».
Longo apriva il «dialogo» (parola sua) con il movimento. O meglio, reagiva duramente a chi, all'interno del suo partito, questo dialogo voleva condurlo stando dalla parte del maestro pronto a bacchettare sulle dita gli alunni.
Più tardi il Pci cercò di negare l'appoggio dato al movimento, e di far dimenticare i suoi tanti tentativi di blandirlo. Intervistato dal «Corriere della Sera» il 10 gennaio 1993, l'ex leader del movimento studentesco romano ed ex fondatore di Potere operaio Franco Piperno, quando gli fu chiesto se il Pci, almeno in una prima fase, offrì aiuto al movimento, rispose:
«Altroché. Ricordo che una volta al Comitato d'agitazione viene Occhetto e fa un discorso. E ricordo che Pajetta critica parecchio la nostra espulsione. All'inizio ci mettono a disposizione la sede della Federazione per ciclostilare, per le riunioni. Ci danno l'assistenza legale in caso d'arresto. Anche i radicali ci aiutano, ma non c'è paragone in quantità».

DA VALDAGNO AD AVOLA

Le maniere forti, nel 1968, la polizia le usò, molto più che con gli studenti, durante le manifestazioni operaie.
La prima lotta operaia del Sessantotto (che nelle fabbriche comincerà nel 1969, soprattutto con l'autunno caldo) non scoppiò in una grande metropoli, non scoppiò nel tradizionale triangolo industriale Torino-Milano-Genova, ma sulle colline venete, a Valdagno. Alla periferia, dunque, dell'impero industriale.
A promuoverla furono gli operai della Marzotto, industria tessile fondata nel 1836. Le cose erano sempre andate bene fino a quando, per citare ancora lo storico di sinistra Paul Ginsborg, «la famiglia Marzotto l'aveva diretta con criteri paternalistici di stampo cattolico». Ma poi, scrive ancora Ginsborg, «a questa lunga tradizione cominciò ad affiancarsi, nel corso degli anni '60, una profonda ristrutturazione dell'organizzazione del lavoro. Come avvenne in tante altre fabbriche, i ritmi di lavoro crebbero dopo l'introduzione dell'analisi tempi e metodi, i premi del cottimo divennero meno accessibili, i salari reali diminuirono e l'amministrazione minacciò circa 400 licenziamenti».
Al rischio di perdere il posto, gli operai reagirono il 19 aprile con una grande manifestazione: quattromila dimostranti, in maggioranza donne, attraversarono Valdagno in corteo e abbatterono la statua del conte Gaetano Marzotto. La polizia intervenne arrestando quarantadue dimostranti. Il consiglio comunale di Valdagno -compresa la Dc, che aveva la maggioranza- chiese l'immediata scarcerazione degli operai arrestati e l'intervento del governo per salvare i posti di lavoro in pericolo.

Molto più gravi furono i fatti di Avola, provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre si svolse una manifestazione di diecimila braccianti, che chiedevano il rispetto, da parte degli agrari, delle norme previste dal contratto di lavoro. I dimostranti bloccarono le strade d'accesso alla città. La polizia, arrivata in forze da Catania e da Siracusa, sparò uccidendo due braccianti, Giuseppe Scibilia di quarantasette anni e Angelo Sigona di ventotto. Il giorno dopo, in tutta Italia, cortei di protesta e di condanna.
Ma i fatti di Avola e Valdagno sembrano inseriti, più che nel Sessantotto, nel contesto di una tradizione precedente, quella degli interventi, appunto, della polizia durante le manifestazioni operaie. Sembrano più il retaggio di un vecchio modo di rispondere alle istanze degli operai: un modo a cui non era ovviamente estraneo l'atteggiamento di una buona parte dell'imprenditoria italiana, che negli anni Sessanta aveva spesso peccato di ingordigia. Non a caso Mario Capanna, commentando a distanza di vent'anni i fatti di Avola, ha scritto che gli sembrò, allora, che «si fosse tornati ai tempi bui di Scelba». A qualcosa, insomma, del passato.

L'ASSALTO AL «CORRIERE DELLA SERA»

In pieno stile «sessantottino», e anzi in pieno stile di quella che sarebbe poi stata la degenerazione del Sessantotto, fu invece -il 7 giugno- l'assalto alla sede del «Corriere della Sera».
Il «Corriere», che dal mese di febbraio era diretto da Giovanni Spadolini, era ancora il tradizionale giornale della borghesia milanese, oltre che l'unico vero quotidiano a diffusione nazionale. Non aveva accolto con molta simpatia i moti di piazza; così come, durante la precedente gestione (direttore: Alfio Russo), non aveva guardato con simpatia ai primi contestatori: gli «hippy», i «beat», i «figli dei fiori», giovani ancora non ideologizzati che il «Corriere» chiamava, con un certo disprezzo, «capelloni».
All'inizio di giugno i nuovi contestatori, che avevano già sostituito i vecchi slogan «Fate l'amore non fate la guerra» e «Dipingi di giallo il tuo poliziotto» con altri motti meno innocui, decisero di impedire, per un giorno, l'uscita del «Corriere». Allora le rotative erano ancora nella stessa sede della redazione, nella centralissima via Solferino: e da lì, di notte, partivano i camion carichi di giornali da portare alle edicole e alle stazioni ferroviarie.
Il piano era quello di boicottare la spedizione del «Corriere». Scattò nella notte fra il 7 e l'8 giugno: furono ore di guerriglia, e si conclusero con undici arresti e 250 fermi.
Uno dei protagonisti dell'assalto al «Corriere», Andrea Valcarenghi, nel suo libro Underground: a pugno chiuso!, ha spiegato che l'azione fu decisa durante una riunione ristretta, una dozzina di persone in tutto, e ha aggiunto che la notizia era comunque trapelata, fino ad arrivare alle orecchie della polizia, che ebbe tempo di preparare la controffensiva. Si decise così di tenere segrete almeno le modalità dell'attacco, e di modificare il classico schema raduno-corteo-occupazione. Da piazza Duomo partirono verso via Solferino circa tremila studenti.
«Dovevamo avere tutto: catenelle per unire le auto in mezzo alla strada, razzi di segnalazione, biglie per ostacolare le cariche dei pi-esse» ha raccontato Valcarenghi.
«Alle 23.20 un razzo luminoso parte da largo Treves e scoppia in cielo: è il segnale. In cinque o sei incominciamo a mettere le auto in mezzo alla strada. (...) In qualche minuto la barricata è fatta: cinque auto incatenate per i paraurti e noi dietro a preparare le bottiglie. L'ordine era di non tirare ai poliziotti. Le bottiglie dovevano servire a incendiare le barricate per ritardare le cariche dei pi-esse, coprirci la fuga e avere il tempo di ricostruire una seconda barricata con le auto più indietro e così via. Da via Solferino a tutto il centro, Milano doveva essere messa a ferro e fuoco, ma il "Corriere" non sarebbe uscito.
«Ecco la carica: (...) si vedono avanzare i "carruba" roteando le bandoliere. Sono in pochi, una cinquantina e forse è anche per questo che prima esitavano. Da dietro le auto parte una raffica di porfidi sbucati da chissà dove. (...)
«Fino alle quattro del mattino abbiamo impegnato il battaglione "Padova", il terzo celere di Alessandria, insomma i migliori, quelli specializzati nel pestaggio degli operai. Certo non è stata una vittoria completa. Il "Corriere della Sera" ricoperto di teloni di garza plastica antisasso, che la direzione aveva acquistato dopo la dichiarazione di guerra, non era stato conquistato. E i giornali, seppure su camioncini resi anonimi da una mano di vernice sulla scritta "Corriere della Sera", uscirono alle cinque del mattino... Ma almeno quattro ore di ritardo eravamo riusciti a procurargliele.»

CAVALLERO BANDITO ROSSO

L'esaltazione della guerriglia e della violenza rivoluzionaria stavano dunque già contagiando il movimento degli studenti. E non solo quello. Ne è una dimostrazione il «caso Cavallero».
Pietro Cavallero -ex operaio della «barriera» torinese ed ex dirigente di una sezione del Pci- insieme con i complici Adriano Rovoletto, Sante Notarnicola e il giovanissimo Donato Lopez, il 25 settembre 1967 aveva guidato la più sanguinosa rapina del dopoguerra, un massacro che poi ispirò un famoso film, Banditi a Milano.
Cavallero e la sua banda avevano portato a termine l'ennesimo «colpo» della loro carriera: a un'agenzia del Banco di Napoli nei pressi della Fiera. Nel tentativo di sfuggire alla polizia, i banditi fecero fuoco sulla folla, uccidendo quattro persone e ferendone altre venti. Rovoletto, a sua volta ferito, fu arrestato immediatamente; Lopez fu catturato il giorno seguente, Cavallero e Notarnicola il 3 ottobre.
Sui giornali Cavallero fu descritto come «l'assassino che ride», perché si diceva che «sghignazzava» quando sparava. Vero o no che fosse, certo è comunque che la sua banda aveva all'«attivo» numerose rapine, dal '64 in poi, con un omicidio (il 16 gennaio 1967 uccise, sempre in una rapina, il dottor Giuseppe Gaiottino, medico condotto di Ciriè) e diversi ferimenti. Mai, però, si era dato alle imprese della banda Cavallero un significato politico.
Ma il 4 giugno 1968, in pieno clima di «contestazione globale», davanti alla Corte d'assise che processava lui e i suoi complici, Pietro Cavallero fece pubblica dichiarazione di fede nel comunismo, e disse che le rapine servivano per finanziare la rivoluzione.
«Ero giunto alla determinazione» disse Cavallero ai giudici «di attaccare le banche per raccogliere fondi per le future azioni e, nello stesso tempo, compivo un attacco al capitale, al servizio più chiaro del capitalismo finanziario e a quelle forze dell'apparato repressivo, poliziesco, che è al servizio del sistema, per dimostrarne l'impotenza.»
E ancora: «C'era la necessità assoluta di portare la nostra sfida a quelli che consideravo i miei avversari: la polizia e il capitalismo».
Cavallero, Notarnicola e Rovoletto furono condannati all'ergastolo l'8 luglio 1968. Alla lettura della sentenza scattarono in piedi intonando un canto anarchico.
Negli anni successivi Pietro Cavallero ha manifestato più volte -anche con i fatti- il proprio pentimento.

UOVA ALLA SCALA, PIOMBO ALLA BUSSOLA

Due manifestazioni chiusero il 1968: la più famosa è quella organizzata in piazza Scala a Milano dal Movimento studentesco della Statale la sera del 7 dicembre, festa di Sant'Ambrogio, patrono della città; l'altra, meno ricordata nelle rievocazioni del Sessantotto, ma maggiormente foriera di conseguenze a causa del suo tragico epilogo, è quella della notte di Capodanno alla Bussola di Viareggio.
La «prima» della Scala era un'occasione da non perdere, per Mario Capanna e i giovani universitari «impegnati». Appena cinque giorni dopo i fatti di Avola, tutta la Milano-bene si sarebbe riversata al tempio della lirica più per far sfoggio di pellicce e gioielli che non per gustare il Don Carlos di Giuseppe Verdi. infatti i veri melomani, quella sera, erano ben pochi: come sempre accade la sera della «prima».
In piazza Scala si diedero appuntamento tre-quattrocento studenti («Una miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione» commentò poi Capanna) sfidando freddo e umidità. Ai primi arrivi dal gruppo degli studenti si alzò un cartello: «I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento». Passarono solo pochi attimi, e cominciò il lancio di uova e cachi: le cronache dell'epoca assicurano che furono molti i capi di sartoria rovinati, se non per sempre, almeno per la sera per cui erano stati concepiti.
La polizia, pure presente in forze, non reagì. Capanna attribuisce la mancata carica alla sua capacità di persuasione. Impugnando il solito megafono, il leader del Movimento studentesco aveva arringato i poliziotti, dicendo che non ce l'avevano con loro, e che anzi volevano farli riflettere sul fatto che, in cambio di un misero stipendio, dovevano stare lì al freddo a difendere i ricchi, «quelli che vi hanno costretti ad abbandonare il paese e che affamano le vostre famiglie».
«La maggior parte di voi viene dal Sud» aveva urlato Capanna «e sappiamo quanto la vostra vita sia difficile. Avete dovuto vestire la divisa per il pane. Cinque giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, dove magari c'erano i vostri padri o i vostri fratelli. Lottiamo insieme, e insieme con i lavoratori, per avere giustizia».
Capanna giura che un poliziotto andò ad abbracciarlo piangendo e confidandogli «Sono di Lentini», un paese vicino ad Avola. Andrea Valcarenghi, pure presente, ha scritto che «non si capiva bene fino a che punto fosse pioggia quel bagnato che inumidiva gli occhi di molti agenti».
Fatto sta che la manifestazione si concluse senza incidenti, e che quella contestazione della «prima» della Scala è rimasta nella storia del Sessantotto come uno dei momenti di maggior consenso o quanto meno di minor dissenso, raggiunti dal movimento. Indro Montanelli e Mario Cervi, certo non sospettabili di simpatie extraparlamentari e fortemente critici verso il Sessantotto, nel loro libro L'Italia degli anni di piombo hanno attribuito «una connotazione goliardica» al «lancio di pomodori e uova contro gli spettatori che s'avviavano alla rappresentazione inaugurale della Scala, il giorno di Sant'Ambrogio del 1968». «Lo scandalo» hanno scritto Montanelli e Cervi «fu grande, ma qualcuno poté trovare l'iniziativa divertente, anche se aveva colpito uno dei simboli sacri di Milano».
Senza incidenti si chiuse anche l'ultima iniziativa di Capanna prima della fine del 1968: il sit-in davanti alla Rinascente di Milano, per protestare contro le eccessive spese natalizie, dettate dai «bisogni indotti» dalla mentalità capitalistica.

Molto peggio, purtroppo, andarono le cose alla Bussola di Viareggio.
Lo scopo della manifestazione, indetta da il Potere Operaio (organizzazione diversa dal Potere operaio degli anni successivi), era lo stesso: contestare lo spreco di denaro che si faceva per una mondanità qual era -al pari della «prima» della Scala- il veglione di Capodanno.
La Bussola era ed è un famoso locale notturno. La zona in cui sorge aveva allora particolare rilevanza «politica», essendo non lontana da Pisa, centro attivissimo della contestazione anche e soprattutto per la presenza, appunto, de Il Potere Operaio, uno dei primi gruppi a tentare di stabilire contatti fra scuole e fabbriche. Co-fondatore de Il Potere Operaio era Adriano Sofri. Sempre a Pisa uscì in quegli anni una rivista che ebbe un ruolo non marginale, «Nuovo Impegno», diretta dall'ex redattore dell'«Avanti» Luciano Della Mea e dagli assistenti della Normale Umberto Carpi e Romano Luperini. E quella è anche la zona dove dal 1966 operavano i primi «cinesi» d'Italia, Fosco Dinucci e Osvaldo Pesce (a Livorno), e da sempre gli anarchici (a Carrara).
La contestazione alla Bussola era stata ampiamente annunciata a Pisa e in molti centri della Versilia con centinaia di volantini. «Gli sfruttatori, i potenti, i parassiti (sono) pronti a sfoggiare la ricchezza accumulata sulla miseria e sul lavoro altrui, a sprecare in una sera quanto basta a migliaia di famiglie per vivere un anno intero» era scritto sul volantino de Il Potere Operaio del 29 dicembre 1968. E su quello del giorno dopo si esortava: «Ebbene, compagni, festeggiamoli questi nostri padroni, andiamo tutti alla Bussola, alla Capannina, da Oliviero, a vederli sfilare con le loro signore col vestito nuovo da mezzo milione, a consumare una cena da 50 mila lire, annaffiata da 50 mila lire di champagne. Ai grassi padroni e alle loro donne impellicciate vogliamo quest'anno porgere personalmente i nostri auguri. Sarà solo un piccolo simbolico omaggio ortofrutticolo, per prepararli a un 1969 denso di ben altre emozioni».
Ma non fu, come alla Scala, solo «un piccolo omaggio ortofrutticolo». Gli scontri furono durissimi: da una parte circa cinquecento dimostranti, dall'altra cinquanta carabinieri e cinque poliziotti. Finì con cinquantacinque fermi, con otto automezzi delle forze dell'ordine bruciati o danneggiati, con numerose auto di privati rovesciate, con barricate, lanci di sassi. Soprattutto, con una pallottola nella schiena dello studente sedicenne Soriano Ceccanti, di Pisa, che rimase paralizzato.
Dicono le cronache di allora che i «contestatori» avevano cominciato a lanciare ortaggi e uova contro i clienti della Bussola, e che i carabinieri -«in normale assetto, cioè senza elmetti e senza tascapane per le bombe lacrimogene»- erano rimasti ai margini, senza intervenire. Le cose precipitarono quando i dimostranti aggredirono un fotografo e i due carabinieri intervenuti in suo soccorso. Lì cominciò tutto: il lancio di pietre, le vetrate del locale in frantumi, le auto e le barche incendiate con le bottiglie molotov, le barricate. E infine la pallottola che colpì Soriano Ceccanti. Chi fu, a sparare? Il giorno dopo il questore di Lucca Mario Bernucci e il comandante del gruppo dei carabinieri, colonnello Giulio Caroppo, diffusero un comunicato per assicurare: «Le forze dell'ordine non hanno fatto uso delle armi». Caroppo aggiunse che, la sera stessa, appena saputo del ferimento di Ceccanti, ordinò un'ispezione sulle armi di tutti i carabinieri presenti alla Bussola: «Le dotazioni di cartucce erano intatte, le canne non rivelavano tracce di polvere da sparo». «Dalle testimonianze raccolte, potemmo appurare che parecchi colpi di arma da fuoco erano stati esplosi invece dai manifestanti» aggiunse.
Una testimonianza in tal senso la diede il 1° aprile 1969, in tribunale, il benzinaio Roberto Calistri, che gestiva una pompa di fianco alla Bussola. Disse che un paio di colpi di arma da fuoco colpirono il suo chiostro: «Non ho visto chi avesse sparato, ma sono sicuro che i colpi venivano dalla barricata». E anche Sergio Bernardini, proprietario della Bussola, disse di aver visto sparare dalla parte dei manifestanti, aggiungendo però di ritenere che fossero «colpi a salve».
Un altro testimone, l'aiutante ufficiale giudiziario Bigicchi, disse invece di aver visto «un agente della polizia stradale trarre dalla fondina la rivoltella e fare fuoco in aria, cinque o sei volte. Altri colpi, una trentina, furono esplosi dai suoi compagni sul piazzale del distributore di benzina accanto alla Bussola». Gli agenti della stradale smentirono seccamente. Altre persone presenti alla manifestazione si dissero invece certe che a sparare furono le forze dell'ordine.
Nel settembre del 1971 Francesco Tamilia, giudice istruttore del tribunale di Lucca, concluse l'inchiesta sul ferimento di Soriano Ceccanti dichiarando il «non doversi procedere per essere rimasti ignoti coloro che hanno commesso il reato».
«Fin dal primo momento» scrisse il giudice Tamilia nella sentenza «le indagini per accertare la dinamica dei fatti e l'identificazione del responsabile del ferimento del Ceccanti si presentavano irte di difficoltà.
«Sta di fatto che davanti e nei pressi della Bussola» si legge ancora nella sentenza «vi erano diverse centinaia di persone, per cui se fosse vero quanto dichiarato da qualche teste, e cioè che i carabinieri spararono molti colpi in direzione dei manifestanti impugnando le pistole all'altezza della vita e con traiettoria parallela al terreno, non vi è dubbio che ci saremmo dovuti necessariamente trovare in presenza di una strage e non di fronte al ferimento del povero Ceccanti: costui, è rimasto accertato, si trovava nella prima barricata, quella più a nord, unitamente ad altri manifestanti mentre la polizia era, per dichiarazione dello stesso Ceccanti e di altri, a una distanza di circa quaranta metri.
«La distanza pertanto in cui si trovavano le forze di polizia, la circostanza che pur nelle sue contraddizioni la stessa parte lesa non aveva formulato accuse specifiche e l'attestazione ufficiale che nell'occasione non erano state usate armi in dotazione, come da controllo effettuato, portavano a escludere quale possibile autore del fatto un appartenente alle forze dislocate per l'ordine» concluse il giudice.

Gli incidenti della Bussola diedero a molti politici l'occasione per intraprendere una campagna che, negli anni successivi, sarebbe diventata un cavallo di battaglia delle sinistre: quella sul disarmo della polizia.
Comunisti e socialproletari (c'era, allora, il Psiup) attribuirono subito alle forze dell'ordine, senza alcuna esitazione, il ferimento di Ceccanti, organizzarono manifestazioni di protesta e chiesero la convocazione anticipata delle Camere per discutere, appunto, un loro progetto finalizzato a togliere le armi alla polizia. Anche il sindacato a maggioranza comunista, la Cgil, in un ordine del giorno approvato all'unanimità dal suo direttivo, espresse «la più ferma condanna per i violenti interventi della polizia che si verificano in occasione di manifestazioni sindacali e studentesche», sollecitando il divieto alle forze dell'ordine «di portare armi da fuoco durante le manifestazioni democratiche». Alle posizioni della sinistra si allineò una parte dei deputati democristiani: Ines Boffardi si disse convinta che la polizia, durante le manifestazioni per conflitti di lavoro, doveva presentarsi disarmata. E qualche settimana dopo i fatti di Viareggio fu proprio un gruppo di deputati della Dc a presentare una proposta di legge per disarmare la forza pubblica durante le manifestazioni.
Curioso il fatto che queste istanze risultavano tutt'altro che gradite agli estremisti di sinistra. A chi, cioè, in piazza a fare le manifestazioni ci andava sul serio, e sempre più spesso.
Comunisti, socialproletari e una parte dei democristiani vedevano i giovani dimostranti come vittime della violenza della polizia, come soggetti passivi costretti ad accettare gli scontri; e ritenevano che, disarmando la polizia, tutto sarebbe poi filato liscio. Ma gli estremisti non erano d'accordo. Proprio Il Potere Operaio di Pisa, quello che organizzò la manifestazione della Bussola, alla proposta di togliere le armi alla polizia rispose con un documento in cui si affermava: «... consideriamo opportunista e controrivoluzionaria la richiesta di disarmo della polizia, e quella di affidare ai sindaci le funzioni di tutela dell'ordine pubblico. Lo Stato borghese userà ancora, almeno sul tempo breve, la violenza armata per reprimere i movimenti di massa. E l'apparente disarmo della polizia... richiederà come contropartita necessaria il disarmo politico e ideologico delle masse, che le proposte sbagliate di oggi servono a preparare, e un controllo molto più rigido sui loro movimenti a livello economico e sociale, ottenuto magari attraverso la diretta collaborazione e il definitivo inserimento delle cosiddette organizzazioni operaie nelle istituzioni dello Stato borghese.
«A questa prospettiva di disarmo» proseguiva il documento de Il Potere Operaio «le avanguardie rivoluzionarie operaie e di base socialista devono opporsi oggi unite alle masse, evitando la sconfitta delle lotte operaie e studentesche degli ultimi anni ... »
Il Potere Operaio non sembrava quindi affatto disposto a una pace disarmata con lo Stato, e scriveva che l'obiettivo era «contribuire alla formazione di nuovi organismi politici di massa e rivoluzionari».

Sembra quasi un segno del destino il fatto che gli incidenti della Bussola avvennero nella notte di Capodanno, a cavallo quindi fra il 1968 e il 1969. La violenza degli scontri, e il loro tragico epilogo, appartengono infatti più agli anni successivi che non alla prima fase della stagione della contestazione. Per la prima volta si sparò: durante tutto il 1968 (Avola, come abbiamo visto, nulla ha a che fare con la protesta studentesca) né la polizia né gli extraparlamentari, in Italia, erano arrivati a tanto. Se a Valle Giulia si inaugurò la stagione della violenza, quella della Bussola fu la prima manifestazione a concludersi in dramma. Come sempre più frequentemente avverrà negli anni seguenti.


III - I CATTOLICI ALLA RISCOSSA

In Italia furono i cattolici i primi a guidare la rivolta.
Cattolici i primi due atenei occupati nell'anno accademico '67 - 68: a Trento e a Milano.
Cattolici, o perlomeno di formazione cattolica, tutti i primi leader della contestazione: Renato Curcio, Marco Boato, Mauro Rostagno, Nello Casalini (entrato poi nell'ordine dei Frati Minori), Francesco Schianchi, Luciano Pero. Lo stesso Mario Capanna: scrivono Primo Moroni e Nanni Balestrini che nel '67 Capanna preparò «un trattato di 70 cartelle per convincere la propria ragazza che i rapporti sessuali prematrimoniali sono compatibili con l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino».
E ancora, cattoliche le origini di «Lavoro Politico», rivista nata nel '62 a Verona su iniziativa di Walter Peruzzi e punto di riferimento per il movimento trentino.
Ed è pubblicato addirittura da un prete, don Lorenzo Milani, il libro più letto nel 1968 durante le occupazioni: Lettera a una professoressa, scritto dagli alunni della scuola di Barbiana di Vicchio Mugello, in provincia di Firenze. Questo libro, ha sostenuto l'ex leader di Lotta continua Guido Viale, «eserciterà un'influenza decisiva durante tutti gli anni del movimento». I professori Carlo Oliva e Aloisio Rendi, dopo essersi definiti «militanti radicali» ed «extraparlamentari», scrissero allora che il libro di don Milani era, «purtroppo», «l'unico manifesto di lotta contestativa nel mondo politico italiano».

IL «MANIFESTO» DI DON MILANI

Quando Lettera a una professoressa cominciava a girare fra le università occupate e ad assurgere al rango di libro sacro della contestazione studentesca, il suo ispiratore non c'era già più.
Don Milani era morto il 26 giugno 1967, a soli quarantaquattro anni. Diventò subito una sorta di mito delle sinistre, che gli affibbiarono tutti gli stereotipi riservati ai sacerdoti che si mettono contro la Chiesa: «prete scomodo», «prete ribelle» e soprattutto «profeta».
Della tensione religiosa, della sete di assoluto che don Milani certamente aveva (era un ebreo battezzato durante le leggi razziali, un non credente che all'improvviso entrò in seminario con tutto il radicalismo evangelico del convertito), alle sinistre non importava pressoché nulla. Importavano invece gli attacchi che questo prete aveva portato alla gerarchia della Chiesa. Tutto ciò che don Milani diceva e scriveva veniva puntualmente sfruttato dal Pci, fino a consolidare un rapporto imbarazzante. Nel 1965 papa Paolo VI, nel mandare un'offerta in denaro alla scuola di Barbiana, pregò il latore di «far notare delicatamente a don Lorenzo l'inopportunità di scrivere articoli su "Rinascita"», rivista, appunto, del Pci.
A Barbiana, don Milani era arrivato nel 1954, dopo essere stato allontanato da San Donato di Calenzano. Un trasferimento che ebbe un peso determinante nella sua posizione nei confronti della Chiesa. La Curia, disse, «è un ente che vive delle sole informazioni di calunniatori, spie, adulatori». All'arcivescovo di Firenze, il cardinale Ermenegildo Florit, riservò accuse pesantissime («Un deficiente indemoniato»). Scrisse nel 1964 al suo confessore, don Bensi: «Lei, poi, sa bene che il comportamento della Curia verso di me... è semplicemente criminale. (...) Il vescovo e il vicario non sono atei come pare, ma solo pazzi, non son venduti come pare, ma solo deficienti».
Anche il patriarca di Venezia Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, reagì con preoccupazione alle iniziative di questo sacerdote destinato a diventare uno degli ispiratori della rivolta studentesca. Nel 1958, quando uscì Esperienze pastorali, il primo libro di don Milani, Angelo Roncalli scrisse al vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi: «Ha letto, Eccellenza, la "Civiltà Cattolica" del 20 settembre circa il volume Esperienze Pastorali? L'autore del libro deve essere un pazzo scappato dal manicomio. Guai se si incontra con un confratello della sua specie. Ho veduto anche il libro. Cose incredibili».

E così, da questo prete sceso in guerra contro la gerarchia, e affascinato dall'altra grande fede del tempo, il comunismo, venne nel 1968 il manifesto dell'antiscuola. Lettera a una professoressa contestava il ruolo dei docenti e la loro autorità, chiedeva l'abolizione della bocciatura, accusava di classismo l'intera scuola. «Era» ha scritto Alcide Cotturone su «Studi Cattolici» in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di don Milani, «una specie di libretto di Mao, dove erano concentrati odio di classe, populismo, proletarismo, operaismo, demagogia, violenza ideologica e l'istigazione al linciaggio dei professori. Il manicheismo pauperistico portò don Milani a quest'affermazione antievangelica: "Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare solo una classe".»
Opinioni da conservatore, quelle di Cotturone? Non si direbbe, visto che anche Pier Paolo Pasolini la pensava nella stessa maniera. Intervenendo nel 1968 a un dibattito, disse agli animatori della scuola di Barbiana: «La vostra posizione è più simile al maoismo che alla nuova sinistra americana... più simile alle posizioni delle Guardie Rosse».

RIVOLTA ALL'ISOLOTTO

E se il libro di don Milani fu una sorta di bibbia del contestatore, un altro caso destinato, in quel 1968, ad alimentare tensioni e proteste fra i cattolici fu quello di don Enzo Mazzi.
Don Mazzi, figlio di operai, era il parroco dell'Isolotto, uno dei quartieri più poveri di Firenze, popolato da manovali, emigrati del Sud, profughi dell'Istria e della Grecia. Vi fu mandato a fare il parroco nel 1954 dal cardinale Elia Dalla Costa. Il quartiere era nuovo, la chiesa non c'era e don Mazzi cominciò a dir messa in una baracca di legno. Riuscì a coagulare intorno a sé una comunità vivace e anche numericamente significativa.
I guai cominciarono il 22 settembre 1968, quando nella chiesa parrocchiale dell'Isolotto venne distribuito un volantino in cui si esprimeva solidarietà nei confronti di coloro che, otto giorni prima, avevano occupato il Duomo di Parma. Il volantino, condiviso da don Mazzi, era indirizzato anche al papa e al vescovo di Parma.
Si diceva, in quel documento, di «concordare pienamente» con la scelta dell'occupazione del Duomo: un'occupazione decisa in segno di protesta contro l'accettazione, da parte del vescovo di Parma, di un contributo offerto da una cassa di risparmio per la costruzione di una nuova chiesa in città. La Chiesa, diceva il volantino, non poteva accettare quel contributo, e doveva fare «una scelta discriminante fra coloro che sono dalla parte del Vangelo dei poveri e coloro che servono due padroni, Dio e il denaro».
Ma la solidarietà nei confronti dei «cattolici del dissenso» di Parma era solo l'occasione per esprimere considerazioni più generali: «Viviamo in una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi, i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia. (...) Il Papa, i vescovi e spesso anche i sacerdoti e i laici più qualificati sono ricolmi di onori, di potere, di prestigio, di privilegi, di amicizie influenti, di cultura e in ultimo anche di beni».
L'arcivescovo di Firenze, l'allora sessantasettenne Ermenegildo Florit, un friulano di famiglia contadina, il 30 settembre scrisse a don Mazzi chiedendogli di ritrattare la lettera-volantino, e dandogli un mese di tempo «per riflettere».
Ma a don Mazzi si contestava anche -e forse soprattutto- un catechismo da lui preparato e pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina, Incontro a Gesù. Florit invitò il parroco dell'Isolotto a correggere le «deviazioni dottrinali». Inutile fu la mediazione del Vaticano, e inutili furono anche gli appelli all'obbedienza rivolti a don Mazzi da altri preti che tempo prima erano stati richiamati dalla gerarchia, come don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia. Don Mazzi non ritrattò e non corresse nulla, e fu rimosso dalla parrocchia. Furono centotré, nella sola diocesi fiorentina, i preti che firmarono un appello di solidarietà nei suoi confronti.
Don Mazzi continuò comunque a dir messa all'Isolotto: non più in chiesa, dove celebrava il nuovo parroco, ma all'aperto, sul sagrato, circondato dai vecchi fedeli. Una messa evidentemente contagiata dall'assemblearismo dell'epoca, secondo il quale non c'era una Verità da ascoltare e da inseguire, ma una verità da decidere autonomamente attraverso il dibattito. Da una cronaca dell'epoca: «Quella sul sagrato è una funzione religiosa in cui si dibattono i temi del giorno, i problemi del quartiere, del Paese, della Chiesa, dei poveri, delle donne e così via. Accanto al prete parlano studenti, casalinghe, operai, sindacalisti. (...) Già all'inizio, con il metodo catechistico dei giovani, negli anni sessanta, l'Isolotto diede inizio a una mezza rivoluzione: si insegnava il Vangelo anche con le parole e gli esempi di Danilo Dolci, Luther King, Malcolm X».

IL PARADISO? QUI E ORA

Molte scintille di quell'«anno dei miracoli» che è considerato il 1968 vennero dunque da uomini e ambienti del cosiddetto mondo cattolico.
Si pensa che ciò sia dovuto alla naturale propensione del cattolico a cercare la giustizia, a eliminare le diseguaglianze tra gli uomini e a cercare il «Regno di Dio».
Ma se tanti cattolici decisero di scatenare la protesta, non fu per una naturale conseguenza della loro fede, bensì -al contrario- per le conseguenze di una crisi di fede.
Una crisi di fede collettiva, che investì buona parte della Chiesa negli anni del post-Concilio; una crisi di fede esplosa nel momento in cui la secolarizzazione stava trasformandosi da fenomeno di élite a fenomeno di massa.
Non è un caso se il prestigioso Almanacco Letterario Bompiani, tradizionalmente dedicato a questioni di stretta attualità, nell'edizione del 1969 (e quindi incentrata sui fatti dell'anno precedente, il 1968) fu intitolato L'inquietudine religiosa. E non è un caso se il primo capitolo di quel volume aveva per titolo La secolarizzazione.
Dal 1965, ossia dalla fine del Concilio Vaticano II, il numero dei preti si era dimezzato, le vocazioni ridotte a un decimo. Invano la Chiesa cercò di far fronte a questo vero e proprio «8 settembre» infittendo le discussioni sul ruolo dei laici, sul valore del sacerdozio, su come deve vestire il prete, sulla liturgia. Il punto era un altro: la fede nella divinità di Gesù -anzi, nella stessa esistenza di Dio- non era più un fatto scontato, una realtà comunemente accettata.
Fu allora che una grande massa di cattolici passò dalla fede nel Figlio dell'Uomo alla fede nell'uomo. E cercò di darsi una giustificazione «orizzontalizzando» la prospettiva di fede. Pensò che il cristianesimo non fosse tanto credere nella Trinità, nella resurrezione e nella vita eterna: ma darsi da fare per il povero, per l'handicappato, per l'operaio.
Questo passaggio dalla dimensione «verticale» della fede a quella «orizzontale», o meglio, questo privilegiare l'aspetto orizzontale rispetto a quello verticale, è testimoniato dalle scelte di quasi tutti i cattolici che si posero alla guida della contestazione.
Don Enzo Mazzi spiegò in un'intervista: «Per certa teologia il battesimo è lo strumento per togliere il peccato originale e per donare la grazia. Noi (...) cerchiamo di donargli un significato attuale, un contatto con i bisogni reali del bambino. Quali sono? Che abbia la sua dignità nella società, che venga considerato un essere umano dotato di diritti, che possa usufruire di strutture umane, sociali e anche materiali che gli permettano di crescere nella libertà e nell'autonomia, di non essere represso e di crescere attraverso uno sviluppo di tutta la sua personalità. Battezzare per noi significa, più che togliere il peccato individuale, togliere un peccato sociale...».

Ecco perché il «timbro» cattolico alla contestazione è più apparente che reale. Non furono tanto i cattolici, quanto gli ex cattolici (o comunque i cattolici condizionati dalla confusione del post-Concilio) a dare un'impronta al Sessantotto, e a rimanere a loro volta condizionati e travolti dal Sessantotto stesso.
Fu proprio adottando uno dei più famosi slogan del tempo -«Qui e ora»- che tanti cattolici rinunciarono a proiettare nell'eternità la speranza cristiana, e si adoperarono per costruire subito, in questa vita e su questa terra, il paradiso.
E questo progetto non poté che finire con l'abbraccio con l'ideologia del momento -della quale parleremo più avanti-, al punto da far nascere una nuova dottrina, ricordata come «cattocomunismo».

IL CATTOCOMUNISMO

«Cattolicesimo del dissenso» e «cattocomunismo» sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Perlomeno, nell'Italia -e, più in generale, nel mondo occidentale- degli anni Settanta. Il cattolico del dissenso era uno che contestava la gerarchia e il magistero, e che al tempo stesso credeva fosse possibile -anzi, doveroso- adeguarsi, almeno in politica, alla dottrina comunista.
Fu, quello, un fenomeno che investì fortissimamente gli stessi vertici ecclesiali. Si pensi -è solo un esempio, anche se ai più oggi sembrerà incredibile- che l'infatuazione fu tale che nel messale ufficiale della Conferenza episcopale francese, il Missel des dimanches, a pagina 139 fu inserito in quegli anni Karl Marx fra i nomi di cui i cattolici devono fare memoria. E così il 14 marzo, giorno della morte -e quindi, per la Chiesa, dies natalis, giorno della nascita alla vera vita- la Chiesa francese invoca, fra i tanti santi e beati del giorno, anche colui che è definito dallo stesso messale «il fondatore del comunismo».
In Italia il primo testo-base del cattocomunismo fu Marxismo e cristianesimo, libro scritto nel 1966 da don Giulio Girardi, un salesiano che insegnava all'università del suo ordine. Girardi sosteneva che marxismo e cristianesimo erano entrambi riconducibili allo stesso ideale umanitario di libertà, e che fosse necessaria una lotta comune per il rovesciamento della società capitalistica. Per questa lotta, sosteneva Girardi, il marxismo offriva irrinunciabili strumenti scientifici. Nel 1969 fu allontanato dall'Università Salesiana. Si fece poi assumere dalla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), sciogliendo definitivamente il suo legame con la Chiesa.
Ma grande importanza, nel cattolicesimo del dissenso, ebbe anche «Testimonianze», rivista fondata e diretta dal padre scolopio Ernesto Balducci. E altri personaggi di spicco di quel mondo sono stati Mario Gozzini e Raniero La Valle, che a metà degli anni Settanta vennero eletti in Parlamento, come indipendenti di sinistra, nelle liste del Pci.
Non erano certo emarginati, questi personaggi, dalla nomenklatura ecclesiale. Gozzini ebbe un ruolo significativo nella redazione del catechismo per adulti della Conferenza episcopale italiana, Signore, da chi andremo?. La Valle era stato direttore del quotidiano cattolico bolognese «Avvenire d'Italia», che diede poi origine, con la fusione con «L'Italia» di Milano, al quotidiano dei vescovi «Avvenire». E fra i cattolici del dissenso -a dimostrazione del loro peso nella Chiesa di quegli anni- va annoverato pure qualche vescovo, come monsignor Luigi Bettazzi, di Ivrea, che volle come collaboratrice teologica un'altra nota «contestatrice», Adriana Zarri.

Ma forse il personaggio più rappresentativo della sterzata a sinistra della Chiesa, in quegli anni, è il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal '65 al '77. In quei dodici anni la diocesi torinese fu la vera Mecca del cattolicesimo del dissenso. Lì trovarono ospitalità tutti coloro che si erano scontrati con la gerarchia a causa della loro simpatia per il comunismo, come lo stesso don Girardi.
Pellegrino era un intellettuale, un prete che della vita di parrocchia -e quindi del comune «popolo di Dio»- non aveva esperienza, essendo passato direttamente dal seminario all'università, e dall'università, a sorpresa, direttamente alla cattedra di una delle diocesi più importanti del mondo. Quando fu nominato, infatti, Pellegrino insegnava letteratura cristiana all'Università di Torino: un noto patrologo, un uomo di cultura, ormai già ultrasessantenne, che pareva destinato, quindi, a proseguire la sua vita da studioso. Per questo, quando Paolo VI lo nominò, furono in molti a stupirsi.
Applicò risolutamente il Concilio, o meglio ciò che lui pensava fosse il Concilio. Era convinto che si fosse arrivati a una svolta epocale, e non esitò -in ossequio al rinnovamento, al cambiamento, alla modernizzazione- a prendere decisioni traumatiche per i fedeli. Ritenendo che la Chiesa non dovesse avere nulla a che spartire con il Capitale, ordinò il ritiro dei cappellani dalla Fiat, e l'abolizione dei pellegrinaggi a Lourdes che da anni mobilitavano migliaia di operai.
Soprattutto, giunse a bloccare -in una diocesi che, con Napoli, vantava il primato mondiale di santi e beati- tutti i processi di beatificazione in corso, fra cui quelli di Francesco Faà di Bruno e Piergiorgio Frassati, che solo anni dopo -e con altri vescovi- poterono salire agli altari della Chiesa. Forse, si credeva allora che proclamare la santità di un cristiano fosse un gesto «poco ecumenico», e urtasse i fedeli delle altre religioni.
Fu lui, Pellegrino, a scrivere alla metà degli anni Settanta quello che viene considerato il vero documento ufficiale -perché firmato nientemeno che da un cardinale- del cattocomunismo italiano, la lettera pastorale Camminare insieme, che non a caso fu stampata e diffusa gratuitamente dalla giunta di sinistra di Torino. Quella giunta capeggiata da Diego Novelli che, molti anni dopo, verrà travolta dal «caso Zampini», una storia di mazzette che può essere considerata come una Tangentopoli ante litteram.
Il cardinal Pellegrino -ma lui si faceva chiamare «padre», rifiutando ogni titolo onorifico- si dimise, in anticipo, nel '77, e Paolo VI, che pure l'aveva voluto, si affrettò ad accettare quelle dimissioni. Fosse o no dipeso dalle scelte pastorali di questo discusso arcivescovo, la diocesi torinese era passata, in quei dodici anni, da uno stato di eccezionale fecondità (quanti santi, a Torino, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento!) a una drammatica situazione di crisi. L'apertura al comunismo non aveva provocato conversioni nelle fabbriche -dove, anzi, molti operai protestarono per certe scelte come il ritiro dei cappellani- e aveva, al contempo, intaccato quel patrimonio tutto torinese rappresentato dal cattolicesimo sociale di san Giovanni Bosco e san Leonardo Murialdo, e dal cattolicesimo liberale nato col Risorgimento. Fu allora che Torino cominciò ad essere una delle città con il più basso indice di pratica religiosa.
Si pensi che nel 1965 i giornali «La Voce del Popolo» (settimanale diocesano torinese) e «Il Nostro Tempo» (settimanale della intellighenzia cattolica di Torino) avevano toccato -dopo anni di crescita continua- la punta più alta della loro diffusione, arrivando rispettivamente a 16.000 e a 10.000 copie. Bene: nel 1973, dopo otto anni dalla fine del Concilio e dall'arrivo di Pellegrino, «La Voce del Popolo» era scesa a poco più di 9000 copie, e «Il Nostro Tempo» a meno di 6000. Complessivamente, insomma, i due settimanali cattolici torinesi erano passati dalle 26.000 copie del 1965 alle 15.000 del 1973. E si tenga presente che tra il 1953 e il 1973 la popolazione di Torino era raddoppiata.
E, questo sulla diffusione dei giornali cattolici, un dato certamente limitato a un fenomeno particolare, ma sicuramente esemplare di tutta la situazione. Del resto, lo stesso Pellegrino riconobbe il fallimento, pur consolandosi con una citazione di sant'Agostino: «Quanti che sembrano essere fuori sono dentro; quanti che sembrano essere dentro in realtà sono fuori».

La caduta della pratica religiosa nella città-laboratorio del dissenso cattolico [Torino] dimostra, in fondo, che quei tentativi di rendere più «moderno» il cristianesimo, e magari di farlo sposare con il marxismo, non riuscirono mai a conquistare il popolo, la massa dei fedeli. Certe ardite teologie, certe «concessioni» al nuovo, rimasero perlopiù un'elaborazione di pochi intellettuali, che non scaldarono il cuore della gente semplice -i credenti più autentici, secondo il Vangelo- e oltre tutto ebbero l'effetto di spaccare in due il clero. Pellegrino, ad esempio, non solo non fece proseliti fra i laici, ma si inimicò gran parte dei suoi preti, fra i quali girava allora la battuta velenosa secondo cui l'arcivescovo «parlava come un comunista, comandava come un fascista e viveva come un liberale». Di fronte a una Chiesa divisa e litigiosa -a Torino e altrove- i credenti non poterono far altro che aspettare che i preti si mettessero d'accordo fra di loro: e, nell'attesa, si misero «in sonno», disertando le parrocchie.
Il crollo nella frequenza testimonia anche che la contestazione di certo clero non ha creato, come si sperava, dei «cristiani adulti», ma degli agnostici; non ha creato una «Chiesa aperta», ma una Chiesa vuota.

DALLA PARROCCHIA AL PARTITO

Il tentativo di far incontrare cristianesimo e marxismo ebbe, ovviamente, effetti pratici nell'impegno e nelle scelte dei cattolici in politica.
S'è detto dell'elezione di La Valle e Gozzini nelle liste del Pci, quali indipendenti di sinistra. Non furono casi isolati, decisioni personali. Gran parte del mondo cattolico fu attirato, in quegli anni, dalla sinistra. E non sembri, questa, una contraddizione con quanto detto prima sulla scarsa «presa» che il cattocomunismo ebbe sulla gente comune: i cattocomunisti, infatti, erano «già» militanti del mondo cattolico; non erano ex agnostici o ex comunisti affluiti, grazie alla nuova dottrina, nelle organizzazioni cattoliche.
Vogliamo dire che il cattocomunismo ingrossò le file dei marxisti, ma non fece nessun nuovo cattolico praticante. Molti cattolici, insomma, si fecero ammaliare dal comunismo, fino a scavalcare a sinistra i vecchi compagni e fino -non di rado- a perdere la fede. Ma non risultano casi di percorsi inversi, cioé di comunisti che, in quegli anni, tornarono in chiesa per merito del cattocomunismo.
Si pensi -può essere indicativo- alla sorte che ebbe la Cisl, il sindacato tradizionalmente cattolico, quando si unì nella Triplice con i due sindacati «rossi», Cgil e Uil. Mai s'è avuta notizia, almeno per quanto riguarda le decisioni dei vertici, di una differente strategia della Cisl rispetto ai soci di ispirazione comunista e socialista; mai la Cisl ha preso deliberazioni tali da porsi in contrasto con Cgil e Uil per ribadire la sua identità cattolica. L'unione dei tre sindacati ha portato a un appiattimento in cui l'unica idea forte e visibile era quella di sinistra.

Il caso più eclatante di impegno politico a sinistra è forse quello delle Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori. Nate nel '45 su iniziativa di Pio XII per controbilanciare l'influenza dei comunisti nelle fabbriche, le Acli avevano perlopiù un compito formativo e ricreativo. Nel '59 potevano contare su un milione e mezzo di aderenti, e il loro giornale, «Azione sociale», era uno dei più diffusi periodici italiani. Negli anni Sessanta, gli aclisti divennero ufficialmente una corrente della Dc, chiamata «Rinnovamento».
Ma ecco il vento del Sessantotto a ribaltare tutto. Al congresso di Torino del 1969 le Acli proclamarono «la fine del collateralismo» con la Dc, e ruppero ogni legame con il partito; l'anno dopo, 1970, arrivò «l'opzione socialista». Livio Labor, presidente delle Acli dal 1961, abbandonò l'organizzazione e fondò allora il Mpl, Movimento politico dei lavoratori: una formazione che voleva diventare il punto di raccolta, in politica, dei cattolici del dissenso, e che ebbe però vita breve, non riuscendo ad avere i consensi elettorali sperati.
La reazione della Chiesa, almeno per una volta, sembrò decisa. La Cei, Conferenza episcopale italiana, negò alle Acli il diritto di proclamarsi «movimento cristiano»; nella primavera del '71, poi, la Santa Sede le sconfessò ufficialmente. Il risultato fu una scissione, e 300.000 aclisti fondarono il Mcl, Movimento cristiano dei lavoratori. I 500.000 che rimasero nelle Acli, sotto la presidenza di Emilio Gabaglio, nel febbraio del '72 al congresso di Cagliari ribadirono la «scelta di classe», opponendosi all'interclassismo della Dc. Chiesero la fine del sistema capitalistico, l'autogestione e la proprietà socialista dei mezzi di produzione. Nel '74, al referendum sul divorzio, la maggioranza delle Acli si schierò a favore della libertà di scelta politica: non obbedì, quindi, al richiamo della gerarchia.
Un altro movimento di cattolici di sinistra fu quello dei Cps, Cristiani per il socialismo.
Nacquero, in realtà, non in Italia ma in Cile, nel '71, come gruppo d'appoggio al governo di Allende. Da noi arrivarono nel '73, precisamente in settembre, quando a Bologna si tenne il convegno che ne sancì la costituzione. Aderirono la sinistra delle Acli e la Cisl. Uno dei leader fu proprio quel don Giulio Girardi che -lo abbiamo visto- vanta una sorta di paternità del cattocomunismo italiano. Padre Balducci e il cardinale Pellegrino furono simpatizzanti, ma non esplicitamente. Aderì, invece, senza esitazioni, dom Giovanni Franzoni.

UN ABATE NEL PCI

Dom Giovanni Franzoni era un monaco benedettino, abate della basilica di San Paolo fuori le Mura, una carica equiparata a quella di vescovo. Contestò la proprietà privata e si schierò, all'epoca del referendum, a favore della legge sul divorzio. Nel 1974 fu sospeso a divinis.
«Per anni» si legge sull'«Osservatore Romano» del 3 maggio 1974, «egli ha rimproverato alla Chiesa di essere supporto del sistema capitalistico e di ispirarsi a modelli di potere oppressivo, contrapponendovi l'immagine di una Chiesa utopistica, vagamente carismatica, ma impegnata nella lotta di classe di ispirazione marxistica. Venne così a concepire una Chiesa a sfondo prevalentemente sociale, oppure con caratteristiche soltanto spiritualistiche, astratte e soggette al relativismo morale e religioso, secondo il mutare dei tempi ... »
Fu ridotto allo stato laicale il 2 agosto 1976, dopo essersi pronunciato a favore anche della legalizzazione dell'aborto e dopo aver pubblicamente (con un articolo sulla rivista «Com-Nuovi Tempi») fatto dichiarazione di voto per il Pci. Il cardinal Poletti gli scrisse una lettera affettuosa, dicendogli: «Oggi molti forse ti applaudono, ti invitano a resistere. Sei molto più sulla strada della pubblicità umana che dell'umiltà evangelica! Ma verranno anche per te i giorni della delusione, della prova, della solitudine. Sarai allora veramente "un povero" e potrai sempre ritornare, se rinnovato nel cuore, con umiltà e fiducia alla casa del Padre, dove il Papa e molti fratelli ti aspettano e ti riceveranno con gioia. Tra i fratelli spero di esserci anch'io che, oggi come sempre, cerco di capirti e che, anche nella dura correzione, prego per te».
Nel novembre del 1988 dom Franzoni si è iscritto al Pci. Nell'aprile del 1990 si è sposato -a Tokio, con rito civile- con l'interprete giapponese Yukiko Ueno.

TEOLOGI «D'AVANGUARDIA»

La contestazione non toccava certo le sole scelte politiche. Furono, per la Chiesa, anni di confusione generale. Le basi stesse della fede, come abbiamo detto, erano messe in discussione: fiorirono catechismi che solo pochi anni prima sarebbero stati considerati eretici, e la stessa liturgia fu rivoluzionata, in un ribaltone di cui la messa con le chitarre e certe eucarestie con cibi «alternativi» non furono che l'aspetto più folcloristico.
La confusione era dovuta in buona parte a teologi del dissenso, a biblisti e a esegeti che -forse temendo che la fede non potesse reggere all'urto della secolarizzazione- scrissero testi poderosi per cercare di adattare il Vangelo alla modernità, alla Ragione, a tutto ciò che insomma contraddistingueva, in quel momento, «il mondo». Libri come il Catechismo olandese, che cercava appunto di conciliare la fede con il razionalismo dell'uomo moderno, sono considerati oggi fra le cause dello sfascio della Chiesa d'Olanda; ma allora erano ritenuti testi d'avanguardia, espressione di un cristianesimo «finalmente» illuminato.
Disse Mario Capanna in un'intervista (al «Resto del Carlino», 25 gennaio 1976) in cui ricordava gli anni all'Università Cattolica: «Ci eravamo ribellati anche al metodo con cui era insegnata teologia, fummo i primi a dire che, oltre ai teologi che si studiavano, ce n'erano altri che andavano approfonditi, i tedeschi e gli olandesi per esempio». Ed evidentemente fu seguendo certi nuovi teologi che lo stesso Capanna poté pensare -come disse nel marzo 1969 alla «Domenica del Corriere»- che «si vive l'esperienza evangelica in ogni momento dell'esistenza, quindi non solo e non necessariamente a messa, ma dovunque, nelle assemblee, ad esempio, picchiando i fascisti ... ».
Come molti di coloro che allora dicevano di sapere qual era il modo giusto per vivere il cristianesimo, anche Capanna ha poi abbandonato la fede. Ha spiegato all'«Avvenire» il 31 marzo 1993: «Io ero cattolico e aggiungo che vivevo la dimensione di fede in un modo che posso definire poetico, per nulla dozzinale o fideistico nel senso del trasporto assoluto. E' stato a seguito delle lotte studentesche, per via di una mia maturazione culturale, filosofica e politica, che mi sono reso conto della infondatezza del credere religioso».
Dice oggi il già citato Paolo Sorbi, cattolico e intellettuale di Lotta continua negli anni della contestazione:
«A quell'epoca avevamo pasticci teologici drammatici, che ci avvicinavano alle posizioni di certe chiese protestanti e che ci hanno portato a scelte sciagurate sul divorzio e sull'aborto.
«La secolarizzazione, alla metà degli anni Sessanta, era ancora patrimonio di alcune élites, non aveva ancora conquistato il "cuore" del popolo italiano. Noi l'abbiamo fatta diventare carne e sangue, modo di vivere quotidiano. Io sono pronto a farmi una doverosa autocritica, ma ci sono fior fiore di certi personaggi, vescovi, teologi, biblisti oggi ben inseriti e ben integrati nelle varie nomenklature clericali, che dovrebbero avere la dignità di fare un passo indietro».

HARAKIRI NELLA CHIESA?

Di fronte al «nuovo» che irrompeva, anche parte della gerarchia della Chiesa, insomma, vacillò.
Ma era proprio necessario, in quel momento, rimettersi in discussione, farsi autocritiche, inseguire la modernità? Ha scritto nel 1978 Emanuele Samek Lodovici: «Che cosa fece il cattolicesimo ufficiale? Inventò la crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura; si sentì coinvolto in una dissacrazione, quella inizialmente scatenata dalla contestazione, nei confronti della quale non aveva nessuna ragione per credersi oggetto. Forse che la tecnologia forsennata, la mercificazione dell'amore, la cultura professorale, la distruzione dei piccoli mestieri, la criminalità, l'abbrutimento pubblicitario, l'infame devastazione della natura, erano un portato o una conseguenza del cristianesimo?».
Nella Chiesa, spiegava ancora Samek Lodovici, «si credette che le urla dei contestatori fossero la vox populi e si trasferì la crisi del pensiero laico all'interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente in crisi. (...) Si scambiò la mancanza di rigore nel riproporre integralmente la dottrina cristiana sulla società, come un atteggiamento di "moderazione", come un atteggiamento "positivo"; si giustificò il fatto di non dire tutta la verità con il rifiuto che l'interlocutore prestava ad essa. (...) Non si ebbe il coraggio di essere fino in fondo se stessi.»

Non diversamente la pensa oggi il più noto scrittore cattolico italiano, Vittorio Messori: «Ho un terribile sospetto. Se la Chiesa avesse tenuto duro ancora tre-quattro anni, forse invece che travolta dal Sessantotto e messa in un angolo dai contestatori, sarebbe stata riscoperta almeno da una certa ala sessantottina come una sorta di dimensione profetica.
«Mi spiego. Il Concilio Vaticano II rappresenta, per certi aspetti, le nozze della Chiesa con la modernità. Quella Chiesa che per due secoli, vittoriosamente, era stata fedele alla Tradizione, misteriosamente -la Provvidenza è strana- non solo accettò la modernità, ma la sposò con l'entusiasmo del neofita. Eppure, la modernità stava morendo. Nel momento stesso in cui i preti-sociologi dell'Università di Lovanio scrivevano la Gaudium et Spes, cioè scrivevano come la Chiesa doveva porsi di fronte al mondo moderno, in quello stesso momento la modernità era già in agonia, e tre anni dopo sarebbe morta.
«Perché dico che almeno una certa ala sessantottina forse avrebbe trovato ciò che cercava in una Chiesa fedele alla propria Tradizione? Perché noi pensiamo spesso il Sessantotto sotto una lettura modernizzante. Ma in realtà l'anima del Sessantotto è in gran parte tradizionalista. Nel senso che cercò di ritrovare certi valori che la modernità non dava più. Pensiamo ad esempio al fatto che con il Sessantotto nacque un certo ecologismo: nacque cioè il desiderio di un mondo nuovo che non sta davanti, ma sta dietro. Perché il verde, checché se ne pensi, non è un qualcosa di complementare al rosso, ma è il contrario del rosso. Mito del rosso è il progresso, la megalopoli; mito del verde è la conservazione della natura, il villaggio. L'uomo del futuro, per un certo Sessantotto, non è Gagarin, non è l'astronauta, ma è il pastore sardo, è il contadino, l'operaio saggio...
«Il Sessantotto, almeno in parte, fu insomma il tentativo di recuperare una tradizione. Quella Tradizione che la Chiesa fino ad allora aveva tenacemente difeso e che nel 1965 ha abbandonato».

TRAMONTA L'AC, NASCE CL

E a ulteriore dimostrazione del clima da «tutti a casa» che nel 1968 investì la Chiesa, si pensi che la più importante organizzazione laicale del mondo cattolico, cioè quell'Azione cattolica che tanta importanza aveva avuto nei decenni precedenti per quanto riguarda l'impegno dei credenti nella politica e nella società, passò dai tre milioni di iscritti del 1960 a un milione e 657.000 iscritti nel 1970, e infine a soli 635.000 iscritti nel 1975.
Il fenomeno più significativo di resistenza e di reazione a questo sfacelo fu la nascita di Comunione e liberazione, sorta nel 1970, anche se il primo grande convegno pubblico è del 1973. In un momento in cui altri cattolici o abbandonavano la fede o teorizzavano il suo nascondimento, CL coagulò attorno a sé quei cattolici che vollero continuare a essere presenti nella società senza rinunciare -anzi, sbandierandola- all'obbedienza al tradizionale magistero della Chiesa. Molti anni più tardi, alcune delle scelte politiche del Movimento popolare, vale a dire il braccio secolare di CL, sono state molto discusse e criticate anche all'interno del mondo cattolico. Ma è indubbio, e questo nessuno lo contesta, che negli anni del post-Concilio e della contestazione studentesca CL è stata (in Italia) la principale presenza «visibile» dei cristiani nelle scuole e, più in generale, fra i giovani.
Ha detto il suo fondatore, don Luigi Giussani: «Nel '68-69 noi ci siamo trovati come "fuori casa". Eravamo in tutte le scuole -eravamo l'associazione più forte presente nella scuola- eppure ci siamo trovati "fuori casa".
«Perché? Perché il rovesciamento operato dall'ideologia marxista attribuiva alle sue varie formazioni mentali prospettate nel futuro la sola speranza che l'umanità potesse avere. Tutto il resto, vale a dire tutto ciò che non nasceva dall'ideologia marxista nelle sue varie flessioni, non aveva valore, specialmente il cristianesimo.
«"Gioventù Studentesca" -così si chiamava allora il nostro movimento- fu spazzata via da questo momento. Più della metà si affiliò alle sette marxiste. Gli altri rimasero come irrigiditi, intimiditi, e chiusi tra loro. (...) Un giorno, mi pare del 1970, un gruppetto di tre o quattro universitari insorse con un volantino (il primo volantino, per dir così, "controrivoluzionario"); quella volta, forse perché erano in tre o quattro soltanto, non furono picchiati a sangue. Era intitolato «Comunione e liberazione"».


IV - ARRIVA L'IDEOLOGIA

Orfano di Dio, il movimento non poté che finire rapidamente nelle braccia del suo surrogato: l'ideologia. Anche la ribellione più spontanea e genuina, anche le istanze più sincere e giustificabili, finirono presto ingabbiate dentro gli schemi di un «pensiero forte».

CHE (VECCHIA) IDEA: IL MARXISMO-LENINISMO

Non era certamente con il comunismo che i primi contestatori, i pre-sessantottini, pensavano di migliorare le cose. Anzi, del comunismo (non solo del Pci: di tutta l'ideologia comunista) non ne volevano proprio sapere.
Si legge in quel già citato documento di «Onda Verde» che uno dei «rischi del movimento della nuova generazione in Italia» era quello di farsi strumentalizzare «da parte di forze politiche organizzate. Un'operazione di questo tipo è particolarmente adatta al Pci e alle varie sette paracomuniste».
Tuttavia, su quell'humus fecondo del bisogno di menare le mani e su quell'istintivo rifiuto di una società fondata principalmente sul denaro, si innestò presto la prospettiva della lotta di classe. E per abbattere il vecchio mondo e costruire un futuro migliore, i giovani del Sessantotto, specialmente in Italia, fecero ricorso -sembra una contraddizione, ma così fu- proprio a uno strumento già antiquato e inadeguato come l'ottocentesco marxismo-leninismo, seppure variamente aggiornato, corretto, aggiustato. Il primo manifesto programmatico della contestazione giovanile italiana, le Tesi della Sapienza elaborate nel febbraio del 1967 durante l'occupazione dell'Università La Sapienza di Pisa, poneva già la questione universitaria «in termini di lotta fra capitale e lavoro», e considerava lo studente «una figura sociale interna alla classe operaia».
A queste nozze fra il movimento e la galassia dei molteplici Verbi di derivazione marxista non fu estraneo un certo milieu intellettuale, attivo fin dall'inizio degli anni Sessanta. Libri e giornali inizialmente semiclandestini vennero via via diffusi -anche grazie a grossi editori- in centinaia di migliaia se non in milioni di copie, andando a influenzare un'intera generazione. Né va scordato quanto dice Piperno, e cioè che il Pci, sperando di poter sfruttare la situazione a suo vantaggio, all'inizio sovvenzionò e aiutò abbondantemente la protesta.
Ma le riviste che contribuirono alla diffusione del «marxismo critico» furono opera, perlopiù, di dissidenti del Pci, di comunisti che avevano vissuto lo choc dell'invasione sovietica in Ungheria (1956) e che comunque contestavano le strategie e le strutture dei tradizionali partiti di sinistra.
La prima di queste riviste fu «Quaderni Rossi», fondata nel 1961 da Raniero Panzieri: vi collaboravano fra gli altri Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Toni Negri, Vittorio Foa, Romano Alquati, Sergio Bologna, Vittorio Rieser. Della linea, come si diceva allora, «operaista», non fu solo una tribuna di intellettuali dissidenti, ma una guida per molti giovani che cercavano una nuova identità del comunismo. Nel 1964 una parte della redazione si staccò fondando un'altra rivista, «Classe Operaia», diretta da Mario Tronti.
Rigorosamente (e dichiaratamente) fedeli all'ortodossia marxista-leninista furono invece le Edizioni Oriente, fondate nel 1963 a Milano da Maria Regis.
Già l'anno prima, a Padova, un gruppo emme-elle (così venivano chiamati, allora, i marxisti-leninisti) avevano fondato il primo giornale di corrente, dal nome inequivocabile: «Viva il Leninismo». Ma «Viva il Leninismo» era stato, quanto a diffusione, un fenomeno limitato. Ben altro peso ebbero le Edizioni Oriente, che pubblicarono le riviste «Vento dell'Est» e «Quaderni delle Edizioni Oriente», il mitico Libretto Rosso con le massime di Mao, le antologie delle opere dello stesso Mao e gli scritti dei dirigenti vietnamiti.
Nel 1964 nacque un'altra rivista marxista-leninista, «Nuova Unità», con Ugo Duse alla direzione e Lodovico Geymonat alla vicedirezione. Nel primo numero vennero pubblicate le Proposte per una Piattaforma dei marxisti-leninisti d'Italia. La redazione si spaccò all'inizio del 1965 e Ugo Duse se ne andò fondando «Il Comunista», che oltre a criticare la classe operaia occidentale, accusata di essersi imborghesita, sostenne la necessità di appoggiare i guerriglieri africani, asiatici e sudamericani, e lanciò una campagna per l'arruolamento di volontari per la guerra del Vietnam.
Altre riviste che forgiarono la generazione della rivolta furono «Giovane critica» di Pio Baldelli, «La Sinistra» di Lucio Colletti, «S» (la rivista dei «situazionisti», intellettuali e artisti che propugnavano un «uso creativo e innovativo del marxismo originario»), «Quindici» e soprattutto i «Quaderni Piacentini».

I MODELLI DEI «QUADERNI»

Fondati nel 1962 da Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, i «Quaderni Piacentini» uscirono inizialmente in poche copie ciclostilate e distribuite dagli stessi redattori; ma divennero rapidamente -anche grazie all'arrivo di rinforzi eccellenti come il critico cinematografico Goffredo Fofi e il poeta e saggista Franco Fortini- un fenomeno editoriale e culturale di livello nazionale. Nel '68, cervelli della contestazione come Guido Viale, Carlo Donolo, Sergio Bologna e Michele Salvati trovarono ospitalità sui «Quaderni», ormai arrivati a quindicimila copie di diffusione e, soprattutto, ormai inseriti nel «giro» delle citazioni sulle terze pagine dei grandi quotidiani.
I «Quaderni» erano considerati all'avanguardia perché avevano «rotto» con il Pci e si mettevano in una posizione critica nei confronti dell'Urss. Ha detto Bellocchio al «Corriere della Sera» del 26 settembre 1992: «La polemica con il partito comunista è stato uno dei leitmotiv della rivista fin dall'esordio. Tra noi c'era di tutto, dai trotzkisti agli anarchici. Non avevamo una linea politica definita. Ma nell'insieme rappresentavamo l'area della sinistra non istituzionale Quel che rimproveravamo ai comunisti era la doppiezza, la fedeltà alla dottrina unita al tatticismo, la non volontà di fare opposizione dura, la tendenza al consociativismo. (...) Davamo per scontato che in Urss non ci fosse il vero socialismo, che quel sistema fosse un fallimento (...)».
Visione profetica, socialismo illuminato? Non pare propriO, perché anche l'area della «sinistra non istituzionale» dei Quaderni Piacentini» si ispirava a regimi che pochi anni dopo si sarebbero rivelati come spietate dittature. Ancora Bellocchio al «Corriere della Sera», stessa intervista: «I nostri modelli erano la Cina di Mao, Cuba, il Vietnam».
E non è un caso se quelli diventarono poi i modelli anche della contestazione del Sessantotto e degli anni seguenti. Fu anche grazie a queste riviste che il movimento finì con il riporre nel marxismo-leninismo-maoismo le sue speranze di un mondo migliore, e con il colorare di rosso la sua voglia di Guerra».

MARCUSE E IL GRANDE RIFIUTO

Ma il vero profeta della protesta è un uomo che sbucò quasi dal nulla. Nato a Berlino nel 1898 ed emigrato negli Usa subito dopo l'ascesa al potere di Hitler, Herbert Marcuse era, nei fatidici anni Sessanta, un professore di filosofia all'Università di San Diego, in California.
Discepolo di Heidegger e collaboratore di Horkheimer e Adorno, esponente della Scuola di Francoforte, prima di approdare a San Diego aveva insegnato alla Columbia University di New York e alla Brandeis University di Boston. Aveva pubblicato alcuni saggi: Ragione e rivoluzione nel 1941, Eros e civiltà nel 1955, Marxismo sovietico nel 1958. Libri che lo avevano portato, alla soglie dei sessant'anni, a una qualche notorietà. Ma negli ambienti degli addetti ai lavori, e non certo, s'intende, fra le grandi masse.
Fu solo negli anni della contestazione, e quindi quando era ormai vicino ai settant'anni, che questo professore di filosofia diventò un «caso» mondiale.
Alla ribalta della notorietà planetaria, Marcuse arrivò grazie a quel L'uomo a una dimensione che fu la sacra scrittura dei contestatori di tutto il mondo. Pubblicato nel 1964, L'uomo a una dimensione venne qualche anno dopo tradotto in decine di lingue e trovò, praticamente in ogni paese dell'Occidente, un editore pronto a favorirne una prodigiosa diffusione (Einaudi, in Italia).
Nacque così il «ma-ma-maismo», un'ideologia composita derivata, appunto, dalla triade Marx Mao Marcuse, ed eletta dai sessantottini al rango di nuovo Vangelo. Cos'avesse da spartire Marcuse con Marx e Mao, non è facile da comprendere, e pare che lui stesso non lo capì mai. Nei suoi saggi, il professore non risparmiò severe critiche a questi due personaggi che poi sarebbero diventati suoi imbarazzanti compagni di viaggio.
Certo, Marcuse respingeva la società dei consumi di tipo nordamericano, ma la proclamava, tuttavia, preferibile agli stati totalitari di sinistra. Scrisse infatti nel suo La tolleranza repressiva (1965): «Con tutte le sue limitazioni e le sue distorsioni, la tolleranza democratica è in ogni circostanza più umana di un'intolleranza istituzionalizzata che sacrifica i diritti e la libertà delle generazioni viventi a vantaggio delle generazioni future».
Non bisogna stupirsi se venne infilato, nonostante queste sue precisazioni, fra i profeti della rivoluzione comunista. Marcuse non è facile da capire («Un sociologo che oggi va per la maggiore e che usa esprimersi in formule più indecifrabili dei logaritmi» scrisse allora di lui Indro Montanelli), e forse è proprio per questo che fece tanta presa. Nulla attrae i giovani, in certi casi, più del sofisma. E nei sofismi, Marcuse era straordinario.
Ad esempio quando, dopo aver sostenuto la tesi che sopra abbiamo riportato fra virgolette, faceva presente che la società industriale avanzata reprime la libertà attraverso la tolleranza: Marcuse, insomma, diceva che la concessione della libertà di espressione è una forma di repressione, perché evita il possibile insorgere di una protesta o di una rivolta, e garantisce pertanto il mantenimento dell'ordine costituito.
Benché (indebitamente) associato a Marx e Mao Tze Tung, e benché (giustamente) considerato un ideologo, Marcuse va tuttavia ricordato come l'ispiratore solo del primo Sessantotto, di quello non ancora egemonizzato dall'idea-progetto di una società comunista. Marcuse incitava alla rivolta ma non proponeva un preciso modello di Stato. Vagheggiava un indefinito mondo futuro nel quale fosse possibile un'assoluta libertà. Per risolvere i mali della società, proponeva un Grande Rifiuto che doveva portare a un mondo post-tecnologico, di integrale individualismo e umanesimo.
Ciò che Marcuse propugnava, pur confusamente (in ogni sua opera viene concessa ampia possibilità di salvezza a quelle persone e quelle istituzioni contro cui dice di scagliarsi), non era certo collocabile sui binari dell'ortodossia comunista. «Marcuse» scrisse allora Raffaello Franchini «è soprattutto un pensatore perplesso di fronte alla smentita che la nostra epoca ha dato delle previsioni di Marx». E infatti proprio il suo libro più famoso, L'uomo a una dimensione appunto, esordiva con una dimostrazione di quanto fosse ormai superata l'analisi marxista della società.
Ha scritto Lucio Colletti: «Povera di indicazioni politiche, la Scuola di Francoforte era tentata, alternativamente, o dal vagheggiamento del ritorno puro e semplice all'età patriarcale, oppure dall'idea che l'emancipazione dell'uomo dovesse realizzarsi attraverso un tipo di scienza e di tecnica radicalmente nuovo, difficilmente immaginabile e tuttavia completamente diverso da quello che la scienza e la tecnica erano state finora».

IL PASTICCIO

Quanto i giovani del Sessantotto fossero consapevoli di questo pasticcio, non è facile dirlo. Fermo restando che, come sempre accade, la maggioranza si accodò senza approfondire troppo, e che furono in pochi a tirare le fila ideologiche della contestazione, restano due fatti che sembrano dimostrare una certa contraddizione interna al movimento.
Il primo fatto -lo abbiamo visto- è che nei cortei si inneggiava a Marx, Lenin, Mao Tze Twng e a Marcuse; e il professore di San Diego veniva così affiancato a personaggi in cui non si riconosceva.
Il secondo fatto è che, pur gridando «Viva Marx e viva Lenin», nessun sessantottino volle mai riconoscersi nel sistema che in quel momento -lo si voglia ammettere o no- rappresentava l'ortodossia marxista-leninista, e cioè l'Unione Sovietica di Breznev. E il partito che in quel momento era ancora il custode dell'eredità marxista-leninista in Italia, cioè il Pci, ebbe con i sessantottini (dopo gli iniziali tentativi di aggancio, presto falliti) un rapporto conflittuale e spesso di scontro.
È sintomatico che i miti del Sessantotto non siano stati quelli delle grandi conquiste dell'impero comunista, ma, piuttosto, eroi terzomondisti: Ho Chi Minh, Che Guevara, Fidel Castro, Nelson Mandela, il prete-guerrigliero Camillo Torres. La stessa Cina di Mao veniva considerata qualcosa di «altro», di più «evoluto» rispetto al socialismo reale dell'Urss. E infatti Jean-Paul Sartre, un altro pensatore a cui si ispirò buona parte del Sessantotto anche italiano, ebbe sempre un rapporto pessimo con il Partito comunista francese e quindi con l'ortodossia marxista leninista: ma nel 1970 andò a dirigere «La cause du Peuple» che era un giornale di ispirazione, appunto, maoista.
Anche se tutta collocabile nell'area dell'estrema sinistra, l'ideologia del Sessantotto fu -in definitiva- complessa e frastagliata. Convivevano da una parte il mito tutto illuminista del mondo nuovo e della società perfetta, che l'ideologo ridisegna a tavolino secondo Ragione; e, dall'altra, il sogno dell'utopia al potere, del rifiuto di ogni autorità.
Nella confusione, ben pochi sapevano in realtà a cosa credevano e cosa volevano. Tutti si dicevano marxisti. Ma, come osservò Raymond Aron, i giovani avevano «la particolarità di ignorare l'economia politica del tempo». Di Marx, gli studenti avevano letto tutt'al più le poche pagine del Manifesto del 1848, non certo i tre volumi del Capitale.
Si pensava che per dirsi marxisti bastasse volere il socialismo o il comunismo, essere anticapitalisti, battersi per una vita modesta e libera in una società egualitaria. Non a torto la scrittrice Vittoria Ronchey, ragionando sull'esperienza dell'insegnamento in un liceo, nel 1975 intitolò Figlioli miei, marxisti immaginari un suo libro divenuto famoso.


V - I GRUPPI

Confusioni e contraddizioni ideologiche a parte, resta il fatto che, come detto, il movimento del Sessantotto è tutto collo cabile all'estrema sinistra, e già dopo le primissime battute -lo abbiamo visto dalle dichiarazioni dello stesso Capanna- imboccò la strada che doveva portare alla «società comunista». Per realizzare la quale, dopo la fase dello spontaneismo, si passò a quella dell'organizzazione.
La logica era quella di sempre, secondo cui le verghe hanno più forza se riunite in fascio. Ma -secondo la tradizione della sinistra italiana- i litigi, le divisioni la radicalizzazione delle proprie convinzioni portarono alla nascita non di un'unica forza Rivoluzionaria», bensì a una nebulosa di gruppi e gruppuscoli, alcuni dei quali composti magari da poche decine di persone, spesso in aperto contrasto fra loro. Nel solo 1968 -si calcola- nacquero circa cento gruppi. D'altra parte, se nel cosiddetto arco costituzionale la sinistra era frammentata in quattro partiti (Pci, Psi Psiup e Psdi), non c'è da stupirsi se nell'area extraparlamentare lo sminuzzamento raggiunse livelli a volte paradossali.

C'È MOVIMENTO E MOVIMENTO

In fondo, il salto dal Sessantotto a ciò che ne seguì sta in un'iniziale che da minuscola diventò maiuscola. Il salto, insomma, ci fu quando il movimento studentesco diventò Movimento studentesco.
Quello che doveva essere, appunto, un «movimento» degli studenti che «prendevano coscienza» prima delle inadeguatezze della scuola e poi di quelle della società, si trasformò in una vera e propria organizzazione politica. Il Ms di Mario Capanna, Luca Cafiero e Salvatore Toscano non era già più, nel 1969, l'espressione di «tutti» gli studenti e di «tutta» la rivolta. Era una formazione, una sorta di partito con idee, progetti e finalità. Che non tutti condividevano. E dalle costole del movimento studentesco (con la minuscola) nacquero -oltre al Ms- Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio e così via.
C'è da dire che anche prima della contestazione gli studenti avevano le loro brave organizzazioni: le quali non erano però che la proiezione, nelle università, dei partiti istituzionali. L'Agi rappresentava i democristiani, il Glui i liberali, l'Ugi i socialisti e i comunisti. Tutta roba che in pratica non contava quasi niente, e che il Sessantotto spazzò via in breve tempo. Paradossalmente (ma non troppo) l'unica a resistere fra le vecchie organizzazioni universitarie fu quella di estrema destra, il Fuan: tagliati fuori prima della contestazione, i fascisti rimasero nel ghetto anche e ancor di più dopo l'esplosione del «movimento». E quindi poterono continuare la loro isolatissima battaglia senza dover cambiare nome. Estremisti da emarginare erano considerati prima, quando governava il miniparlamento Ugi-Agi-Glui, ed estremisti da emarginare continuavano a rimanere anche dopo.

I capi della contestazione non fecero alcuna fatica a sbarazzarsi dei vecchi organi rappresentativi degli studenti. Il primo movimento studentesco si consolidò soprattutto a Milano, alla Statale.
Cinque, sei, al massimo dieci persone dotate di carisma particolare riuscirono ad attirare sotto le proprie bandiere la stragrande maggioranza degli studenti decisi a «far casino». Di Capanna e delle sue doti oratorie s'è detto. Michelangelo Spada non gli era da meno, quanto a capacità di far presa: soprattutto sulle ragazze, che se lo contendevano. E quando proprio lui -il più bello- portò via la donna a un compagno, qualcuno nel movimento commentò che, in fondo, non era cambiato niente. E' un episodio banale, ma dimostra come le tanto disprezzate scale di valori del mondo borghese si riproponevano spesso, paro paro, anche fra i rivoluzionari. Quel piccolo fatto fece riflettere i più attenti.
Luciano Pero era invece l'intelligente, il colto, l'ideologo.
E al di sotto di questo triumvirato Capanna-Spada-Pero si muovevano altri personaggi di vario calibro. Popi Saracino, futuro capo dei «katanga», il servizio d'ordine del Ms il cui motto, «Prendi la spranga e diventa katanga», si ispirava ai mercenari congolesi affiancati alla repressione della rivoluzione anticoloniale. L'assistente Luca Cafiero, considerato dai compagni un sincero rivoluzionario ma preso un po' in giro perché educato a Oxford e perché girava in Triumph. Poi Ivan Della Mea, e qualche altro.
Le prime assemblee, pletoriche e osannanti, assomigliavano molto -anche se ai sessantottini questo paragone apparirà senza dubbio odioso- a certe adunate oceaniche dell'Italia e della Germania anni Trenta. Nella Milano del 1969 la meta a cui tutto sacrificare non era più la grandezza della Patria, ma la società comunista: non variava tuttavia l'assoluta e a volte acritica adesione alle direttive del «capo».
Il movimento studentesco diventò Movimento studentesco proprio quando venne meno questo aspetto plebiscitario e quando le diversità fra gli studenti cominciarono a prendere corpo e nome. Quando, appunto, altri leader adottarono all'unico Verbo le variazioni che ritenevano indispensabili per il trionfo finale delle masse di studenti e operai. Quando, insomma, nacquero gli altri gruppi.

E ALLORA LOTTA

Di questi altri gruppi, Lotta continua fu il più significativo, e quello destinato -nel decennio 1968-1977- a lasciare il solco più profondo.
Nacque nel 1969 dalle ceneri de Il Potere Operaio di Pisa (lo ripetiamo a costo di essere noiosi: è altra cosa rispetto al Potere operaio di Franco Piperno e Toni Negri), su iniziativa di colui che poi, di Lotta continua, diventerà l'indiscusso leader, Adriano Sofri.
Triestino di origine ma toscano di adozione, laureato alla Normale, già venuto alla ribalta per una clamorosa contestazione «in diretta» a Palmiro Togliatti venuto all'università per tenere una lezione-conferenza, Sofri faceva in quel tempo il professore di lettere. Piccolo, smilzo, nervoso, molto combattivo e molto dotato quanto a intelligenza, cultura e capacità dialettica, era venerato come un «piccolo Lenin» dai suoi seguaci, che non di rado tenevano una sua fotografia appesa alle pareti delle sezioni. Lasciò il gruppo de Il Potere Operaio con il progetto di allargare la contestazione dagli atenei alle fabbriche, e andò egli stesso, insieme con alcuni compagni, a volantinare davanti alla Saint Gobain a Pisa, alla Ercole Marelli, alla Falck, alla Breda e alla Pirelli a Milano, alla Fiat a Torino. Molti di quei volantini finivano con la frase «... e la lotta continua», che diventò poi il nome del movimento.
Non è facile definire il pensiero e la linea politica di Lotta continua, così come degli altri gruppi. Perché non è facile districarsi nel guazzabuglio dell'estrema sinistra di quegli anni, e cogliere le differenze fra un gruppo e l'altro senza cadere in errore.
Forse un po' grossolanamente, si può dire però che Lotta continua, almeno nei suoi primi anni, fu il più libertario e anarcoide dei gruppi; quello più fedele alla scintilla movimentista e spontaneista del 1968; quello più allergico all'idea del partito-guida, anche se poi in partito -con un capo, una segreteria nazionale e tante sezioni locali- alla fine si strutturò.
Come molte altre organizzazioni dell'area extraparlamentare, sosteneva che il sistema democratico-borghese si stava sempre più venando di fascismo. Che il vero pericolo di una dittatura di destra non veniva dal Msi o da settori golpisti dell'esercito, quanto dalla trasformazione, in senso sempre più autoritario, del capitalismo e dei partiti di governo. Il vero fascismo che incombeva, sosteneva dunque Lotta continua, era una forma più moderna e più mascherata rispetto a quello del ventennio: e non a caso proprio Lotta continua coniò il termine di «fanfascismo» durante un'accesissima campagna promossa nel 1972 per ostacolare l'elezione di Amintore Fanfani alla presidenza della Repubblica.
E come altri gruppi, Lotta continua riteneva l'imperialismo mondiale avviato verso una crisi ormai irreversibile. Il momento della rivoluzione era ormai vicino, e nei cortei i «lottatori» cantavano: «E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà».
Ciò che differenziava Lc dagli altri era la strategia disegnata per la presa del Palazzo d'Inverno. Se Avanguardia operaia, ad esempio, era leninista, Lotta continua era marxista. La prima sosteneva che il partito doveva essere l'avanguardia delle masse, la guida verso la rivoluzione; la seconda diceva invece che le masse non avevano alcun bisogno di essere guidate, e che dovevano fare esse stesse la rivoluzione. Mentre Lenin diceva: «Bisogna porsi alla testa delle masse», Sofri ribatteva: «Bisogna essere alla testa delle masse».
Lotta continua dava così l'idea di una vera democrazia dal basso, e di massa. Anche per quanto riguarda il discorso della violenza. Per Lotta continua, la violenza delle masse era la risposta naturale a quella che considerava la violenza interna, ontologica del sistema borghese. Si alla lotta armata, quindi, ma nelle piazze, popolo contro servi dei borghesi, e non con le bombe o con gli attentati compiuti da avanguardie organizzate come le Brigate rosse. Lotta continua fu così protagonista di innumerevoli scontri con la polizia e il suo servizio d'ordine è ricordato come uno dei più violenti e spietati: ma, a parte l'omicidio del commissario Calabresi (per il quale comunque i militanti di Lc coinvolti sono stati tutti assolti, sia pure dopo quattro processi: manca solo la sentenza definitiva da parte della Cassazione), non sono mai stati attribuiti a Lc episodi di terrorismo.

Ma paradossalmente, proprio quello che deteneva, con vanto, l'immagine di non-partito, di movimento tutto spontaneismo, poteva esibire un'organizzazione potente e precisa come nessun altro gruppo. Ha scritto Massimo Fini in una «mitica» mappa dei gruppi extraparlamentari pubblicata su «Linus» nell'ottobre del 1973:
«Lotta continua è strutturata come un partito politico. C'è una segreteria, un esecutivo nazionale, un comitato centrale. Le dimensioni sono nazionali, le sedi più di duecento con prevalenza al Sud, dove Lc raccoglie molti adepti nel sottoproletariato. Capo assoluto è ancora Adriano Sofri (34 anni). Nella complessa gerarchia del gruppo seguono Giorgio Pietrostefani (29), Guido Viale (28), Luigi Bobbio (30), Mauro Rostagno (32)... Se Sofri è Mao, Pietrostefani è il Lin Piao della situazione, il braccio destro politico e la formidabile mente organizzativa del gruppo. Viale è lo storico mentre Bobbio è il superteorico, l'ideologo alla Suslov che sta dietro le quinte e comanda senza parere. In quattro anni Pietrostefani (figlio del prefetto di Arezzo, n.d.a.) ha costruito una rete organizzativa territoriale capillare, con delegati per scuola, per fabbrica, per quartiere. Sono state create commissioni nazionali di studio (commissione scuola, commissione fabbrica, commissione quartiere, commissione esteri). I lottatori sono attivissimi nelle caserme con i PID (Proletari in Divisa) e nelle carceri con "I dannati della terra"».
Lotta continua ebbe anche due giornali. Il primo, chiamato appunto «Lotta continua», cominciò le pubblicazioni come settimanale il 1° novembre 1969: dodici pagine, molte foto e fumetti, 65.000 copie diffuse dai militanti. Direttore era Piergiorgio Bellocchio, lo stesso dei «Quaderni Piacentini». Si leggeva nella presentazione: «L'idea di questo giornale è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale, in una prospettiva rivoluzionaria». «Lotta continua» diventò quotidiano l'11 aprile 1972 e visse fino agli anni Ottanta.
Il secondo giornale era invece un settimanale diffuso solo al Sud, e si chiamava «Mo' che il tempo s'avvicina». Il titolo -a tutta pagina- del primo numero nel novembre del 1971, era sbrigativo: Gli sfruttati del Sud Per i padroni: Tutti delinquenti.
«Mo' che il tempo s'avvicina» ebbe vita breve: quattro mesi. Ma già nel gennaio del 1972 poté annunciare l'apertura, al Sud, di 26 sedi del movimento.

MOLOTOV E CHAMPAGNE

Il problema di Potere operaio era quello di trovare qualche operaio. Almeno per esibirlo durante le manifestazioni.
Figlio anch'esso de Il Potere Operaio di Pisa, era perlopiù composto da borghesi, intellettuali, figli di papà. Tremila adepti (secondo una stima del 1972), sessanta sezioni in tutta Italia, un esecutivo di trentacinque membri e un ufficio politico di sei: questa la «macchina» schierata per una rivoluzione che andava fatta, secondo una sferzante battuta messa in giro da altri gruppi dell'estrema sinistra, «con molotov e champagne».
E proprio con una bottiglia di champagne (Moet et Chandon, per la precisione) era confezionata una delle 250 molotov sequestrate dalla polizia, a capodanno del '72, a Milano, nel corso di un'operazione in cui furono arrestati due militanti di «Potop», come veniva chiamato allora Potere operaio: il marchese Francesco Mori Ubaldini degli Alberti Lamarmora, ventunenne con palazzo nobiliare a Biella, e Francesco Bellosi, figlio di un sindaco socialista della provincia di Como.
Capi dell'organizzazione, all'inizio degli anni Settanta, erano soprattutto tre: Franco Piperno, fisico ricercatore all'Università di Roma; Oreste Scalzone, ex leader del movimento studentesco della capitale, e Toni Negri, docente universitario a Padova, considerato l'ideologo del gruppo. Nomi più tardi ricomparsi in inchieste sul terrorismo. Del gruppo veneto faceva parte anche, inizialmente, Massimo Cacciari, poi rifluito nel Pci. Emilio Vesce era invece il direttore del settimanale.

Potere operaio fu un gruppo violento, zeppo di cattivi maestri: di questo, loro stessi non fecero mai mistero. Si leggeva sul loro giornale, «Potere operaio»: «Organizzando la nostra violenza possiamo avere tutto quel che vogliamo... L'unica soluzione è la violenza aperta, e dimostrare che la violenza paga... Come diceva Lenin, la democrazia è il fucile sulle spalle degli operai».
In quest'ottica persino il servizio militare veniva, contrariamente a quanto pensavano quasi tutti gli altri gruppi di estrema sinistra, considerato utile. Sempre dal loro giornale: «Riteniamo che il servizio militare possa servire ai proletari: è giusto imparare a maneggiare le armi e a combattere; si tratta di nozioni utili. Una forza di masse armate può avere anche un altro uso. Diventeremo i soldati rossi dell'insurrezione».
Proclami sterili? Minacce a cui non seguivano i fatti? Evidentemente no. Il giornale di Potere operaio non si limitava alle enunciazioni di idee e propositi, ma teneva informati i lettori anche con «bollettini militari delle lotte». Come quello pubblicato nel marzo 1971 in cui si elencavano le azioni dei due mesi precedenti, azioni definite «primi passi della lunga marcia che si concluderà con l'eliminazione fisica, oltre che dei servi in borghese e in divisa, di chi li usa, li paga e li protegge».
Il resoconto delle «azioni» era lungo e dettagliato. Prima una serie di aggressioni e devastazioni a persone e sedi ritenute «fasciste», e poi: «Ottantasette poliziotti picchiati e feriti, sabotaggi gappisti alla Pirelli, alla Ignis, alla Fiat, alle raffinerie Garrone di Rivalta Scrivia, alla Necchi di Pavia; bruciati dalle Brigate rosse tre camion di gomme Pirelli a Lainate e incendiate tre auto di spioni alla Pirelli; a Roma incendiata la portineria della casa di Restivo, ministro di polizia, distrutte tre "gazzelle" della polizia e l'auto del preside fascista Liberti, devastato l'ufficio di Valerio Borghese, attaccate le filiali della Banca d'America e d'Italia, del Banco di Roma, del Banco di Napoli, del Banco di Santo Spirito, della Fiat, della Gulf».
Stando così le cose, non poté che abortire, nel gennaio del 1971, un tentativo di alleanza con il gruppo del Manifesto, che definì la linea di Potop «politicamente ingiustificata» e «un suicidio politico».
Nel luglio del 1973, a Rosolina, quattrocento delegati sancirono, di fatto, la fine di Potere operaio: lo sfaldamento e la scissione in più gruppi fu tale da seppellire armi e bagagli.
Ma in , realtà i «potopisti» continuarono ad agire in gruppi diversi, spesso sommersi, e torneranno a far parlare di sé alla fine degli anni Settanta nei «collettivi padovani» e nella rivista «Rosso» di Toni Negri, nell'altra rivista «Rosso nel movimento» di Oreste Scalzone, e nell'Autonomia operaia.
Il lungo black-out dei quadri di Potere operaio si interruppe infatti con il movimento del Settantasette, e nei periodi bui del dopo-sequestro Moro. Si leggeva nel 1979 su una rivista molto vicina ai «potopisti», «Preprint»: «Coniugare la terribile bellezza del 12 marzo 1977 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani diventa la porta stretta attraverso cui può crescere o perire il processo di sovversione in Italia».
Ma qui siamo già in un'altra storia.

DURI E PURI

Torniamo al 1968 e dintorni. E ai militanti «duri e puri» per eccellenza, quelli di Avanguardia operaia.
Nata a Milano proprio nel '68 (dirigenti di spicco: Massimo Gorla e Silvana Barbieri), verso il 1973 Avanguardia operaia poteva vantare, nella costellazione extraparlamentare, la maggioranza numerica nel capoluogo lombardo, dove contava settemila militanti. Il nucleo originario era formato da trotzkisti transfughi della quarta Internazionale e approdati al marxismo-leninismo dopo aver «lavorato» (ma solo politicamente) con gli operai delle fabbriche del Nord. Avanguardia operaia era molto forte nelle fabbriche medio-piccole, aveva egemonizzato i Cub (Comitati unitari di base) della Pirelli, e nonostante tutto aveva cercato di non perdere il contatto con gli studenti.
Sempre intorno al '73, si era data una struttura nazionale, facendo proseliti soprattutto a Torino, a Porto Marghera, a Roma e a Palermo, e «assorbendo» il Circolo Lenin di Mestre, il Circolo Rosa Luxemburg di Venezia, il Circolo Carlo Marx di Perugia, i circoli Lenin di Umbertide e di Foligno, l'Unità proletaria di Verona e la Sinistra operaia di Sassari.
Entrare in Ao non era facile. Bisognava, innanzitutto, essere presentati da un compagno; poi occorreva passare per una specie di noviziato e, infine, sostenere veri e propri esami ideologici. Tutto ciò perché Ao aveva il terrore degli «infiltrati», cioè di fascisti, poliziotti, agenti segreti, spie e quant'altro potesse minare, dall'interno, l'organizzazione.
Ma tanto scrupolo nella selezione dei militanti aveva anche un'altra ragion d'essere. Avanguardia operaia, come detto, era il coté leninista della sinistra extraparlamentare: cioè il partito-guida, l'avanguardia delle masse. La struttura, pertanto, era molto rigida, con una scuola-quadri efficientissima, e un indottrinamento degno di quello sovietico.
C'era, anche qui, un giornale, che anche qui si chiamava come il gruppo; e poi una rivista teorica, chiamata «Politica comunista».
E anche qui il ricorso alla violenza era prassi. Se Lotta continua era specialista negli scontri di piazza, e quindi nella guerriglia con la polizia durante le manifestazioni, e se Potere operaio flirtava con i primi terroristi, Avanguardia operaia si distingueva nelle imboscate ai «fascisti», nelle aggressioni venti-contro-uno, negli agguati, insomma, contro bersagli precisi. L'assassinio del diciannovenne missino Sergio Ramelli e l'attentato al bar di largo Porto di Classe a Milano -di cui parleremo più avanti- furono opera di «commando» di Avanguardia operaia, e rimangono nella storia di quegli anni -terrorismo a parte- come due degli episodi più vili e incomprensibilmente crudeli.
Verso la metà degli anni Settanta, Avanguardia operaia comincerà una serie di trasformazioni e fusioni che porterà poi alla nascita di Democrazia proletaria.

I FIGLI DI CAPANNA

S'è detto che il movimento studentesco, a un certo punto, diventò Movimento studentesco. Dell'antico triumvirato Capanna-Spada-Pero rimase solo il primo, essendo il secondo e il terzo emigrati in Lotta continua. Dell'antico spirito movimentista non rimase, invece, più nulla.
Il Movimento studentesco, rispetto alla massa di giovani ribelli che incarnava nel 1968, non aveva che il nome. Ma guai, allora, a farlo notare a Capanna e ai suoi fedelissimi, che del Sessantotto si consideravano gli unici veri eredi. Per loro, Lotta continua, Avanguardia operaia e compagni non erano, rispetto alla «contestazione globale», che figli di secondo letto.
Sta di fatto, però, che il Ms dei primi anni Settanta era cosa ben diversa dalla massa eterogenea del '68, e non riuscì mai a prendere la guida della contestazione come sperava, tanto da rimanere arroccato alla Statale di Milano, via Festa del Perdono, senza «sfondare», al massimo, che in qualche liceo.
I militanti a tempo pieno non erano più di cinquecento, fra cui i temibili «katanga» di cui s'è accennato: sprangatori dediti, spesso, più al pestaggio di altri giovani di estrema sinistra che non a quello dei «fascisti». «Fascista», del resto, veniva dal Ms etichettato chiunque la pensasse in modo diverso.
Fra i pestaggi «storici» del Ms alla Statale si ricordano quello del sindacalista della Uil Giuseppe Conti, accusato tra l'altro -con sorprendente moralismo bacchettone- di alzare il gomito e amare la notte. Poi quello dello studente Joseph Israeli, colpevole di essere ebreo in un momento in cui c'era il mito della causa palestinese: il Movimento studentesco lo definì, in un volantino, «uno dei responsabili dei servizi segreti israeliani incaricati in Italia di svolgere opera di spionaggio e di organizzare gli arruolamenti nell'esercito israeliano». Quindi quello di alcuni militanti di Lotta continua che s'erano permessi di volantinare davanti alla Statale.
Scrisse allora il giornalista Massimo Fini: «Se questo tipo di violenza piace molto ai katanga (i picchiatori più temuti di tutta la sinistra extraparlamentare), piace molto meno a Mario Capanna, costretto ad acrobazie verbali e ideologiche per giustificarla. Ma Capanna non è più, da anni, il padrone del Ms. Ne è il leader carismatico, osannato, idolatrato, riverito ma anche mummificato. Il vero padrone del Movimento studentesco si sussurra sia Turi Toscano. Più potente di Capanna si dice sia anche Luca Cafiero, l'attuale capo dei katanga. E più non dimandare. Dietro a questi tre, ma a notevolissima distanza, si affanna Emanuele Criscione, che rincorre da sempre una poltrona di leader».
Spiega ancora Massimo Fini che «se gli Lc sono marxisti e gli Ao sono leninisti, gli Ms sono stalinisti. Non per niente davanti alla Statale si può sentire urlare lo slogan rabbrividente "Viva Stalin Viva Beria Viva la Gpu" (la Gpu, per chi non lo sapesse, era la famigerata polizia politica di Stalin che, sotto Beria, raggiunse nefasti da Gestapo)».

Non a caso, fra i tanti movimenti extraparlamentari, il Ms fu quello che più a lungo flirtò con il Pci. Dopo le prime dichiarazioni di guerra del '68, Capanna pensò che in fondo il Parlamento era anch'esso un luogo di lotta, anche se non il principale, e il lavoro politico da compiere era quello di spostare a sinistra il Partito comunista.
Un lavoro, tuttavia, che era destinato a fallire, e a trascinare nella bancarotta anche il suo stesso ideatore. La linea morbida, cioè l'apertura ai partiti della sinistra tradizionale, costò a Capanna la leadership e persino la stessa permanenza nel Ms.
Mario Capanna fu addirittura espulso dal Ms (anche se ufficialmente si parlò di dimissioni) il 5 febbraio 1974, al termine di una sorta di «25 luglio» del Movimento studentesco, cioè di un ribaltone interno che portò Luca Cafiero e Salvatore Toscano al governo del movimento. Per le sue aperture, Capanna venne accusato di «deviazionismo di destra» e buttato fuori insieme con gli amici Giuseppe Liverani e Fabio Guzzini.
La spaccatura fu, tra l'altro, sul nome di Giuseppe Stalin: ripudiato da Capanna e i suoi, venerato da Cafiero e Toscano. I quali vinsero la battaglia del Ms soprattutto perché, mentre Capanna si era premurato di guardare all'esterno, e di tenere ottime public relations con stampa e intellettuali, loro si erano preoccupati di conquistare i quadri organizzativi del movimento, compreso il servizio d'ordine dei katanghesi. E così, quando -il 2 febbraio 1974- i quattrocento militanti del Ms si riunirono in assemblea per decidere quale delle due linee politiche dovesse prevalere, Capanna fu messo in minoranza.
La fine del barbuto leader del Sessantotto, comunque, precedette solo di poco quella della sua creatura. Il Movimento studentesco di Cafiero e Toscano non durò a lungo, e a Milano il divario numerico a favore di Avanguardia operaia divenne presto schiacciante. Nel febbraio del 1976, il Ms scomparve definitivamente per dar vita al Mls, Movimento lavoratori per il socialismo.

IL CLUB DEI RIBELLI

Più che un movimento, il Manifesto fu -ed è- una sorta di circolo di intellettuali, non privo di caratteristiche fortemente elitarie, che vuol fungere, oltre che da fronte d'opposizione, da coscienza critica per tutta la sinistra.
«Manifesto» è innanzitutto il nome del giornale (rivista dal giugno del 1969, quotidiano dall'anno successivo) fondato dal gruppo di Rossana Rossanda che uscì dal Pci -sbattendo la porta- nel 1968, dopo una durissima polemica sull'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Secondo la maggioranza del partito, i carri armati dell'Armata Rossa non erano entrati a Praga per seppellire le istanze di libertà soffocate dal socialismo reale, ma rappresentavano piuttosto il solito «aiuto fraterno» che la grande Unione Sovietica portava alle popolazioni sobillate da agenti provocatori al servizio dell'imperialismo americano. E così quando la Rossanda -con Magri, Pintor, Natoli e altri- chiese che il partito prendesse energicamente posizione contro l'intervento sovietico, in comitato centrale la discussione fu durissima, e Natta propose per i contestatori l'immediata radiazione.
La scissione fu la conseguenza inevitabile. Nacque così la rivista che già nel primo numero attaccò duramente l'Urss e la visione ortodossa del comunismo, sostenendo fra l'altro che occorreva rivedere la propria fede alla luce dei cambiamenti del capitalismo e della società.
Non che fossero illuminati, la Rossanda e gli altri, dal dono della profezia: accanto alla reprimenda antisovietica, infatti, si esaltava la Rivoluzione culturale cinese, cioè uno dei più bestiali tentativi di lavaggio del cervello di massa, accompagnato da un massacro dalle proporzioni ancora incalcolabili. Ma il Manifesto era comunque, nell'ambito della sinistra, una formazione nuova, che criticava l'ortodossia comunista e al tempo stesso prendeva le distanze dai movimenti extraparlamentari che predicavano, e praticavano, la violenza.
Numericamente, il Manifesto non è mai stato un gruppo molto significativo. Un test esemplare fu quello delle elezioni politiche della primavera del '72, quando il gruppo decise di presentarsi con una lista propria, anche con lo scopo di mandare in Parlamento (e quindi di far uscire dal carcere) l'anarchico Pietro Valpreda, detenuto per la strage di piazza Fontana.
Fu un buco nell'acqua: la lista del Manifesto prese 220.000 voti e nessun seggio. Valpreda rimase in galera, e il movimento dovette riporre nel cassetto il sogno di guidare un'estrema sinistra finalmente unita.
Non rimase dunque che tentare una guida, se non politica, almeno culturale. Il che attirò al Manifesto non poche ironie da parte degli altri gruppi, che lo chiamavano «la pulce sull'elefante sindacale» per la sua pretesa di dettare la linea alle confederazioni sindacali in tema di lotte operaie.
Fedele al cliché che la vuole sempre divisa e sempre litigiosa, la sinistra non guardò mai di buon occhio questi intellettuali un po' snob. Quando uscì il primo numero del quotidiano (formula rivoluzionaria, quattro pagine e 50 lire), «Lotta continua» lo salutò con un editoriale dal titolo Un giornale che non interessa e il Pci, che come al solito badava soprattutto al sodo, chiese: «Chi li paga?», insinuando il sospetto che il giornale fosse finanziato dagli agrari.
Il «manifesto», inteso come giornale, è tuttavia quanto di più professionalmente valido sia nato in quegli anni: e il fatto che a quegli anni sia sopravvissuto è un segno inequivocabile della sua superiorità sugli altri fogli partoriti dalla sinistra extraparlamentare.

BIGOTTI ROSSI

Fra tutti i gruppi dell'epoca, il più rigido e il più esigente fu senz'altro il P.C.(m.l.)I., sigla macchinosa che sta a indicare il Partito Comunista (marxista leninista) Italiano.
Nato a Livorno nel 1966, il P.C.(m.l.)I. diventò poi, nell'estate del 1968 a Milano, l'Unione dei marxisti leninisti italiani. Unione stava a indicare la fusione di due gruppi di fuoriusciti dal Pci, Falce e Martello e Bandiera Rossa. Leader erano Luca Meldolesi, Aldo Brandirali (negli anni Novanta passato a Comunione e liberazione e alla Democrazia cristiana) e Fausto Lupetti. Un posto non trascurabile lo occupava Enzo Lo Giudice, l'avvocato che nel 1992, durante l'inchiesta Mani pulite, ha difeso l'allora segretario socialista Bettino Craxi.
Come se non bastasse la confusione che regnava nell'area della sinistra ultrà, i militanti di questo gruppo -che come abbiamo visto aveva già due nomi: Partito Comunista (marxista leninista) Italiano e Unione- venivano chiamati in un altro modo, gli «emme-elle» (marxisti-leninisti, appunto); ma il gruppo stesso è addirittura ricordato con un'altra denominazione: Servire il Popolo. Che era poi la testata del settimanale dell'organizzazione. E poiché non c'è nome senza soprannome -il lettore ci perdoni: a questo punto si sarà già perso, ma non è colpa nostra- il Partito Comunista (marxista leninista) Italiano/Unione dei marxisti leninisti italiani/emme-elle/Servire il Popolo veniva beffardamente chiamato «Servire il pollo».
Gli altri gruppi si divertivano infatti a sfottere questo movimento che, pur essendo nato nel 1968, con lo spontaneismo e l'anarchismo del Sessantotto ben poco aveva a che fare. Il Partito Comunista marxista leninista aveva una struttura e una gerarchia rigidissime, disegnate in carta carbone su quelle del Partito comunista cinese, considerato quanto di meglio l'umanità avesse potuto produrre. Mao era il dio assoluto, per quelli di Servire il Popolo, che si proponevano principalmente di assolvere a una funzione di propaganda. La verità era quella, e bisognava diffonderla fra gli operai, fra tutti i proletari.
Violentissimi, ma più a parole che nei fatti, quelli di Servire il Popolo esigevano dai loro militanti una disciplina estremamente dura. Nessuno poteva tenere per sé più di settantamila lire al mese (il rimanente, ça va sans dire, andava al partito); bisognava sottoporsi periodicamente a una confessione (autocritica) collettiva e persino i rapporti sessuali erano rigidamente regolati: «I compagni è bene che si sposino fra di loro». E questi matrimoni marxisti-leninisti, con il loro rigidissimo rituale, involontaria parodia degli aborriti sposalizi borghesi, furono una delle creature più grottesche di quegli anni.

Se Servire il Popolo viveva nel culto idolatrico di Mao, quelli di Lotta comunista erano invece fortemente antimaoisti. Dicevano che Mao valeva Hitler, che il Vietnam del Nord era un paese imperialista e la Cina una repubblica socialfascista. Tanto bastò ai «lottatori comunisti» per attirarsi l'inevitabile qualifica di «fascisti» e per farsi massaggiare il cranio, non poche volte, con le famigerate «aste» (vere e proprie mazze spacciate per bandiere) e con le ancor più famigerate «Hazet 36», chiavi inglesi solitamente usate contro i fascisti veri.
Nata nel '69 e attiva soprattutto fra Milano e Genova, Lotta comunista era composta da poche centinaia di militanti, a loro volta ben agguerriti quanto a menare le mani. Non ha inciso che in modo estremamente marginale, nella storia di quegli anni. Va detto che ai «lottatori comunisti» gli altri estremisti dovrebbero quantomeno delle scuse: l'analisi di Lotta comunista su Mao, sulla Cina e sul Vietnam del Nord non era poi così sbagliata.


VI - A SCUOLA E IN FABBRICA

Questo, dunque, sia pur riassunto per sommi capi, è il panorama dei movimenti che dettavano legge nell'immediato post-1968.
Come si può notare, il numero dei militanti «effettivi» non era poi elevatissimo: e anche sommando quelli di Lc con quelli del Ms con quelli di Ao eccetera, non si ha una «milizia» sufficientemente agguerrita, sulla carta, per tenere in scacco la scuola e le piazze per così tanto tempo.
Ma come sempre accade, se la maggioranza è in sonno, una minoranza particolarmente intraprendente basta a soggiogare anche un'intera nazione.

LA MAGGIORANZA SOMMERSA

Chi frequentò licei e università in quegli anni -parliamo delle grandi città- può ricordare che, in fondo, la stragrande maggioranza dei giovani continuava a inseguire la vita di sempre, e non aveva alcuna voglia di fare la rivoluzione. Per vivere la giovinezza, in un Paese certo non sofferente per condizioni economiche generali, bastavano -ai più- il campionato di calcio e le ragazze, le motociclette e le vacanze, la paghetta settimanale dei genitori e un diploma per assicurarsi il tanto disprezzato avvenire piccolo-borghese.
Questa massa sommersa di studenti indifferenti, tuttavia non risultava e non risaltava; non si vedeva, non faceva notizia. Sulle scuole sventolavano (a volte non metaforicamente) le bandiere rosse, e a nessuno dei «tiepidi» saltava in testa di andare a buttarle giù.
Viltà? Quieto vivere? Anche. In fondo, ai sessantottini tutti dovevano, comunque, qualcosa. La contestazione aveva introdotto il «sei politico», per cui la promozione era più certa e meno faticosa. Aveva introdotto il diritto all'assemblea e allo sciopero, per cui ogni settimana c'erano montagne di «ore buche»: bastava che in Spagna, o in Cile (non all'Est, s'intende) venisse violato qualche diritto civile, e le lezioni si bloccavano; e mentre i militanti andavano in corteo, gli altri potevano giocare a pallone. Aveva aperto (e non poco) gli orizzonti a chi era a caccia delle prime esperienze sessuali. Aveva sancito la libertà di fumare in classe. Aveva rovesciato le gerarchie familiari, per cui guai al padre che osasse opporsi a una vacanza da soli in autostop.
Da un certo punto di vista, la vita quotidiana dello studente degli anni Settanta era dunque ben più comoda e spensierata di quella del decennio precedente. E se il movimento poté, nonostante l'inferiorità numerica, dominare una maggioranza di studenti «disimpegnati», questo avvenne anche perché lo stesso movimento arrivò a godere di un pur tacito consenso di comodo.
Ma va anche detto che opporsi ai «rossi», come venivano sprezzantemente chiamati i contestatori, voleva dire rischiare la scatola cranica. Mai i reparti craniolesi ebbero tanti clienti come in quegli anni: ci furono giovanissimi sprangati solo per non aver preso un volantino, o per aver scritto un tema in classe non «in linea». E gli studenti che avrebbero voluto reagire alla tracotanza di chi si arrogava il diritto di scelta sui manifesti da affiggere e quelli da cestinare, incontrarono schiere di professori pavidi, che tutto consentirono a chi dimostrava di saper alzare la voce, e le mani.
Dopo non aver saputo dire quei «si» che nel 1968 andavano detti, la scuola non seppe dire neppure quei «no» che andavano urlati. Se tanti sgabuzzini dei licei (pateticamente chiamati «aule studenti») poterono essere adibiti a depositi di spranghe e di bastoni, lo si deve a presidi ben più vili di quella maggioranza di studenti che si fece sopraffare dalla minoranza extraparlamentare. Persino nel linguaggio molti professori si adeguarono al nuovo clima, e si videro attempati docenti infarcire di volgarità, per essere «moderni e democratici», le loro lezioni.
Nel 1987 i giudici della Corte d'assise di Milano, nel motivare la sentenza con cui condannarono gli assassini del giovane missino Sergio Ramelli (ucciso nel 1975), ebbero parole durissime nei confronti della scuola di allora: «Non meno sgomento prende nel vedere come il diciottenne Ramelli fu lasciato solo, isolato ed espulso come corpo estraneo grazie all'assenza o alla pavida quiescenza di una pubblica istituzione che tutto tollerò».

SEQUESTRO ALL'UNIVERSITA'

D'altra parte, quei pochi professori che cercarono di opporsi alle violenze degli extraparlamentari dovettero a loro volta correre dei rischi. Un fatto divenuto simbolico è quello del sequestro del professor Pietro Trimarchi, ordinario di diritto alla Statale di Milano.
L'11 marzo 1969 Trimarchi fu tenuto sotto sequestro, per quattro ore e mezza, nell'aula 208 dell'Università, da un gruppo di studenti della facoltà. Il docente era colpevole di aver trattenuto (come la legge gli imponeva di fare) lo statino a uno studente che si era presentato impreparato all'esame. La mancata restituzione dello statino faceva si che lo studente non avrebbe potuto ripetere l'esame nell'appello immediatamente successivo. Trimarchi fu dunque sequestrato e «processato» da Capanna e compagni, e fu liberato solo in seguito all'intervento della polizia.
Pochi giorni prima, di un episodio analogo era rimasto vittima un altro docente della Statale, il professor Antonio Amorth, ordinario di diritto amministrativo. E dieci giorni dopo, il 21 marzo, Trimarchi fu aggredito e preso a sputi e insulti in via Albricci, nei pressi dell'Università.
Per questi tre fatti, la magistratura milanese ordinò tredici arresti, la maggior parte dei quali fu eseguita all'inizio di giugno. In carcere finirono Mario Capanna e altri «capi» o semplici militanti del Ms.
Immediata la reazione del movimento, con una manifestazione di millecinquecento giovani davanti a palazzo Marino, sede del Comune. E la Camera del Lavoro -a dimostrazione della tattica doppiogiochista tenuta dal Pci nei primi anni della contestazione- emise un comunicato in cui, con indignazione, si denunciava: «La mano pesante della giustizia si è abbattuta su un gruppo di studenti, colpevoli di avere lottato e manifestato per fare diversa la scuola e diversa la società».
Dalla cronaca degli arresti apparsa sul «Corriere della Sera» del 10 giugno 1969: «Bussando alle porte di alcuni dei ricercati, gli agenti si sono trovati davanti austeri maggiordomi che chiedevano se era proprio il caso di disturbare, a quell'ora, "il signorino"».

STUDENTI E OPERAI UNITI NELLA LOTTA

Il movimento degli studenti, a un certo punto, ritenne che l'alleanza con gli operai fosse un momento fondamentale del processo rivoluzionario, tanto più che nelle fabbriche i motivi per aprire una stagione di contestazione e di rivendicazioni non mancavano.
Intanto era ripresa -massicciamente- l'immigrazione dal Sud verso il Nord. Nel 1967 il cosiddetto «saldo migratorio» aveva superato le 120.000 persone; e, fino al 1974, si mantenne sempre al di sopra delle 100.000 unità all'anno. Il momento economico non era tale da poter soddisfare la richiesta di lavoro di masse così imponenti di immigrati, spesso costretti a sistemazioni di fortuna, in appartamenti privi di servizi igienici e persino di acqua corrente, come rivelò un'indagine in corso Garibaldi a Milano.
L'operaio-tipo, poi, era sensibilmente diverso da quello degli anni Cinquanta. La scuola gli aveva garantito un'istruzione senz'altro superiore. E tanto più era istruito, tanto meno era disposto a sopportare il nuovo clima introdotto nelle fabbriche dalla crescente meccanizzazione e dall'aumento dei ritmi di lavoro. La nuova organizzazione industriale aveva accentuato le differenze all'interno della stessa classe operaia, ed era nata la figura del capo-squadra, incaricato anche di sorvegliare i suoi sottoposti, e da questi, logicamente, malvisto.
I salari, infine, erano mediamente fra i più bassi dei moderni paesi occidentali. C'era insomma, nelle fabbriche, la materia per l'esplosione di una protesta collettiva. Ce n'era più lì, a voler ben vedere, che non nelle scuole e nelle università.
E infatti la protesta esplose. Con un anno di ritardo rispetto agli studenti, perché il Sessantotto degli operai è il 1969, più precisamente l'autunno del 1969, l'«autunno caldo».

LA RIVOLUZIONE DEI CUB

Quanta parte abbiano avuto, i giovani sessantottini, nella decisione degli operai di scendere in piazza, è difficile dirlo. E' difficile, cioè, dire se senza il Sessantotto degli studenti ci sarebbe stato il 1969 degli operai.
Certi sono, tuttavia, due fatti. Il primo è che un legame fra le proteste era quasi naturale, e c'è anzi da stupirsi se in Italia la lotta degli operai seguì di un anno quella degli studenti. In Francia, ad esempio, le due contestazioni furono contemporanee.
Il secondo fatto è che la protesta operaia del 1969 fu senz'altro un elemento di rottura rispetto al passato. Sia stato l'influsso degli studenti, o sia stato un nuovo clima generale a cui nessuno poteva sottrarsi, sta di fatto che le lotte operaie del 1969 non si svilupparono secondo la loro tradizione, cioè sempre e soltanto sotto il controllo «centrale» del sindacato.
L'operaio del 1969 era in un certo senso «figlio» degli incidenti di piazza Statuto del '62. Non si accontentava di delegare le proprie rivendicazioni a un rappresentante, e non intendeva sottostare a un contratto nazionale di lavoro per l'intera categoria: voleva, al contrario, continuare la sua battaglia in fabbrica.
Forse l'esempio più illuminante è quello della Pirelli di Milano. Nel febbraio del 1968 il sindacato aveva siglato il contratto nazionale dei lavoratori della gomma: dopo tre giorni di scioperi, erano stati sanciti alcuni aumenti salariali invero piuttosto modesti. Nel giugno del 1969 un gruppo di operai e di impiegati della Pirelli, «assistiti» da Avanguardia operaia (ecco qui il lavoro dei movimenti extraparlamentari nelle fabbriche), fondarono i Cub, Comitati unitari di base, un sindacato autonomo che aveva il compito di proseguire a livello di fabbrica quella lotta che il sindacato ufficiale aveva già chiuso a livello nazionale. I Cub crebbero e si moltiplicarono in moltissime fabbriche italiane.
Si inaugurò così una stagione del tutto nuova. I Cub si battevano affinché il salario diventasse una «variabile indipendente» dalla situazione economica generale e dell'impresa. Si battevano perché la paga fosse la stessa in ogni regione d'Italia; per diminuire il divario fra le buste-paga degli impiegati e quelle degli operai; perché ciascun lavoratore passasse automaticamente, dopo un certo numero di anni, a una categoria superiore; perché le condizioni di lavoro fossero meno pesanti e meno pericolose.
Nuova era poi la strategia per raggiungere questi obiettivi. Dagli universitari fu mutuata la pratica delle assemblee, dove gli operai potevano esprimere direttamente, senza che lo decidesse un sindacalista, cosa volevano e come lo volevano; fu infranta la regola secondo cui bisognava sospendere le agitazioni durante le trattative fra sindacato e azienda, e anzi venne introdotta una serie di nuove forme di scioperi: quello a singhiozzo, che prevedeva il ripetersi di piccole interruzioni durante la giornata; e quello a scacchiera, una specie di turnazione delle astensioni, con la quale in ogni momento c'erano reparti che lavoravano e altri no.
Anche nelle fabbriche, così come nelle scuole, le forme di lotta venivano sovente imposte con la forza. Il «picchettaggio» davanti agli ingressi, spesso compiuto con l'aiuto degli studenti, impediva l'accesso in fabbrica ai «crumiri» che non volevano scioperare; e, come ha osservato lo storico Paul Ginsborg, «spesso capetti e dirigenti di basso rango erano minacciati di violenza fisica, e talvolta venivano picchiati fuori dalla fabbrica da gruppi di operai (i cosiddetti "pestaggi di massa")».

«COSA VOGLIAMO? TUTTO»

L'«autunno caldo» ebbe ovviamente prodromi importanti. Già nei mesi di maggio e giugno alla Fiat Mirafiori operai «selvaggi e incazzati», come li definì «Lotta continua», avevano organizzato una serie di scioperi per migliorare le condizioni di lavoro. Le lotte erano coordinate da un'assemblea di studenti e operai che si teneva alla facoltà di medicina.
Quando, all'inizio di luglio, i sindacati ufficiali proclamarono uno sciopero generale contro il caro-affitti, gli operai e gli studenti riuniti in assemblea decisero di organizzare una sorta di polemica contromanifestazione: «Secondo questi signori la lotta di classe si fa solo certi giorni dell'anno, come le feste comandate, e sono loro a decidere quando. Ma noi non aspettiamo il permesso di nessuno».
Così il 3 luglio 1969 per le strade di Torino, a fianco degli operai iscritti al sindacato, che chiedevano affitti meno onerosi, sfilò un corteo formato dagli studenti e dai giovani operai di Mirafiori che gridavano: «Che cosa vogliamo? Tutto». Altro che affitti a buon prezzo. Ci furono scontri durissimi con la polizia e barricate fin quasi all'alba, in corso Traiano.
Uno dei protagonisti delle lotte operaie a Mirafiori fu Leonardo Marino, l'ex militante di Lotta continua venuto alla ribalta della cronaca nel luglio del 1988, quando confessò di essere uno degli autori dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Racconta:
«Lavoravo alla catena di verniciatura dell'officina 54, e non ero iscritto al sindacato. Quando cominciarono gli scioperi, io ero uno dei più scalmanati. Ai cancelli venivano a volantinare quelli del Movimento studentesco e di Potere operaio, che però avevano scarsissimo seguito fra gli operai, e Lotta continua, a cui io aderii.
«Durante l'autunno caldo la Fiat sospese 120 operai. Io facevo parte di quel gruppo. I sindacati organizzarono una manifestazione al Palazzetto dello Sport. Presi la parola a nome di tutti i sospesi e contestai i sindacati».

LA RIVINCITA DEI SINDACATI

Tuttavia, nonostante questa influenza che i gruppi del Sessantotto esercitarono nelle fabbriche, la storia dell'«autunno caldo» e in genere delle lotte operaie degli anni Settanta seguì una strada diversa da quella della contestazione giovanile.
I sindacati, infatti, alla lunga si mostrarono molto più abili dei partiti. Riuscirono a cavalcare la tigre della protesta operaia molto meglio e molto più di quanto il Pci e le altre forze della sinistra tradizionale non furono in grado di fare con la contestazione studentesca. Cgil, Cisl e Uil seppero dare l'impressione di una concreta autonomia rispetto a Pci, Dc e Psi. In particolare la Cisl riuscì a sganciarsi dal suo partito di riferimento, la Dc, e accolse elementi estremisti che spesso, da «cattolici-rivoluzionari», scavalcavano a sinistra la stessa Cgil.
I sindacati seppero far proprie molte istanze della «base» e sposarono -salvo poi pubblicamente pentirsene- scelte azzardate come quella del «salario come variabile indipendente», che a conti fatti si rivelò suicida. Accettarono di dar battaglia sul diritto d'assemblea in orario di lavoro, sulla riduzione dell'orario di lavoro, sugli aumenti uguali per tutti. E il contratto nazionale dei metalmeccanici, firmato nel dicembre del 1969, alla fine di una serie di scioperi che coinvolse un milione e mezzo di lavoratori, rappresentò un'indubbia vittoria del sindacato, che era riuscito a non smarrire la leadership delle lotte operaie.
E questa leadership fu anzi rafforzata, dal 1970 in poi, dall'istituzione dei consigli di fabbrica, organi di rappresentanza sindacale formati da operai votati dai loro stessi colleghi. Ogni settore delegava un lavoratore a rappresentarli in consiglio, e questo diede la sensazione di una vera «democrazia dal basso» che si conciliava perfettamente con gli ideali del Sessantotto.
In realtà, i consigli di fabbrica erano una creazione dei sindacati ufficiali, Cgil in testa, che riuscirono così a tenere sempre sotto controllo le fabbriche e ad evitare di passare le consegne ai gruppi rivoluzionari.
Se la protesta operaia poté tornare presto sui binari della sinistra tradizionale, non fu però soltanto a causa di una superiore abilità di manovra dei sindacati rispetto al Pci. Un ruolo fondamentale lo giocò anche una mai domata avversione che lo zoccolo duro della classe operaia continuava, malgrado tutto, a nutrire nei confronti degli studenti.
Il collegamento fra le lotte delle scuole e quelle delle fabbriche è in gran parte una leggenda costruita da una certa retorica sessantottina: in realtà la «tuta blu» alle prese con la pesante vita del reparto e con i conti familiari da far faticosamente quadrare guardava con sospetto, se non con aperta antipatia, il giovane universitario che gli si affiancava in corteo gridando «Studenti e operai uniti nella lotta». L'operaio pensava, e molto spesso non a torto, che il «rivoluzionario» che gli stava accanto altri non era che un figlio di papà che poteva permettersi di fare l'università, e che viveva la lotta classe come un eccitante gioco di gioventù. Non a caso in più di un'occasione furono proprio gli operai a prendere a randellate quelli che consideravano come dei fastidiosi provocatori.
Al di là di certe dotte dissertazioni e indagini sociopolitiche, è anche per tutto questo che certe influenze iniziali non ebbero un grande seguito, e che le contestazioni operaie e studentesche non si sono mai incontrate più di tanto.


VII - PIAZZA FONTANA E LA PISTA ANARCHICA

Alle 16.37 di venerdi 12 dicembre 1969, nel salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, scoppia una bomba. Sedici morti, ottantasette feriti.
I morti sono tutti clienti della banca: coltivatori diretti, fittavoli e imprenditori agricoli della provincia che si erano dati convegno per le tradizionali contrattazioni. Degli ottantasette feriti, quarantacinque sono anch'essi clienti; trentatré sono dipendenti; sette stavano camminando in piazza Fontana, quindi all'esterno della banca, e sono stati raggiunti da una raffica di schegge; due si trovavano all'interno del ristorante «L'Angelo», che è lì nel paraggi.
Nessuna delle vittime è un artefice o un protagonista della «contestazione», o un rappresentante del «sistema». Tutti semplici cittadini. Con piazza Fontana comincia così una nuova, misteriosa strategia: quella, appunto, del massacro degli innocenti, ordito per fini politici, o per chissà quali altri interessi. Nei cosiddetti «anni di piombo» le stragi di questo tipo saranno complessivamente otto, con 145 morti e 744 feriti.
Il 12 dicembre del 1969, dunque, segna una svolta nella storia d'Italia.

Oggi, dopo quasi un quarto di secolo e dopo nove processi finiti con assoluzioni generali, ancora non sappiamo chi mise la bomba in piazza Fontana e chi la fece mettere. La strage è stata attribuita prima agli anarchici, poi ai fascisti, poi ai servizi segreti, quindi a una joint venture fra i tre. Infine, agli americani, che attraverso la Cia avrebbero fatto da burattinai.
Ma la verità non è stata ancora raggiunta. E anche in questo la strage di piazza Fontana ha segnato l'inizio di un'epoca: quella di una lunghissima, forse purtroppo infinita impunità. Perché anche le sette stragi che seguirono fino al 1984 sono rimaste in gran parte, come vedremo poi, senza colpevoli.
Molti dicono che la verità non è stata raggiunta perché non si è voluto raggiungerla. Si punta l'indice contro i depistaggi degli uomini dei servizi segreti e contro le reticenze motivate dal «segreto di Stato». Siano o no fondate queste accuse, le indagini sulle stragi restano comunque una delle macchie più vergognose per le istituzioni dell'Italia repubblicana: quantomeno per inefficienza.
Vediamo di ricostruirle.

UN PIANO DI GUERRA

Intanto, un'osservazione. Troppo spesso, e troppo semplicisticamente, si fa partire quella che viene chiamata «strategia della tensione» con la bomba di piazza Fontana. Ma non è così e anzi la strage della Banca Nazionale dell'Agricoltura non può essere analizzata se non la si inserisce in un contesto più ampio.
Piazza Fontana è considerata l'inizio del Terrore perché la prima volta si contarono dei morti, ma già da più di un anno in Italia c'era chi andava seminando bombe. E, come vedremo, quella dei bombaroli non era un'unica organizzazione. Contrariamente a quanto oggi si vuol far credere, in quella calda fine degli anni Sessanta non erano solo i fascisti o comunque «le forze reazionarie» dello Stato a utilizzare la dinamite come strumento di lotta politica.
Il 9 dicembre 1969, tre giorni prima della strage, il ministro degli Interni Franco Restivo aveva relazionato la Camera dei deputati sulla situazione dell'ordine pubblico, e aveva fra l'altro informato: «Dalla metà del 1968 ci sono stati 51 attentati con materiale esplosivo o incendiario. Di 28 sono responsabili estremisti di sinistra, di 23 responsabili estremisti di destra».
Probabilmente, gli attentati erano stati molti di più. Anche perché le parole del ministro Restivo fanno pensare che i dati fossero relativi solo agli episodi dei quali erano stati scoperti i colpevoli. E infatti una contro-inchiesta eseguita da militanti della Nuova sinistra arrivò a concludere che dal 3 gennaio al 12 dicembre 1969 c'erano stati, in tutta Italia, ben 145 attentati con esplosivi.
Particolarmente importanti erano stati gli attentati dell'aprile e dell'agosto del 1969.
Il 25 aprile, alle sette e alle nove di sera, due bombe scoppiarono nel padiglione della Fiat alla Fiera Campionaria di Milano e all'Ufficio Cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, all'interno della stazione centrale, sempre a Milano: una ventina di feriti in tutto.
Erano invece addirittura una dozzina le bombe piazzate, nella notte fra l'8 e il 9 agosto '69, su vagoni di prima classe delle linee ferroviarie Pescara-Roma, Roma-Venezia, Roma-Lecce, Trieste-Roma, Milano-Venezia, Venezia-Milano, Bari-Trieste, Trieste-Domodossola. Otto di queste bombe esplosero, ferendo undici persone: le altre vennero disinnescate in tempo.
Gli attentati del 25 aprile e dell'8-9 agosto fanno pensare a un'orchestrazione, a una strategia: non può certo essere casuale la contemporanea presenza, in una notte, di una dozzina di bombe sulle linee ferroviarie di tutta Italia. A un certo punto, insomma, qualcuno aveva pensato di far partire un piano d'attacco ben organizzato.

E così era avvenuto anche il 12 dicembre 1969. Quel giorno, infatti, non ci fu solo l'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Quel giorno le bombe furono cinque.
Una, appunto, in piazza Fontana. Un'altra alla sede della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala a Milano. Un'altra in un sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro di Roma. Le altre due, sempre nella capitale, all'Altare della Patria, accanto al sacrario del Milite Ignoto.
La bomba alla Banca Commerciale di Milano venne scoperta da un commesso, Rodolfo Borroni, alle 16.25, dodici minuti prima dello scoppio in piazza Fontana. L'ordigno venne sotterrato da un agente di polizia in un giardino interno alla banca: poiché è altamente probabile che si trattasse dello stesso esplosivo usato in piazza Fontana, gli inquirenti avevano a disposizione un formidabile indizio per partire alla caccia degli autori della strage. Ma la bomba trovata alla Commerciale venne fatta brillare la sera stessa. «Per motivi di sicurezza», si spiegò. Su questa forse maldestra decisione di far esplodere la bomba trovata alla Commerciale si sono fatte molte congetture; collegando questo fatto agli innegabili depistaggi poi emersi durante le indagini, s'è pensato più volte che anche quella decisione fosse mirata a garantire l'impunità agli attentatori. Vanno dette però due cose: una è che bomba e timer vennero comunque fotografati, e quelle foto sono tuttora agli atti dell'inchiesta riaperta dal giudice milanese Guido Salvini; e l'altra è che per pensare a un depistaggio bisognerebbe credere che anche i poliziotti e gli artificieri intervenuti alla Commerciale di Milano fossero al corrente, anzi fossero complici, del complotto.
Ma continuiamo con l'elenco delle bombe di quel giorno.
Quella messa alla Banca Nazionale del Lavoro di Roma esplose alle 16.55: rimasero feriti quattordici impiegati. Le due messe all'Altare della Patria scoppiarono alle 17.22 e alle 17.30: quattro feriti lievi.
Cinque bombe, insomma, nell'arco di un'ora, sull'asse Milano-Roma; e ben tre contro banche. Era evidente che quel 12 dicembre era scattato un piano di guerra.

BOMBE E ANARCHIA

Di fronte a questo diluvio di bombe, polizia e carabinieri annasparono alla ricerca di uno spiraglio per iniziare un'indagine. Si trovavano infatti, gli inquirenti, a dover affrontare un fenomeno del tutto nuovo, e la verità è che non sapevano dove mettere le mani.
Le piste da seguire nulla avevano a che fare con la tradizionale malavita. Così, gli investigatori dovettero partire alla caccia dei colpevoli senza poter contare sul consueto puntello degli informatori. Una carenza a cui si era cercato di sopperire, è vero, infiltrando agenti nei gruppi estremisti: ma questo lavoro di intelligence, in quei mesi caldi del 1969, era appena agli inizi e non aveva ancora dato i suoi frutti.
Così, le prime indagini furono piuttosto confuse. Si perse tempo, e non poco, a setacciare l'unico ambiente che, con le bombe, qualcosa a che fare l'aveva già avuto: quello dell'irredentismo sudtirolese, cioè dei gruppi che volevano il ritorno dell'attuale Alto Adige alla patria naturale, l'Austria. Ma quei gruppi erano totalmente estranei ai «botti» della primavera-estate 1969.
Gli attentati del 25 aprile alla Fiera e all'Ufficio Cambi della stazione centrale vennero così addossati, dopo un'indagine della questura milanese, a un gruppo di anarchici, costituito da Paolo Braschi, venticinque anni, imbianchino di Livorno, da Paolo Faccioli, diciannove anni, figlio di una professoressa di liceo e di un chirurgo di Bolzano, e da Angelo Della Savia, ventenne elettricista di Parabiago, in provincia di Milano. E altri presunti complici. A questo gruppetto venne attribuita una serie di attentati dinamitardi, alcuni dei quali rivendicati con volantini. Le indagini furono condotte, in particolare, da un poliziotto che diventerà, purtroppo per lui, famoso: il commissario Luigi Calabresi. Il quale riuscì ad accumulare una serie di riscontri e, fra l'altro le confessioni di Braschi e Faccioli.
Ci soffermiamo su questa inchiesta perché è all'origine della «pista anarchica» seguita poi per piazza Fontana, perché spiega come mai si indagasse sugli anarchici e perché segna l'inizio di un certo modo di fare informazione o, come si diceva allora, «controinformazione»: segna l'inizio, cioè, di un giornalismo d'assalto che, se ebbe indubbi meriti, sconfinò spesso nella pratica della mistificazione.

Braschi e Faccioli, alla fine dell'istruttoria, ritrattarono le loro confessioni, dicendo di essere stati torturati dalla polizia. E il processo Braschi-Faccioli-Della Savia è ricordato quasi unanimemente come una montatura, come una prova della malafede della polizia, che cercava a tutti i costi di incastrare gli anarchici, che in realtà con le bombe non c'entravano niente.
Nelle ricostruzioni di quei fatti, si legge sempre che gli anarchici furono assolti con formula piena, riconosciuti innocenti.
Ancora nel marzo 1993, nel libro (peraltro ottimamente documentato) Piazza Fontana di Giorgio Boatti (Feltrinelli), si legge: «E, alla fine, gli anarchici imputati per gli attentati verranno assolti: per non aver commesso il fatto».
Questa è la dimostrazione di come una non-verità possa passare alla storia come un dato certo e incontestabile. Della Savia, Braschi e Faccioli vennero infatti condannati in tutti i gradi di giudizio.
La sentenza di primo grado fu emessa dalla Corte d'assise il 28 maggio 1971. Angelo Della Savia fu condannato a 8 anni, Paolo Braschi a 6 anni e 10 mesi, Paolo Faccioli a 3 anni, 6 mesi e 20 giorni.
Della Savia venne riconosciuto colpevole degli attentati compiuti all'ufficio annona del Comune di Genova il 3 dicembre 1968 (un ferito, il portiere), al Palazzo di Giustizia di Livorno il 25 dicembre successivo, alla sede milanese della Banca d'Italia il 16 giugno 1968, a palazzo Madama il 28 febbraio 1969, al ministero della Pubblica Istruzione il 27 marzo 1969 e al Palazzo di Giustizia di Roma il 31 marzo successivo. Fu ritenuto colpevole, inoltre, di detenzione e di fabbricazione di ordigni esplosivi.
Braschi fu dichiarato responsabile di concorso negli attentati di Genova e di Livorno, di detenzione, porto e fabbricazione di esplosivi. Faccioli di concorso con Della Savia nell'attentato al Palazzo di Giustizia di Roma (con l'attenuante della minima partecipazione) e di porto di esplosivi.
Il 7 aprile 1976 la Corte d'assise d'appello confermò le condanne, riducendo le pene: 3 anni e 4 mesi a Della Savia, 3 anni e 2 mesi a Braschi, 1 anno e 4 mesi a Faccioli.
La sentenza fu dichiarata definitiva il 2 dicembre 1976 dalla Corte di Cassazione.
Certo: i tre erano stati assolti per gli attentati del 25 aprile, per i quali, nel 1982, verranno condannati gli estremisti di destra Franco Freda e Giovanni Ventura. La «cellula veneta» di Freda e Ventura è stata ritenuta responsabile di diciassette attentati dinamitardi organizzati fra il 15 aprile e il 9 agosto 1969.
Ma il processo agli anarchici non verteva solo sulle bombe alla Fiera e all'Ufficio Cambi. E continuando a ripetere che i tre furono assolti, senza specificare che l'assoluzione riguardava solo gli attentati del 25 aprile, e senza aggiungere che furono condannati per altri attentati, si vuol negare una verità storica: e cioè che le bombe, in quel periodo, non le mettevano solo gli estremisti di destra.

L'ARRESTO DEL BALLERINO

E così la polizia, nelle prime battute dell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana, imboccò «preferibilmente» (come disse il questore Marcello Guida) la pista anarchica. Anarchici erano, in maggioranza, i 150 fermati per controlli nelle ore immediatamente successive alla carneficina della Banca Nazionale dell'Agricoltura.
Ma a dare una svolta decisiva a questa pista fu la Procura della Repubblica di Roma, che chiese e ottenne l'arresto di Pietro Valpreda. Assolto (sia pure per insufficienza di prove) nei vari processi che ha subito, Valpreda è diventato per la sinistra un martire, un simbolo della repressione, una vittima del complotto per la strage di Stato. Per farlo tornare in libertà, dopo 1100 giorni di ingiusta carcerazione preventiva, ci volle una legge fatta apposta per il suo caso, e battezzata appunto «legge Valpreda».
A ordinare il suo arresto fu il pubblico ministero Vittorio Occorsio, che fu quindi accusato di lavorare per i fascisti: calunnie che più nessuno ebbe il coraggio di ripetere dopo che Occorsio, il 10 luglio del 1976, venne assassinato a Roma da un commando dell'organizzazione di estrema destra Ordine nuovo. E Occorsio fu ucciso proprio per la tenacia con cui indagava negli ambienti dell'eversione nera: più volte i terroristi neofascisti hanno spiegato di averlo voluto eliminare perché era un loro «persecutore».
Valpreda era un ballerino anarchico, trentasettenne, con precedenti penali per rapina (condannato il 13 giugno del 1956). Aveva frequentato il Circolo anarchico milanese del Ponte della Ghisolfa, il cui animatore principale era il ferroviere Giuseppe «Pino» Pinelli, personaggio carismatico in quell'ambiente, pacifista, severo con chi sgarrava.
Proprio Pinelli aveva cacciato Valpreda dal gruppo della Ghisolfa. «Pino» disse sua moglie Licia Rognini interrogata dalla polizia poche settimane dopo la morte del marito, «mi disse che era stato lui a buttare Valpreda fuori dal circolo.»
E lo stesso Pinelli, interrogato dalla polizia il 15 dicembre, fece mettere a verbale: «La sera del 7 o dell'8 ottobre scorso... dissi a Valpreda che non lo stimo in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto lui stesso si era vantato della cosa. Il Valpreda negò di essersi vantato e disse di essere venuto a Milano anche per sfatare queste dicerie. Un altro incontro con Valpreda l'ho avuto al convegno svoltosi a Empoli il 2 novembre scorso. Dopo il convegno anarchico i partecipanti, una cinquantina, andarono a mangiare assieme in una trattoria... durante il pranzo Valpreda mi rivolse il saluto a cui io non risposi giustificando questo mio rifiuto col fatto che non tenevo alla sua amicizia. Indispettito mi lanciò una saliera che non mi colpì».
Quando Pinelli diceva queste cose alla polizia, Valpreda era stato allontanato dal gruppo della Ghisolfa già da diversi mesi. Da quando, insieme con due compagni, aveva steso il suo programma in un articolo pubblicato sul bollettino «Terra e Libertà», organo del circolo anarchico degli Iconoclasti di Milano.
Nell'articolo di Valpreda, intitolato Ravachol è risorto e scritto nel mese di marzo di quel 1969, cioè poco prima del diluvio di bombe su mezza Italia, si leggeva l'elenco degli attentati appena compiuti dagli anarchici, sottolineando il disappunto perché un ordigno messo alla caserma di polizia di piazza San Sepolcro a Milano «purtroppo» non era esploso perché «la miccia s'è spenta subito dopo». E poi:
«Totale: dieci bombe in meno di un mese... altri attentati seguiranno a questi. La polizia brancola nel vuoto. I borghesi tremano e cercano di svignarsela con il capitale. I pseudo comunisti prendono posizione contro questi atti di terrorismo (sic) anarcoidi ... ».
E ancora: «Alle manifestazioni di piazza, gli individualisti ravacholiani preferiscono una bombetta. Analizzando obiettivamente le due posizioni, si deve dire che fa più danno e incute più paura il botto di un individualista che le urla scalmanate o le uova lanciate da un migliaio di scaricatori di nevrosi e repressi sessuali. Il "Corriere della Sera", o della "Serva", scrive che i veri anarchici sono quelli che tirano le bombe di notte e in zone isolate per non causare danni e non fare del male alle persone. Questa è una mossa psicologica... per dire ai giovani contestatori che i veri anarchici sono quelli che non fanno male a nessuno e farli allontanare dallo studio dei veri pensatori dell'anarchismo. Certo, gli anarchici non vorrebbero far male a nessuno ma essi amano troppo la libertà!
«Per poter realizzare una società libera» proseguiva l'articolo di Valpreda «non ci si può assolutamente arrivare con il culto della parola, bisogna passare purtroppo attraverso la fase violenta. Chi poggia il suo sedere odorante di borotalco sulla comoda poltrona del potere, sugli inermi, non rinnegherà di certo la sua posizione per migliorare la condizione dei sottosviluppati (che gli fruttano la qualifica di super-privilegiati) di fronte alle menate psicologiche dei rivoluzionari verbali.
«Che gli anarchici facciano scoppiare le loro bombe solo in zone isolate è falso» scriveva ancora Valpreda. «Abbiamo visto dove sono scoppiate e possiamo dire che non sempre, anzi quasi mai, scoppiano in zone isolate. Centinaia di giovani sono pronti a organizzarsi per riprendere il posto di nemici dello Stato e a gridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnot, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi! Ravachol è risorto!»

LA CONVERSIONE DEI DUE FASCISTI

A far imbestialire Pinelli fu anche il fatto che sul giornaletto «Terra e Libertà» si dava l'indirizzo del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa. Così, Valpreda fu cacciato, e andò a riparare a Roma, al Circolo Bakunin. Ma anche il Bakunin non gli andava bene, tanto che presto se ne andò per fondare un altro circolo, chiamato 22 Marzo dalla data dell'occupazione, nel 1968, dell'Università di Nanterre: in pratica, dalla data di inizio del «maggio francese».
A fondare il Circolo 22 Marzo, con Valpreda, c'era un singolare personaggio, poi finito anch'egli sul banco degli imputati per la strage di piazza Fontana (e anch'egli assolto, come tutti gli altri): lo studente di filosofia Mario Merlino, ex militante di estrema destra e amico di Stefano Delle Chiaie, leader dell'organizzazione neofascista Avanguardia nazionale. Merlino diceva di essersi convertito all'anarchia. Su di lui si è discusso per anni, essendo emerso a più riprese il sospetto che Merlino, in realtà, fosse un uomo di estrema destra, o addirittura dei servizi segreti, infiltrato nell'anarchia.
Di certo, nel Circolo 22 Marzo era infiltrato un agente di polizia, Salvatore Ippolito, che si faceva chiamare «il compagno Andrea». E su questi intrecci pericolosi si fonda uno dei purtroppo molti misteri dell'indagine su piazza Fontana. Chi erano, veramente, quelli del Circolo 22 Marzo? Valpreda fu strumentalizzato? o manovrato?
Fra l'altro, anche nel Circolo Ponte della Ghisolfa, a Milano, c'era un personaggio che è stato sospettato di fare il doppio gioco: Nino Sottosanti, detto «Nino il fascista» per il suo passato politico. Anche lui, come Merlino, assicurava di essere approdato all'anarchia. I giudici di primo grado l'hanno descritto come un «ambiguo personaggio, reduce dalla Legione Straniera e aduso ai contatti con i poli opposti dell'estremismo politico».
Sottosanti, fra l'altro, è considerato il sosia di Pietro Valpreda, e nelle prime battute dell'inchiesta si pensò persino che potesse essere stato lui a mettere la bomba: ma questa ipotesi cadde quasi subito. Rimase, come spiegato dai giudici di primo grado, l'ambiguità della sua vera collocazione politica.
Torniamo a Valpreda e a Merlino. I due, insieme con altri animatori del Circolo 22 Marzo, il 19 novembre (meno di un mese prima della strage, dunque) rilasciarono una quantomeno enigmatica intervista al settimanale romano «Ciao 2001», un periodico per i giovani.
«Occorre» avevano detto «un'azione esemplare che, anche partendo da un limitato gruppo di individui, riesca a coinvolgere il massimo numero di persone e che, nello stesso momento in cui vien fatta, da sé stessa è superata, perché indica a tutti quelli che vi hanno preso parte un altro obiettivo da colpire, un'altra azione esemplare da compiere che riesca a coinvolgere un numero sempre maggiore di individui.»

LA TESTIMONIANZA DEL TASSISTA

Ma l'indizio più grave contro Valpreda non fu l'articolo-rivendicazione su «Terra e Libertà», né la frequentazione con Merlino, né gli strani messaggi lanciati nelle interviste, né tantomeno le voci che giravano sul suo conto negli ambienti anarchici milanesi e romani.
A spingere il giudice Occorsio a chiedere l'arresto di Valpreda fu la testimonianza di un tassista, Cornelio Rolandi. milanese, iscritto al Partito comunista, titolare del taxi 3444, una Fiat 600 multipla targata MI 936519.
Rolandi, il pomeriggio della strage, era in servizio in piazza Beccaria, vicinissima alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Questa la sua testimonianza a verbale:
«(Ho notato) un signore che poco dopo è salito sul mio taxi con in mano una borsa nera in vinilpelle con cerniera. Mi ha chiesto di accompagnarlo in via Albricci, passando da Santa Tecla. Dopo essere partiti e arrivati in via Santa Tecla mi ha ordinato di fermare il taxi dal quale è disceso subito, dicendomi di attendere un attimo. Attraverso lo specchio retrovisore ho notato che si allontanava facendo ritorno indietro per via Santa Tecla e svoltando l'angolo verso piazza Fontana, portando con sé la borsa nera. Dopo circa tre o quattro minuti è ritornato sul mio taxi, senza avere con sé la borsa nera. Mi ordinava quindi di portarlo con urgenza in via Albricci. Dopo essere ripartito gli chiedevo dove avrei dovuto fermarmi in via Albricci. Mi rispose che per lui andava bene in qualsiasi posto: anzi preciso che appena giunti all'angolo della via Albricci mi diceva che andava bene così. Allungava la mano e mi consegnava 600 lire, prezzo della corsa, allontanandosi, di corsa, in direzione di piazza Missori».
Il 16 dicembre 1969, al Palazzo di Giustizia di Roma, il tassista Cornelio Rolandi riconobbe in Pietro Valpreda -postogli davanti insieme con quattro «comparse»- l'uomo che aveva accompagnato nei pressi della banca il pomeriggio della strage.

A questa testimonianza accusatoria si sono mosse alcune obiezioni.
La prima è che allo stesso Rolandi, prima del «confronto all'americana» al Palazzo di Giustizia di Roma, era stata (illegalmente) mostrata -dal questore milanese Guida e dai carabinieri- una fotografia di Valpreda, il quale secondo gli inquirenti assomigliava molto all'identikit fatto in base alla descrizione del tassista. E quindi -si obietta- quando si trovò di fronte Valpreda in carne ed ossa, affiancato dalle quattro «comparse» per il riconoscimento ufficiale, Rolandi era condizionato dalla foto che gli era stata mostrata a Milano.
Una seconda obiezione fu subito mossa dal difensore di Valpreda, l'avvocato Guido Calvi, presente al confronto «all'americana» di Roma. Calvi sostiene che Valpreda, dopo essere stato indicato dal tassista, disse: «Ma m'hai guardato bene?», e Rolandi avrebbe risposto: «Beh... se non è lui, chi el gh'è no», qui non c'è.
Una terza obiezione verte sulla constatazione che da piazza Beccaria, dove sostava il taxi, all'ingresso della banca ci sono poco più di cento metri, e quindi non aveva senso prendere un taxi -con il rischio, oltretutto, di farsi riconoscere- per un tragitto così breve.
Alla prima obiezione l'accusa replica così: il fatto che a Rolandi sia stata mostrata una foto di Valpreda prima del riconoscimento fu senz'altro un errore, ma dimostra ancora di più la validità della testimonianza accusatoria. Infatti, vedendo la foto, Rolandi disse: «Sembra il passeggero da me trasportato, salvo che quello che ho accompagnato io aveva il viso più scavato». La foto mostrata a Rolandi era del gennaio 1966 (ma Rolandi non lo sapeva), e nei tre anni trascorsi da allora Valpreda era effettivamente dimagrito.
Alla seconda obiezione, l'accusa replica che Rolandi non ha mai più manifestato dubbi (ammesso che l'abbia fatto allora) sul suo riconoscimento. Anzi: ribadì la sua testimonianza accusatoria contro Valpreda anche in punto di morte. Si legge nella sentenza dei giudici di primo grado: «Nel corso della formale istruzione Cornelio Rolandi si ammalava ed, essendosi poi talmente aggravato da versare in pericolo di vita, alle 9.30 del 2 luglio 1970 veniva ancora escusso dal giudice istruttore, a futura memoria. Egli confermava, quindi, per l'ultima volta le sue precedenti dichiarazioni sotto il vincolo del giuramento. La morte lo coglieva dopo non molto tempo».
Alla terza obiezione, sempre l'accusa replica: 1) l'attentatore non voleva farsi notare mentre attraversava la piazza, a piedi, con una voluminosa e pesante borsa in mano, e voleva poi allontanarsi velocemente dal luogo dell'attentato: poiché non poteva usare un'auto propria (davanti alla banca il posteggio era vietato), ecco la scelta del taxi; 2) Valpreda è affetto dal morbo di Burger, che dà disturbi alla deambulazione: prese il taxi perché la borsa era molto pesante, come ha testimoniato Rolandi: «Mi è sembrato che fosse alquanto pesante, in quanto il cliente è sceso in via Santa Tecla e ha tirato su la borsa che aveva appoggiato sul pavimento della vettura, facendo un certo sforzo»; 3) l'uomo che prese il taxi di Rolandi non chiese di essere portato da piazza Beccaria a piazza Fontana, ma indicò un percorso molto più lungo (fino in viale Albricci), e quando chiese di scendere un attimo, non lo fece di fronte alla banca, ma in via Santa Tecla, in un punto da cui è impossibile vedere l'ingresso della banca; cercò, insomma, di non farsi notare mentre entrava alla BNA; 4) Valpreda aveva abitato all'albergo Commercio di piazza Fontana, proprio di fronte alla banca, durante l'occupazione degli anarchici, conclusasi con lo sgombero eseguito dalla polizia il 15 agosto 1969: l'attentatore era forse «un tale», ha chiesto nella sua arringa l'avvocato Odoardo Ascari, legale di parte civile al processo per la strage, «un tale che non volesse sentirsi dire "Dove vai Pietro con quella borsa?"».
E che Rolandi, comunque, non si sia inventato quel tragitto in taxi, è provato dalla cedola di servizio che lui stesso consegnò ai carabinieri: cedola da cui risulta una corsa partita alle 16 da piazza Beccaria e terminata alle 16.45 in via Albricci.
La diatriba non finisce qui. Sul fatto che il taxi possa essere stato necessario a causa del peso della borsa, la difesa osserva che questa è una controbiezione che non sta in piedi, perché il tragitto da piazza Beccaria all'ingresso della banca è solo di qualche metro (una ventina) superiore a quello da via Santa Tecla (dove il passeggero del taxi è sceso) alla banca stessa. Quanto al morbo di Burger, Valpreda non ha particolari disturbi alla deambulazione; e del resto, se fosse così malato perché affidare a lui un incarico simile?
L'accusa controreplica con la storia del cappotto, che definisce «inquietante». Rolandi, quando riconobbe Valpreda a Roma, precisò che, però, il cappotto che l'anarchico indossava in quel momento non era quello del suo passeggero. Il colore era lo stesso, marrone, ma si trattava di due capi diversi. Infatti, il cappotto che Valpreda indossava al momento del confronto all'americana, era andato a prenderlo a casa dei suoi genitori la zia Rachele Torri, da cui era ospite, la sera del 12 dicembre 1969, quindi dopo la strage. Se Rolandi fosse stato un teste pilotato o comunque in malafede, avrebbe potuto dire che il cappotto era lo stesso, perché nessuno sapeva, in quel momento, che questo non era possibile.
La zia Rachele Torri, teste a discarico di Valpreda («Era a casa mia, malato, con la febbre»), il 17 dicembre '69 disse che la sera del 12 uscì di casa «per recarmi dai genitori di Pietro al fine di informarli che loro figlio si trovava a Milano presso la mia abitazione». Nella sua arringa al processo, l'avvocato Ascari ha detto che questa giustificazione è falsa, perché per avvisare i genitori bastava una telefonata, e Rachele Torri si rese conto dell'incongruenza tanto che il 3 gennaio 1970 rettificò precisando al giudice che il vero scopo della sua uscita serale era prendere un cappotto per il nipote, che l'indomani si sarebbe dovuto presentare in tribunale per rispondere a una convocazione del giudice Amati. Ma ancora l'avvocato Ascari, nella sua arringa, ha fatto presente che il giorno dopo, con Amati, non ci fu alcun incontro (che avvenne invece il lunedi seguente): «La verità è un'altra: con quello che è successo è igienico uscire con lo stesso cappotto? O è meglio cambiarlo? E' certamente meglio cambiarlo in ogni caso, e a maggior ragione, se si vuole andare nei pressi del Palazzo di Giustizia che è vicinissimo alla Banca Nazionale dell'Agricoltura! Solo cosi si spiega come all'improvviso i genitori di Valpreda si vedono arrivare, alle otto di sera di venerdi, la zia che vuole il cappotto bello. L'anarchico rispettoso, che deve andare col cappotto bello dal giudice, che non l'aspetta. Infatti il sabato Amati non c'è».
Questo, dunque, il cosiddetto quadro indiziario contro Valpreda, sia pure in una sintesi estrema di fatti che hanno riempito migliaia e migliaia di pagine di verbali. Questi indizi non hanno mai retto alla verifica processuale.

LA MORTE DEL FERROVIERE

La ricostruzione della «pista anarchica» non può ritenersi completa senza ricordare la tragedia del povero Pinelli. Questi morì, poco prima della mezzanotte del 15 dicembre, precipitando dalla finestra della questura di Milano, dov'era entrato tre giorni prima per essere interrogato. Il questore Marcello Guida, a poche ore dal fatto, disse che Pinelli era «fortemente indiziato per la strage di piazza Fontana», che si era suicidato, e che il suo gesto equivaleva a un'autoaccusa.
Tutte fandonie, smentite durante la stessa conferenza stampa dal commissario Luigi Calabresi, che con grande coraggio rivelò ai giornalisti che, semmai, il suicidio di Pinelli era dovuto a un altro fatto: «Gli ho contestato i suoi rapporti con una certa persona in modo da fargli credere che fosse a mia conoscenza più di quanto in realtà sapessi» disse Calabresi smentendo il suo superiore e rivelando un comportamento non ortodosso da parte della polizia. Infatti Calabresi aveva fatto credere a Pinelli che Valpreda aveva confessato.
Dopo la prima grossolana, imbarazzata e non veritiera versione del questore Guida, la polizia disse sempre che, dopo aver appreso della (finta) confessione di Valpreda, Pinelli era rimasto sconvolto: «E' la fine dell'anarchia» avrebbe detto disperato. D'altra parte Pinelli temeva che la strage potesse essere opera di qualche anarchico, tanto che al suo amico Pasquale Valitutti (anarchico pure lui) aveva confidato: «Se è stato un compagno lo uccido con le mie mani».
La sinistra non credette mai alla tesi del suicidio, e cominciò una violentissima campagna sostenendo che Pinelli era stato ucciso, volutamente buttato giù dalla finestra, oppure gettato dopo che era stato ucciso a botte.
In realtà Pinelli, quando precipitò a terra, era ancora vivo, tanto che morì un paio d'ore più tardi all'ospedale. Non era stato quindi ucciso a botte nell'ufficio dov'era interrogato. E riesce difficile pensare che la polizia sia stata tanto imprudente da uccidere un uomo gettandolo dalla finestra della questura: tanto più che c'era sempre il rischio che, dopo la caduta, l'anarchico non sarebbe morto subito, e avrebbe avuto la possibilità di denunciare il fatto.
Il primo a soccorrere Pinelli, nel cortile della questura, fu un cronista dell'«Unità», Aldo Palumbo (plausibile che la polizia torturi qualcuno con i giornalisti che girano nel palazzo? Può essere, ma l'interrogativo è legittimo): Pinelli, come detto, era ancora vivo, e se avesse avuto la forza di parlare avrebbe potuto raccontare tutto a un testimone insospettabile.
Il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, uomo dichiaratamente di sinistra, concluse l'inchiesta nell'ottobre del 1975 definendo «possibile ma non verosimile» il suicidio e «assolutamente inconsistente» la tesi dell'omicidio volontario. Secondo D'Ambrosio, Pinelli, stanco e provato da tre giorni di interrogatori, si era affacciato alla finestra per prendere un po' d'aria, aveva avuto un malore ed era caduto giù. Una disgrazia, insomma.
La campagna della sinistra su Pinelli, in ogni caso, sbagliò quantomeno indirizzo, prendendosela soprattutto con il commissario Calabresi, il quale -questo è provato senza ombra di dubbio alcuno- al momento del fatto non era neppure nella stanza da cui Pinelli precipitò. Calabresi, che con Pinelli aveva rapporti più che cordiali, tanto che i due si erano appena scambiati i regali di Natale, non poteva in alcun modo avere a che fare con la morte di Pinelli; né poteva aver ordinato ai suoi uomini di picchiare Pinelli, sul cui cadavere non venne trovata nessuna traccia di percosse o torture. E Calabresi era stato tanto corretto da addossarsi una colpa non sua, dicendo di aver fatto credere a Pinelli che Valpreda aveva confessato: in realtà, questo stratagemma ai danni di Pinelli fu un'idea di Antonino Allegra, capo della squadra politica della questura. Eppure, fu contro di lui che si scagliò una delle più violente e faziose campagne di stampa mai organizzate in Italia. Centinaia di intellettuali firmarono manifesti e appelli grondanti odio e accuse non provate contro colui che veniva chiamato "il commissario Finestra".
Pinelli, in ogni caso, pagò con la vita, e del tutto ingiustamente, le conseguenze di una strage di cui non aveva alcuna responsabilità, e di un'indagine che per motivi spesso oscuri non è ancora arrivata alla verità. Divenne -ancor più di Valpreda, vista la sua fine- un martire della nuova sinistra. Per anni, giovani con la chitarra cantarono La ballata di Pinelli:

(...) In dicembre a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
E' bastato aprir la finestra
Una spinta e Pinelli cascò
(...) Ti hanno ucciso per farti tacere
Perché avevi capito l'inganno
Ora dormi non puoi più parlare
Ma i compagni ti vendicheranno
(...) Calabresi con Guida il fascista
Si ricordi che gli anni son lunghi
Prima o poi qualcosa succede
Che il Pinelli farà ricordar (...).

E infatti, qualcosa accadde. Calabresi venne ucciso il 17 maggio del 1972: e quel giorno furono in molti (Lotta continua in testa) a esultare. E pensare che proprio lui era stato uno dei primi poliziotti a intuire quella che poi diventerà il cavallo di battaglia della sinistra, cioè la pista della strage di Stato. Dopo le prime battute dell'inchiesta, su piazza Fontana aveva idee precise. Sua moglie Gemma, nel libro Mio marito il commissario Calabresi (scritto con il giornalista Luciano Garibaldi) ricorda: «Un giorno... mi disse: Gemma, ricordalo: menti di destra, manovali di sinistra».


VIII - PIAZZA FONTANA E LA PISTA NERA

La pista «di destra» nacque da una coscienza inquieta. Quella dell'insegnante di francese Guido Lorenzon, di Maserada sul Piave. Un uomo mite, fervente cattolico, politicamente moderato: era segretario della sezione democristiana del suo paese.
Lunedí 15 dicembre -lo stesso giorno dell'arresto di Valpreda, della morte di Pinelli, dei funerali delle vittime della strage- Guido Lorenzon telefonò a un avvocato di Vittorio Veneto, Alberto Steccanella, per liberarsi di un peso che lo tormentava dalla sera del 12 dicembre, da quando cioè aveva cominciato a riflettere sui possibili collegamenti fra quanto era successo a Milano e quanto aveva sentito dire da un suo vecchio amico: Giovanni Ventura.
Di tre anni più giovane di Lorenzon, Ventura aveva idee politiche ben più radicali. Aveva frequentato la federazione giovanile del Msi, dalla quale era poi uscito perché riteneva troppo molle la linea della fiamma tricolore, e aveva fondato un giornale chiamato «Reazione». Faceva l'editore e il libraio, e pubblicava testi che diffondevano una singolare dottrina in cui si mescolavano nazismo e maoismo. Frequentava estremisti di destra e di sinistra.
Lorenzon aveva conosciuto Ventura al collegio Pio X di Borca di Cadore, e l'amicizia era continuata anche dopo che i due avevano imboccato strade differenti.
Dunque Lorenzon, dopo aver saputo della strage di piazza Fontana, si era ricordato delle confidenze, che più volte Ventura gli aveva fatto, sull'esistenza di gruppi disposti a far salire al massimo la tensione, anche facendo ricorso a una serie di attentati. Il professore di francese aveva allora telefonato all'avvocato Steccanella. Il quale si era reso ben presto conto di non avere a che fare con un pazzo: e pertanto si era premurato di informare la procura generale di Venezia e la procura di Treviso.
Dalla sentenza emessa il 23 febbraio 1979 dalla Corte d'assise di Catanzaro: «Lorenzon si era recato dall'avvocato Steccanella e lo aveva, anzitutto, messo al corrente di un'organizzazione eversiva paramilitare diretta da tal Giovanni Ventura di anni venticinque residente a Castelfranco Veneto. (...) Gli scopi... si riassumevano nel rovesciamento dell'ordine costituito e nell'instaurazione di un regime governativo sul modello della cosiddetta Repubblica di Salò con speciale riferimento al settore dell'agricoltura. Ciò Lorenzon gli aveva detto [a Steccanella, n.d.a.] di avere appreso dal suddetto Ventura, il quale, essendo suo amico, gli aveva anche confidato di essere depositario, fra l'altro, di armi e munizioni e di aver partecipato alla collocazione di un ordigno esplosivo in un edificio pubblico di Milano nel maggio 1969 nonché ai noti attentati ai treni verificatisi l'8 e il 9 agosto dello stesso anno in varie zone d'Italia. Altre confidenze erano state fatte all'amico dal Ventura con vari dettagli che potevano far sorgere il convincimento di una responsabilità di costui anche in ordine al compimento dei gravissimi attentati dinamitardi avvenuti quasi contestualmente a Roma e a Milano il 12 dicembre 1969».
Partì così l'inchiesta sulla «cellula veneta» dell'estremismo di destra, al vertice della quale c'era, oltre a Ventura, un avvocato padovano di ventotto anni, Franco Freda, nome di battaglia «Giorgio».

FREDA E VENTURA

Troppo frettolosamente, e con troppa superficialità, Freda e Ventura sono stati accostati l'uno all'altro come se si trattasse di due soci, di due personaggi quasi complementari, di due uomini dalle idee e dai comportamenti speculari. In realtà Freda e Ventura, per quanto sia possibile esaminarli, sono molto diversi l'uno dall'altro. E forse troppo frettolosamente, e con troppa superficialità, è stata affibbiata a entrambi l'etichetta di «fascista».
Quando, nel luglio del 1993, l'ormai ultracinquantenne Franco Freda è stato riarrestato per ricostituzione del partito fascista, Ferdinando Camon ha giustamente osservato: «Freda ambisce così poco a fondare un secondo partito fascista, che non avrebbe né fondato né aderito al primo. La Repubblica lo mette in carcere, ma se fosse al potere un partito fascista sarebbe in carcere ugualmente, o addirittura già morto. Nel suo sistema non ci sta un partito, neanche fascista, perché ci sta molto di più».
Freda è, semmai, un ammiratore del nazionalsocialismo, ma anche quella di «nazista» sarebbe per lui un'etichetta troppo stretta. Non è un uomo di partito ma un uomo di idee, molto colto, dichiaratamente razzista e antisemita («antigiudaico», precisa lui). Disprezza la democrazia, crede che la storia nasconda la verità, facendo perdere di vista chi ha torto e chi ha ragione. Crede che la politica e le idee siano state ormai spazzate via dai «mercati», dal dominio del denaro. Crede di vivere «in un mondo di nani», dove la stragrande maggioranza della gente vivacchia inseguendo obiettivi miseri, banali e materiali. Si ribella alla modernità e sogna un Nuovo Ordine. La sua è, se vogliamo, una tensione spirituale: ma che non trova sbocco nel cristianesimo (che Freda disprezza) quanto, semmai, in una sorta di religiosità neopagana. «Si è laureato con me» disse il professor Enrico Opocher, rettore dell'Università di Padova, «con una tesi sull'idealismo tedesco. E' un uomo intelligente, ma fanatico e su posizioni antisemite.»
Ecco, Freda viene spesso definito un fanatico: ma comunque è ritenuto un uomo che crede fino in fondo alle sue idee. Per le quali, lui solo sa fin dove si sia spinto.
Ventura è, invece, un singolare personaggio che va in giro a raccontare a più persone di bombe e di attentati, di strutture paramilitari e di tentativi di golpe. Gravitava contemporaneamente nell'estrema destra e nell'estrema sinistra, era passato da «Reazione» alla «Lega dei comunisti» e la sua libreria di Treviso era un punto di ritrovo per la sinistra extraparlamentare. I suoi legami con i servizi segreti sono un dato certo, e lui stesso ha detto in un'intervista: «La mia attività informativa era autonoma, avevo un rapporto con un agente del servizio al quale comunicavo notizie sull'operatività eversiva, antidemocratica, neofascista ... ». Per chi e perché lavorasse Ventura, è ancora presto per dirlo con certezza. Ma forse non è un caso che mentre Freda ha scontato i quindici anni di carcere inflittigli per associazione sovversiva, Ventura -condannato alla stessa pena e per lo stesso reato- ha potuto fuggire e vivere (non male) in Argentina.

I TIMER E LE BORSE

Le confuse, e a volte contraddittorie confidenze fatte da Ventura prima a Lorenzon e poi ai giudici, certo non sarebbero bastate, da sole, a collegare l'attività della «cellula veneta» con la strage del 12 dicembre 1969.
Gli indizi che portarono Freda e Ventura alla sbarra con l'accusa di strage sono più d'uno, ma il più importante è certamente quello sull'acquisto dei timer.
Nel settembre del 1969 Franco Freda ordinò alla Elettrocontrolli di Bologna cinquanta timer da 60 minuti, del tipo «in deviazione». La Elettrocontrolli dovette procurarsi quei timer, di cui era sprovvista, rivolgendosi alla Gpu di Milano, che a sua volta si rifornì dalla Junghans-Diehl di Venezia.
Il fatto è certo perché la questura di Padova registrò le telefonate con cui Freda -già nel mirino della polizia da prima della strage, quindi- sollecitò la Elettrocontrolli di Bologna; e quelle con cui lo stesso Freda diede incarico all'elettricista padovano Tullio Fabris di andare a ritirare la merce. Lo stesso Fabris, interrogato come testimone dal giudice istruttore, sostenne di aver assistito a un colloquio fra Freda e Ventura sui timer acquistati: e Ventura avrebbe preso uno di quei timer e se lo sarebbe messo nella borsa.
Secondo una perizia ordinata dalla magistratura, per l'attentato alla Banca Nazionale, del Lavoro di Roma e per quello (fallito) alla Banca Commerciale Italiana di Milano furono utilizzati timer in deviazione, da 60 minuti, prodotti dalla ditta Junghans di Venezia su licenza della Diehl di Norimberga. Quindi, per deduzione logica, anche alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano dovrebbe essere stato usato lo stesso tipo di timer. E poiché dal marzo 1969 al 12 dicembre successivo in Italia erano stati venduti, complessivamente, 57 timer di quel tipo, ecco che Freda -che da solo ne aveva comperati 50- si vide accusato della strage.
Messo di fronte all'evidenza delle intercettazioni telefoniche, Freda ammise, dopo un iniziale silenzio, l'acquisto dei timer. E aggiunse di averli dati a un mai identificato capitano Hamid dei servizi segreti algerini, il quale li avrebbe poi utilizzati per attentati contro gli israeliani. Un'autodifesa riutilizzata dall'accusa per provare la colpevolezza di Freda: è credibile che i servizi segreti algerini avessero bisogno di un avvocato di Padova per comperare dei timer, oltretutto facilmente reperibili sul mercato?
Ma nella «pista nera» ci sono altri indizi. Ad esempio, quello delle cassette metalliche. Secondo i periti, in tutti gli attentati del 12 dicembre 1969 l'esplosivo fu sistemato in cassette metalliche. Ebbene: il farmacista Tullio Fabris disse che Freda gli aveva chiesto dove poteva reperire una «cassetta metallica ermeticamente chiusa».
E poi le borse. Le cinque bombe del 12 dicembre erano state nascoste in altrettante borse di similpelle prodotte, come accerterà la perizia, dalla ditta tedesca Mosbach-Gruber di Offenbach. Tre di queste borse erano del tipo «Peraso 2131», di colore nero; due del tipo «City 2131», marrone. In Italia, solo tre negozi tenevano entrambi i modelli. E uno di questi tre negozi era la valigeria «Al Duomo» di Padova.
Loretta Galeazzo, commessa della valigeria «Al Duomo», il 15 dicembre 1969 disse alla polizia, da lei spontaneamente chiamata, di aver venduto, la sera del 10 dicembre 1969, quattro borse della Mosbach-Gruber. Aveva voluto informare la polizia perché aveva visto sui giornali la fotografia delle borse.
Va detto però che nel mese di settembre del 1972, messa a confronto per ben due volte con Franco Freda, Loretta Galeazzo non riconobbe nell'avvocato padovano il compratore delle borse. L'indizio delle borse, insomma, si rivelò alla fine favorevole a Freda.

Così come abbiamo riportato le obiezioni mosse alla testimonianza di Rolandi contro Valpreda (che senso aveva prendere il taxi per fare pochi metri? e non c'era il rischio di farsi scoprire?) dobbiamo, usando la stessa arma della logica, osservare che è singolare che un uomo intelligente come Freda, sapendo di dover compiere una strage, non abbia cercato una via clandestina e sicura per comperare i timer, ma sia andato ad acquistarli normalmente in una ditta. E creando, per di più, un testimone pericolosissimo: l'elettricista Fabris, messo al corrente di tutto. Non solo: Freda parla liberamente dei timer al telefono, sapendo benissimo che il suo apparecchio è controllato dalla polizia.
Infatti, nel mese di maggio del 1969 (quindi ben prima delle telefonate fatte per l'acquisto dei timer, che sono del settembre successivo), parlando al suo telefono Freda a un certo punto disse: «Se c'è qualche coglione in ascolto, ascolti pure». Che Freda sapesse di avere il telefono sotto controllo poi, risulta anche da un interrogatorio reso da Giovanni Ventura al giudice istruttore di Milano il 17 marzo 1973. Ventura disse al magistrato che un funzionario dell'ufficio politico della questura aveva avvertito Freda dell'inizio delle intercettazioni.
Queste considerazioni fanno dunque pensare che Freda, quantomeno, non sapesse che con quei timer sarebbero state confezionate bombe destinate a fare tanti morti. Altrimenti non avrebbe agito alla luce del sole.
Ma i magistrati che hanno creduto nella sua colpevolezza ribattono che Freda non cercò di nascondere l'acquisto dei timer per lo stesso motivo per cui Ventura continuava, senza preoccuparsi troppo, a raccontare in giro ciò che faceva: i due, dice l'accusa, erano certi dell'impunità perché convinti di avere le coperture necessarie; e anzi, erano probabilmente certi che dopo la strage ci sarebbe stato un colpo di Stato, e che loro si sarebbero trovati, con tanti onori, dalla parte dei vincitori.

LE COPERTURE E I DEPISTAGGI

Vanno dette, a proposito delle «coperture», altre due cose piuttosto inquietanti. E che stanno a dimostrare in che modo venne condotta l'inchiesta.
La prima è che le intercettazioni telefoniche in cui si sentiva Freda ordinare i timer, benché risalenti al settembre 1969, entrarono nell'inchiesta solo nel gennaio del 1972, quando il giudice istruttore decise di ascoltare tutte le registrazioni fatte dalla questura padovana nell'ambito delle indagini sul terrorismo nero, e quindi anche su Freda. Prima, nessuno aveva pensato di andare a riascoltare quei nastri.
Seconda cosa: la testimonianza di Loretta Galeazzo, che segnalava la vendita delle borse del tipo usato per la strage, fu inviata dalla polizia di Padova, che l'aveva raccolta, alla questura di Milano e all'Ufficio affari riservati del ministero degli Interni. Ma non alla magistratura. E quella testimonianza rimase per tre anni nei cassetti romani dell'Ufficio affari riservati, senza che la magistratura ne potesse conoscere l'esistenza.
Come ha scritto Giorgio Boatti nel suo Piazza Fontana, «solo nel settembre del 1972, dopo un clamoroso servizio del settimanale romano "L'Espresso" che svela l'inutile prodigarsi del personale di una valigeria padovana per segnalare l'anomalo acquisto delle borse, il magistrato milanese che sta lavorando sull'istruttoria veneta viene informato di quanto è accaduto. E prende visione dei documenti insabbiatisi presso l'Ufficio affari riservati».
Solo nell'autunno del 1972, infatti, poté avvenire il confronto fra Loretta Galeazzo e Franco Freda.
Sono episodi -questi come altri- che dimostrano quanti e quali ostacoli furono frapposti, dall'autorità incaricata delle indagini, al raggiungimento della verità. Ha scritto il magistrato Pietro Calogero, il pubblico ministero che raccolse le confidenze di Lorenzon e che cominciò l'inchiesta sulla pista veneta: «Accadde che organi collocati ai vertici o comunque all'interno degli apparati di sicurezza dello Stato cominciarono a un certo punto a lavorare non a favore dell'indagine, ma contro di essa, non per collaborare con i giudici, ma per intralciare e depistare il loro lavoro».

L'AGENTE ZETA

E molti ostacoli furono innalzati di fronte ai giudici -opponendo il segreto di Stato- quando si cercò di far luce sull'attività dell'«agente Zeta» Guido Giannettini, giornalista romano, redattore del quotidiano del Msi e collaboratore dei servizi segreti, per la precisione del Sid. Giannettini aveva avuto certamente rapporti con Freda e la cellula veneta, e molte sue «informative» avevano destato più d'un sospetto. Finì anche lui, con Valpreda, Freda e Ventura, sul banco degli imputati con l'accusa di strage, e come gli altri venne assolto.
Quale che sia stato il ruolo di Giannettini nella vicenda (su un suo coinvolgimento diretto nella strage, va detto, non ci sono indizi concreti, e Giannettini è uscito dal processo prima degli altri imputati), resta il fatto che l'unica cosa accertata in sede giudiziaria nei vari processi su piazza Fontana è il comportamento gravemente scorretto dei servizi segreti dello Stato.
Non a caso in tutti i gradi di giudizio sono sempre stati condannati due ufficiali del Sid, il generale Gian Adelio Maletti e il capitano Antonio Labruna, ritenuti colpevoli di favoreggiamento per aver aiutato a fuggire all'estero un indiziato (e poi prosciolto) per la strage: Marco Pozzan, un bidello padovano legato a Freda. Ancora adesso, chi indaga sulla strage di piazza Fontana ha il sospetto che Pozzan, pur innocente, possa sapere molte cose.

LE SENTENZE

Abbiamo cercato di riassumere l'andamento delle inchieste, e di elencare gli indizi a carico di tutti gli imputati.
Di fronte a questi indizi, la magistratura si è espressa prima con una sentenza di condanna, poi con un ripetersi di assoluzioni.
Il processo di primo grado, celebrato a Catanzaro anziché a Milano per motivi di ordine pubblico, si concluse il 23 febbraio 1979 con la condanna all'ergastolo di Freda, Ventura e Giannettini; Pietro Valpreda e Mario Merlino furono assolti dall'accusa di strage per insufficienza di prove, ma condannati a 4 anni e 6 mesi per associazione a delinquere; a Maletti e a Labruna furono inflitti, per favoreggiamento, rispettivamente 4 e 2 anni.
Il 20 marzo 1981, alla Corte d'assise d'appello di Catanzaro, la prima bocciatura di quella sentenza. Tutti e cinque gli imputati di strage -Freda, Ventura, Giannettini, Valpreda e Merlino- vennero assolti per insufficienza di prove. A Freda e Ventura vennero inflitti tuttavia 15 anni per associazione sovversiva. A Maletti la pena fu ridotta a 2 anni, a Labruna a un anno e 2 mesi.
Il 10 giugno 1982, però, la Cassazione annullò in gran parte la sentenza di appello e ordinò la ripetizione del processo di secondo grado. Confermò solo -rendendole definitive- l'assoluzione di Guido Giannettini (che uscì quindi dal processo) e le condanne per associazione sovversiva a Freda e Ventura (15 anni) e per associazione a delinquere per Valpreda e Merlino (4 anni e mezzo). Ma per le accuse sulla strage, tutto da rifare.
Il processo d'appello fu ripetuto a Bari, e si concluse il l° agosto 1985 con l'assoluzione, sempre per insufficienza di prove, di Freda, Ventura, Valpreda e Merlino. Maletti ebbe un anno, Labruna 10 mesi.
Così decisero i giudici. Nessun colpevole. Ma neanche nessun innocente doc: Valpreda, diventato un simbolo per tutta la sinistra, non andò mai più in là dell'insufficienza di prove, esattamente come i «neri». La giustizia, insomma, dichiarò la propria impotenza ad arrivare a una qualsiasi verità.
I giudici di Bari motivarono la loro sentenza nel febbraio del 1986. Valpreda non aveva ottenuto la formula piena perché la testimonianza del tassista Comelio Rolandi, «ben lungi dall'essere priva di efficacia accusatoria, è al limite della credibilità», scrissero i giudici nella motivazione «e se alcuni elementi quali le basette e la "erre" francese hanno confermato nella Corte perplessità, è impensabile trarre da esse un convincimento opposto, quasi che Rolandi, sia pure in buona fede, si fosse inventato tutto ed avesse accusato falsamente VaIpreda».
L'alibi fornito dal ballerino anarchico per il pomeriggio del 12 dicembre, poi, era «carente di prova», scrissero i giudici, «fondato com'è sulla dichiarazione di Valpreda e della zia, Rachele Torri, quest'ultima palesemente compiacente e contraddittoria».
Per motivare l'assoluzione di Freda, la Corte spiegò: «E' mera illazione partendo dalle scarse risultanze acquisite voler asserire che tutti i timer avevano le stesse caratteristiche dei timer acquistati da Freda: significa proprio voler dare per dimostrato quello che invece si vuole dimostrare».
Quanto a Ventura, i giudici fecero presente che l'accusa contro di lui si fondava innanzitutto sulle dichiarazioni del professor Guido Lorenzon, «che», si legge nella motivazione, «in quelle tempestose giornate del gennaio '70 fece di tutto: accusò Ventura, ritrattò e mentre ritrattava raccolse ulteriori confidenze del suo interlocutore e tornò ad accusarlo». E quindi: «Sulla base di deposizioni contraddittorie, non confortate da riscontri puntuali, parzialmente smentite da anni di inchiesta giudiziaria, non si può fondare un giudizio sicuro di responsabilità penale».
Merlino, infine, venne ritenuto un «provocatore attivatosi sistematicamente per coinvolgere i giovani anarchici spingendoli verso azioni violente». Ma nulla provava un suo coinvolgimento nella strage.
Questa sentenza, emessa dai giudici di Bari il l° agosto 1985, fu confermata dalla Corte di Cassazione, e quindi resa definitiva, il 27 gennaio 1987. Tre mesi dopo i giudici della Suprema Corte depositarono le motivazioni della loro decisione e chiarirono definitivamente, fra l'altro, la questione dei timer e delle borse acquistate da Franco Freda.
Dal «Corriere della Sera» del 5 aprile 1987: «Tutta una serie di perizie ha dimostrato che le borse e i timer usati negli attentati erano di tipo completamente diverso rispetto a quelli in possesso di Freda. Non sappiamo che cosa Freda volesse fare con quei congegni, ma la Corte ha stabilito che non ebbero alcun nesso con la strage del 12 dicembre».
Ma questa sentenza, se rappresentò la parola «fine» al processo Freda-Ventura-Valpreda-Merlino-servizi segreti, non fu comunque l'ultimo pronunciamento della giustizia su piazza Fontana.
Proprio dal processo di Bari, infatti, prese le mosse un'altra istruttoria: quella contro i neofascisti Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, latitante per diciassette anni, e Massimiliano Fachini.
Alcuni pentiti «neri», e precisamente Sergio Calore, Angelo Izzo e Sergio Latini, riferirono ai giudici di aver sentito dire in carcere, direttamente da Freda, che la bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura era stata messa da Fachini e che la strage «non era stata voluta»: una tesi, questa dell'errore, emersa più volte e da più parti durante i molti anni di indagini. Anche in un'informativa dei servizi segreti è scritto che «l'ordigno esploso alla banca di Milano non avrebbe dovuto causare vittime umane ma avrebbe dovuto esplodere quando la banca era chiusa. Per ostacoli frapposti ai tempi di esecuzione dell'attentato lo scoppio sarebbe avvenuto con anticipo».
Comunque siano andate le cose, le dichiarazioni dei pentiti «neri» Calore, Izzo e Latini portarono a un nuovo processo, contro Delle Chiaie, ritenuto il mandante della strage, e Fachini, considerato l'esecutore materiale. Ma neanche questo processo -fra tutti, quello dal più fragile impianto accusatorio- poté portare ad alcuna dichiarazione di colpevolezza. Delle Chiaie e Fachini furono assolti per non aver commesso il fatto (quindi con formula ben più liberatoria rispetto agli imputati dei processi precedenti) sia in primo grado, il 20 febbraio 1989, sia in appello, il 5 luglio 1991.

UN'IPOTESI

La strage di piazza Fontana, dunque, non ha colpevoli, almeno finora. Tutti coloro che sono stati processati per quella bomba -anarchici, nazisti, fascisti, agenti dei servizi- sono stati assolti. Non restano che le ipotesi.
Che la bomba sia un affare esclusivo degli anarchici, non lo sostiene più nessuno.
La sinistra, che come al solito è stata la più tenace nel portare avanti le proprie tesi, afferma che la strage fu voluta dalla parte più retriva dell'apparato politico e industriale italiano, che temeva una svolta progressista e in particolare le rivendicazioni economiche dell'autunno caldo. Atti di terrore avrebbero creato nella gente le condizioni favorevoli al ristabilimento dell'ordine, magari attraverso un regime più autoritario. I servizi segreti, in combutta con i fascisti, avrebbero quindi portato a segno la missione, seminando bombe in mezza Italia.
C'è però chi pensa che, tanto più è vera la tesi della sinistra, tanto più è verosimile la partecipazione degli anarchici all'attentato.
Per indirizzare il pubblico sdegno e la pubblica rabbia contro la sinistra, insomma, i servizi segreti avrebbero avuto bisogno di manodopera di sinistra, magari inconsapevole del gioco a cui si stava prestando. L'intuizione del commissario Calabresi: «Menti di destra, manovali di sinistra».
Gli stessi giudici di primo grado, quelli che condannarono all'ergastolo Freda, Ventura e Giannettini (cioè «neri» e servizi segreti) assolvendo l'anarchico Valpreda per insufficienza di prove, scrissero nella sentenza: «E' tutt'altro che assurdo ipotizzare che un singolo elemento di quel circolo [22 Marzo, quello di Valpreda, n.d.a.] possa essere stato agganciato, a titolo personale, dai veri organizzatori ed incaricato del collocamento materiale di una delle bombe».

E alla conclusione che la strage fu opera di una joint venture anarchici-fascisti-servizi segreti arrivò un'inchiesta delle Brigate rosse, il cui risultato fu trovato nel covo di Robbiano di Mediglia nell'ottobre del 1974. E il 10 gennaio 1991 il pentito delle Br Michele Galati, interrogato dal giudice istruttore di Venezia Mastelloni, disse che «le Br si erano ampiamente occupate» della strage «svolgendo una controinchiesta», le cui conclusioni «appurarono che materialmente l'ordigno era stato posto nella banca da Valpreda con la collaborazione di tutto il gruppo anarchico del Ponte della Ghisolfa: Pinelli, Merlino [questi però era del circolo 22 Marzo, n.d.a.]».
Proseguiva la testimonianza di Galati: «Gli anarchici volevano attuare un attentato dimostrativo antisistema. L'esplosivo e i timer furono forniti per l'attentato dal gruppo veneto di Freda e Ventura. Emerse dalla nostra inchiesta che il cervello dell'operazione era stato Delle Chiaie che era riuscito a gestire il gruppo di anarchici grazie all'inserimento in esso di Merlino che era un suo uomo. (...) Ebbene gli esiti dell'inchiesta su piazza Fontana non furono pubblicizzati anche perché dalla medesima risultava che Pinelli si era effettivamente suicidato perché realmente coinvolto. In questura Pinelli aveva capito che era stato mandato dalla destra. (...) Noi interpretammo i fatti come un attentato organizzato e ideato da alcuni settori dello Stato per fini di destabilizzazione. Emerse dalla nostra inchiesta anche un particolare ruolo di Giannettini nel progetto svolto da Delle Chiaie nonché il fatto che il tassista Rolandi aveva anche confermato a uno di noi di aver trasportato proprio Valpreda. Rolandi era conosciuto in qualche ambiente della sinistra milanese».
Anche l'inchiesta delle Br, secondo Galati, arrivò alla conclusione che la strage fu un errore: «L'ordigno doveva esplodere quando i locali della banca erano rimasti deserti». L'ex brigatista sostiene che le operazioni bancarie si protrassero oltre il normale orario, sbagliando però su un particolare: dice che il ritardo nella chiusura della banca fu dovuto al fatto che si era alla vigilia della festa di Sant'Ambrogio, che in realtà cade il 7 dicembre.
Questa tesi delle Br è stata ripetuta nel settembre del 1992 dall'allora segretario del Psi Bettino Craxi: «La bomba l'hanno fatta mettere agli anarchici. Secondo me sono stati spezzoni dei servizi segreti, legati alla Nato, del Veneto. Queste cose a chi si fanno fare? Agli anarchici. Il tassista Rolandi, che era comunista, perché doveva mentire? Giuseppe Pinelli era un brav'uomo. Al massimo gli anarchici possono essere stati ingannati sul tempo dell'esplosione. A quell'ora la banca doveva essere chiusa... Penso che Pinelli abbia avuto un ruolo di appoggio logistico. Ma quando capì, si suicidò per il rimorso». Affermazioni per cui è stato querelato.

L'ULTIMA INDAGINE

L'ultima speranza di arrivare alla verità è legata all'indagine che il giudice milanese Guido Salvini ha riaperto nel 1988, partendo da un vecchio fascicolo sull'attività della Fenice di Giancarlo Rognoni, un gruppo di estrema destra considerato in pratica una sorta di filiale milanese di Ordine nuovo. Nel 1992, essendo emersi indizi che potevano portare fino, appunto, alla strage di piazza Fontana, il giudice Salvini ha chiesto, e ottenuto, una proroga per poter approfondire le indagini.
Nel momento in cui scriviamo, l'inchiesta non è ancora finita, e quindi non è possibile sapere a quali risultati potrà approdare. Sembra tuttavia che là dove non ha potuto il potere inquisitorio degli uomini, possa forse arrivare il vecchio, tanto spesso dimenticato timor di Dio.
Salvini ha ascoltato decine di testimoni, fra cui molte persone anziane, che non hanno avuto pudore nel dire al magistrato di avere ormai solo paura del Tribunale con la «t» maiuscola. Gente che desidera soltanto ritrovare la pace della propria coscienza ha raccontato particolari importanti, che non conosciamo -l'indagine, contrariamente a quanto accade di solito, è riuscita a scorrere in un'accettabile segretezza e, per fortuna di Salvini, ha goduto del disinteresse della stampa- ma che pare abbiano consentito la ricostruzione di non pochi episodi del periodo del terrore.
Con Salvini parlano anche alcuni personaggi dell'estrema destra, fra cui Vincenzo Vinciguerra, l'autore, reo confesso, dell'attentato di Peteano (tre carabinieri uccisi con un'autobomba il 31 maggio 1972). Vinciguerra non è un pentito, non ha mai chiesto sconti alla giustizia. Ma parla perché vuole portare avanti la sua tesi: e cioè quella, già esposta nel suo libro Ergastolo per la libertà, secondo cui i neofascisti sono stati strumentalizzati dai servizi segreti, e dalla Cia in particolare, per creare quella «strategia della tensione» che solo in apparenza avrebbe potuto giovare all'estrema destra.
Vinciguerra, in sostanza, dice questo: io sognavo una rivoluzione nazionalsocialista, e quando mi accorsi che la maggior parte dei camerati di Ordine nuovo non operava contro lo Stato ma per lo Stato, la delusione per me fu grande; capii che non ci stavamo battendo per le nostre idee, ma per una svolta conservatrice in chiave filoatlantica, insomma per mantenere l'equilibrio creato in Occidente dagli Usa dopo la seconda guerra mondiale.
Fu per reazione a questa traumatica scoperta che Vinciguerra organizzò l'attentato di Peteano: uccidendo tre carabinieri, e quindi tre servitori dello Stato, sentì di aver finalmente compiuto un gesto rivoluzionario, il primo nella storia del neofascismo. E quando si accorse che, a sua insaputa, carabinieri e uomini dei servizi segreti stavano inquinando le prove per indirizzare verso la malavita comune le indagini su Peteano, Vinciguerra decise di confessare («di assumere la responsabilità dell'attentato», dice lui) per smascherare l'imbroglio.
E con Salvini parla ora anche quel capitano del Sid, adesso in pensione, Antonio Labruna, condannato per favoreggiamento nei confronti di Marco Pozzan. Labruna sente di essere l'unico che ha veramente pagato, anche perché il suo superiore, Gian Adelio Maletti, da tempo si è eclissato in Sudafrica. Così, vuole che il suo ruolo sia ricondotto nell'alveo naturale, quello -dice- di un esecutore di ordini spesso ignaro.
Di tutta questa inchiesta, il dato più concreto finora sono le tre informazioni di garanzia per strage inviate nell'ottobre 1993 a tre persone, di cui una sola è nota: un certo Martino Siciliano, quarantasette anni, tra i fondatori del gruppo veneto di Ordine nuovo. Siciliano, che vive in Francia da molti anni, è indiziato da Salvini di essere colui che materialmente confezionò, con una cassetta di metallo, l'ordigno che esplose alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.

Quanto ci sia di vero nell'indagine di Salvini, ovviamente, è impossibile dirlo. Per il momento ci si può limitare a riferire il quadro generale del suo impianto accusatorio. Un quadro generale che riportiamo così com'è nelle sue linee essenziali, senza alcuna pretesa di valutarne la fondatezza.
Per Salvini, la strage di piazza Fontana fa parte della cosiddetta «guerra non ortodossa» che i Paesi occidentali, alla fine degli anni Sessanta, organizzarono per far fronte al pericolo comunista. Scopo di questa «guerra non ortodossa» era quello di creare situazioni di instabilità, a volte di terrore, che inducevano la gente a chiedere l'instaurazione di un governo forte.
La centrale europea di questa strategia, sempre secondo l'indagine di Salvini, era l'Aginter Press, un'agenzia di stampa che aveva sede a Lisbona quando il Portogallo era retto da una dittatura di destra; e che poi, nel '74, dopo la caduta di Caetano, si spostò a Madrid. Salvini è convinto che l'Aginter Press altro non fosse che un'emanazione della Cia, o meglio una sorta di «braccio illegale» a cui la Cia affidava ciò che non poteva fare in proprio.
Capo dell'Aginter Press era Yves Guerin Serac, ufficiale dell'esercito francese, già combattente in Algeria e in Corea, tuttora vivo, forse emigrato in Sudamerica.
Serac -stiamo sempre riportando il succo dell'indagine di Salvini- aveva uomini in tutti i Paesi dell'Europa occidentale, e quindi anche in Italia. Aveva collaboratori fra i servizi segreti e all'interno dei gruppi neofascisti. Salvini punta su lui, Serac, quale regista e mandante; e poi ancora su Freda, Ventura e Delle Chiaie (che però non possono più essere processati, essendo stati assolti con sentenza definitiva) quale base organizzativa in Italia, e quindi sul gruppo milanese della Fenice per la parte logistica. Ritiene che i servizi segreti italiani non abbiano partecipato né all'ideazione né alla preparazione dell'attentato, ma che siano intervenuti solo in un secondo tempo, a indagini in corso, per depistare. Gladio, contrariamente a quanto ipotizzato da qualcuno, nell'indagine di Salvini non c'entra invece nulla.
Le bombe del 12 dicembre -è questa l'ipotesi di quest'ultima indagine- avevano lo scopo di creare le condizioni favorevoli a un colpo di Stato che si sarebbe effettuato di lì a pochi giorni, e che invece, all'ultimo momento, saltò.
E'chiaro tuttavia che per far accettare all'opinione pubblica una svolta a destra, occorrevano due condizioni.
La prima è un'estrema gravità della situazione, e questo fa pensare che chi mise la bomba volle davvero fare tanti morti: cadrebbe così l'ipotesi dell'errore.
La seconda condizione è che era necessario che l'indignazione della gente si indirizzasse contro la sinistra, e quindi bisognava attribuire ai «rossi» la responsabilità degli attentati: ed ecco che torna l'ipotesi della strumentalizzazione di qualcuno di sinistra. Salvini, però, non ha trovato (almeno per il momento) alcuna prova in questa direzione.
Queste, comunque, sono le ultime indagini e le ultime ipotesi della magistratura nella primavera del 1994, cioè a quasi un quarto di secolo dallo scoppio della bomba. Vedremo se questa strada porterà finalmente alla verità, o se sarà l'ennesimo inganno.

DA QUELLA BOMBA

Se ci siamo soffermati a lungo sulle indagini e sulle varie «piste» battute per dare un nome ai colpevoli, è perché non solo la stessa strage, ma anche -appunto- le varie inchieste della magistratura hanno caratterizzato in modo indelebile tutto quanto è accaduto, poi, negli anni successivi.
A cambiare gran parte della vita del Paese fu infatti, più che la bomba, il suo fall-out, le sue conseguenze.
La scoperta -per molti sconvolgente- delle infedeltà di uomini dello Stato creò una sindrome di incredulità, di scetticismo che ancora oggi accompagna tutto ciò che viene comunicato alla gente dal cosiddetto «palazzo».
Insomma: fino alla fine degli anni Settanta, la stragrande maggioranza degli italiani era disposta a prendere per oro colato tutto ciò che veniva detto da polizia, carabinieri e magistratura. Le goffe e gravi deviazioni di agenti dei servizi segreti durante l'inchiesta su piazza Fontana -e, purtroppo, durante molte delle successive inchieste sulle altre stragi- incrementarono una cultura del sospetto che tuttora avvelena i rapporti fra Paese reale e Paese ufficiale, cioè fra gente comune e governanti.
D'altra parte una certa sinistra ricavò da piazza Fontana materia sovrabbondante per alimentare la sua tradizionale predisposizione al vittimismo, e per dirottare l'attenzione della gente solo ed esclusivamente sul «pericolo nero», sul rischio di un golpe fascista. La strage fu, per molti anni, l'argomentazione principe di chi sosteneva l'inesistenza degli «opposti estremismi», di chi voleva far credere agli italiani -brandendo i fascicoli giudiziari su Freda, Ventura e Giannettini- che di pericolo ve n'era uno solo, quello di destra. E per «destra» s'intendeva un minestrone dove stavano dentro tutti: il Msi, gli estremisti usciti (o cacciati) dal Msi, la Dc, l'esercito, i capitalisti, magari anche la Chiesa. Tutti insieme, senza distinzioni.
Fiorirono le inchieste giornalistiche di «controinformazione» su piazza Fontana, la più famosa delle quali raccolta in un libro che divenne un best-seller, La strage di Stato, immancabile per un buon decennio nella biblioteca di casa di ogni «democratico». Se queste inchieste ebbero indubbiamente il merito di dare una scossa a un'informazione troppo omologata alle fonti ufficiali, e di rivelare complicità fino a quel momento ignote e inconfessabili, va anche detto che i giornalisti della cosiddetta controinformazione su piazza Fontana si fecero presto prendere la mano, sostituendo agli errori dei vecchi cronisti, troppo ossequiosi nei confronti della polizia, una faziosità spesso cieca e violenta.
Il giornalista Piero Scaramucci, che negli anni Settanta militava in Lotta continua e che fu uno degli autori del libro La strage di Stato, pur confermando che «la tesi di fondo si rivelò esatta», ha ammesso al «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1992: «Commettemmo ingenuità, qualche errore di valutazione». Nello stesso articolo del «Corriere» era riportata questa dichiarazione dell'onorevole Tiziana Maiolo, all'epoca cronista giudiziaria del «manifesto»: «Io mi sono formata giornalisticamente proprio seguendo le indagini sulla strage di piazza Fontana. Le versioni ufficiali non venivano mai prese per buone. Curiosi e ficcanaso, volevamo vederci chiaro. In seguito, però, la curiosità lasciò il posto all'ideologia. Mi spiego: partendo dall'idea che le stragi erano fasciste, di fronte agli arresti di persone di destra molti colleghi rinunciavano a qualsiasi critica. E sbagliavano».
Un atteggiamento di cecità che portò, fra l'altro, a ignorare sistematicamente la nascita del terrorismo rosso, che poté proliferare anche grazie a una caduta di attenzione verso sinistra, visto che lo slogan politico spacciato per verità giudiziaria era che esisteva un'unica «strategia della tensione».

Anche sulla vera matrice di questa strategia della tensione c'è ancora molto da discutere.
Si disse allora che la bomba in piazza Fontana fu concepita per fermare le rivendicazioni salariali dell'autunno caldo, e questa versione ha trovato credito e spazio sufficienti per finire nei libri di storia.
In realtà, è una congettura che cozza contro i fatti. Il 12 dicembre 1969, infatti, praticamente tutte le vertenze sindacali si erano già chiuse. Il 9 dicembre era stato siglato il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici del settore pubblico, con un aumento di 65 lire all'ora per gli operai e di 13.500 lire al mese per gli impiegati: un accordo trovato anche grazie alla mediazione del ministro democristiano Donat Cattin, e foriero di un rapido raggiungimento di un'intesa anche per i metalmeccanici dell'industria privata (il cui contratto venne infatti firmato il giorno 21). Lo stesso 9 dicembre e il giorno seguente, poi, erano stati firmati i nuovi contratti degli edili, dei cementieri, dei fornaciari, dei cavatori e degli esercizi pubblici; e l'11 dicembre avevano trovato e formalizzato l'accordo anche i bancari. Sempre prima di quel 12 dicembre, si era rasserenata la situazione alla Fiat Mirafiori, con il ritiro -da parte dell'azienda- delle cinquemila minacciate lettere di licenziamento.
Troppo debole, quindi, la tesi delle bombe usate come freno alle rivendicazioni salariali.
E' possibile, invece, che alcuni settori del Paese, i più ottusamente reazionari, abbiano deciso di seminare il terrore fra la gente, cercando di scaricare le responsabilità sui «rossi», per far crescere la pubblica indignazione contro il pericolo comunista e favorire una svolta autoritaria, anche se non un golpe.
Questa ipotesi -che comunque si regge, al momento, solo sulla logica del cui prodest?- appare però verosimile per la strage del 12 dicembre 1969, ma non per tutto lo stragismo degli anni di piombo.
Dopo quello che era emerso dalle indagini su piazza Fontana, dopo la scoperta della «pista nera» e della «pista di Stato», la destra non avrebbe certo potuto sperare di trarre vantaggio da nuove stragi di innocenti. E infatti ciascuna, delle bombe esplose dopo il 12 dicembre venne immediatamente ritenuta «fascista» o «di Stato», e non furono certamente le destre a beneficiare, in termini elettorali, di tanto sangue. Se dovessimo dunque continuare a ragionare col criterio del cui prodest?, dovremmo guardare a sinistra: e, visto quanto emerso finora dalle indagini, proprio non lo si può fare.
E allora che senso hanno le stragi successive a piazza Fontana? Il fatto che, per tutte le altre bombe, si sia pregiudizialmente ristretto all'estrema destra il campo dell'indagine giudiziaria, rinunciando in partenza ad altre piste, non ha aiutato a rispondere a questo interrogativo.
Di certo la tensione ci fu, ma non è detto che la strategia sia stata una sola. Il 14 novembre 1974, sul «Corriere della Sera», Pier Paolo Pasolini scrisse di «due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)».
Pasolini scrisse chiaramente che entrambe le fasi della strategia della tensione erano state gestite «con l'aiuto e per ispirazione della Cia»: e di opinione non molto diversa sembra appunto essere Guido Salvini. Poteri forti e occulti, trasversali ai partiti politici e ai vari corpi dello Stato, avrebbero usato l'arma del terrore per scacciare ogni rischio di cambiamento. Il tutto sotto le direttive dell'alleato americano, che avrebbe utilizzato i servizi segreti italiani, che a loro volta avrebbero sfruttato, per le operazioni di bassa manovalanza, manipoli di fanatici. Questa è l'ultima ipotesi.
Prove di tutto questo non ce ne sono. E se è sbagliato parlare di una sola strategia, forse è sbagliato anche parlare di un solo stratega. Nella grande confusione di quegli anni, a giocare con bombe e funerali potrebbe essere stato più d'uno, a Ovest come a Est.
Certo è che il comportamento di coloro ai quali era affidata la sicurezza dello Stato, e in particolare il comportamento dei servizi segreti, non ha fatto altro che alimentare i sospetti e allontanare la verità. Agenti imbroglioni e depistatori, molto spesso legati alla loggia massonica P2, li troviamo non solo nell'inchiesta su piazza Fontana, ma anche in quasi tutti i processi per strage.

Così, di quel periodo oscuro ben poche cose certe sappiamo. Di certissimo c'è che da quel 12 dicembre 1969 il ricorso alla strage è diventato una costante. Alla bomba di piazza Fontana seguirono infatti quelle del 22 luglio 1970 sul treno «La Freccia del Sud» (6 morti e 139 feriti); del 31 maggio 1972 a Peteano (3 morti e un ferito, tutti carabinieri); del 17 maggio 1973 davanti alla questura di Milano (4 morti e numerosi feriti); del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 94 feriti); del 4 agosto 1974 sul treno Italicus, a San Benedetto Val di Sambro (12 morti, un centinaio di feriti); del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (80 morti, decine di feriti); del 24 dicembre 1984 sul treno 904 Napoli-Milano (16 morti, 266 feriti).
Solo per tre di queste otto stragi ci sono sentenze definitive di condanna: contro gli estremisti di destra Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini per la bomba di Peteano, contro l'anarchico Gianfranco Bertoli per quella alla questura di Milano. Vinciguerra e Bertoli sono rei confessi e stanno scontando l'ergastolo, Cicuttini è latitante all'estero. Per la bomba del 24 dicembre '84, i giudici hanno ritenuto che la matrice non fosse politica ma mafiosa, condannando all'ergastolo Pippo Calò e i suoi luogotenenti: i morti del rapido 904 dovevano servire a distogliere l'attenzione dello Stato dall'attività delle cosche siciliane. Per tutte le altre stragi, buio quasi completo.


IX - ED ECCO IL PARTITO ARMATO

La strage di piazza Fontana, e i torbidi intrallazzi che ne seguirono, sono ancor oggi l'alibi da sbandierare quando si ricorda la lotta armata e, più in generale, la degenerazione violenta del movimento.
La tesi che insomma si vuol accreditare è che, se l'estrema sinistra diventò violenta, fu -oltre che a causa della «repressione» di cui parlavamo prima- soprattutto per reazione ai morti del 12 dicembre, e per risposta al complotto di Stato ordito al fine di fermare l'avanzata progressista.
Dice, ad esempio, Mario Capanna: «Ridemmo, fino a quando fummo posti di fronte allo strazio di piazza Fontana. La risposta [alla contestazione del '68, n.d.a.], dunque, furono le bombe e le stragi (continuate fino alla metà degli anni Ottanta!), un terrorismo di Stato spinto a tal punto che ancora oggi sono rimaste impunite» («Corriere della Sera», 18 gennaio 1993). Secondo Capanna, il terrorismo di sinistra non fu «figlio del Sessantotto», ma «figlio legittimo della sorda resistenza dei poteri alle spinte di cambiamento di allora».
E Renato Curcio, fondatore delle Brigate rosse, ha detto a Mario Scialoja nel libro-intervista A viso aperto: «Con la strage di piazza Fontana il clima improvvisamente cambiò. Fu a quel punto che scattò un salto di qualità: prima nel nostro pensare e poi nel nostro agire. Queste bombe e la strumentalizzazione che ne viene fatta sono un atto di guerra contro le lotte e il movimento, dimostrano che siamo arrivati a un livello di scontro molto aspro, ci dicemmo».

LA BATTAGLIA DEL MILIARDARIO GIANGI

In realtà, tutto -date, discorsi, documenti- dimostra che la scelta della violenza, e anche quella della lotta armata vera e propria, sono precedenti al 12 dicembre 1969.
Cominciamo con quello che viene considerato una sorta di progenitore del terrorismo di sinistra: Giangiacomo Feltrinelli.
L'editore aveva, nel 1968, quarantadue anni. Da dieci era uscito dal Pci, e aveva cominciato un singolarissimo tour planetario alla ricerca della rivoluzione ideale. Era stato in Medio Oriente, in Cina, nei Paesi dell'Europa dell'Est, a Cuba e in America Latina. Si era incontrato con il leader palestinese Habbash, con Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit, con i terroristi della Raf tedesca, con Fidel Castro ed Ernesto «Che» Guevara.
Questo «miliardario rosso» che sceglierà la strada della lotta armata fondando i Gap (Gruppi di azione partigiana) e arrivando alle conseguenze più estreme (morirà il 15 marzo 1972 dilaniato da una bomba che stava collocando su un traliccio dell'alta tensione), aveva proclamato la necessità della guerra proletaria già ben prima della strage di piazza Fontana. Basta leggere i suoi saggi Italia 1968: Guerriglia politica (scritto nel gennaio 1968 a Cuba), Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia! (aprile 1968) ed Estate 1969 (pubblicato nel mese di luglio di quell'anno). Vi si sostiene, fra l'altro, «il definitivo tramonto non solo del revisionismo, ma anche dell'ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica delle armi».
Ma non solo. La casa editrice di Feltrinelli aveva pubblicato, nel marzo del 1969 (attenzione alle date: sono tutte precedenti a quel tragico 12 dicembre 1969, giorno della strage di piazza Fontana), un libretto intitolato La guerriglia in Italia, che conteneva dettagliate istruzioni sul come sostenere, appunto, la guerriglia: compresa la preparazione di esplosivi. Non fu, quello, che uno dei tanti opuscoli diffusi da Feltrinelli per istruire le masse sulle tecniche del terrorismo. Altri titoli: Tupamaro, Che Guevara, Camillo Torres. Volumetti che erano regolarmente in circolazione, a dimostrazione di quanto fosse «repressivo» il clima nell'Italia di quel 1968. Per sfuggire alla legge, quando proprio si voleva essere prudenti , bastava mettere un titolo di comodo, e alcune «finte» pagine all'inizio del libretto. E' il caso, ad esempio, di uno degli opuscoli più venduti in quel tempo: si chiamava Il sangue dei leoni, un titolo apparentemente innocuo, e nelle prime 78 pagine era riportato un discorso del leader congolese Edouard-Marcel Sumbu, del quale ovviamente non importava niente a nessuno. Ciò che interessava erano le rimanenti pagine, dov'era riprodotto il Manuale delle Special Forces. Un manuale -leggiamo- concepito per: «a) Predisporre e condurre operazioni belliche non convenzionali in zone che non siano sotto controllo amico. b) Organizzare, equipaggiare, addestrare e dirigere forze indigene nella condotta delle operazioni di guerriglia. c) Addestrare, consigliare e assistere forze indigene nella condotta di operazioni controinsurrezionali e antiguerriglia in appoggio agli obiettivi statunitensi di guerra fredda. d) Eseguire altre missioni per special forces secondo le direttive o i requisiti o le esigenze della missione primaria di tipo guerrigliero». Dagli odiati yankees veniva mutuata la tattica di guerra. C'era tutto, in quel libretto: notizie dettagliate su vari tipi di armi e sulla confezione di un'infinita serie di esplosivi, nozioni di strategia della guerriglia, istruzioni per le comunicazioni fra i reparti e il pronto soccorso.

«Giangi» Feltrinelli era ossessionato dall'idea di un golpe, che riteneva imminente e inevitabile. Sosteneva di conoscere persino i dettagli operativi del putsch: diceva che a Roma e a Pisa erano già state fatte le prove del blocco di telefoni e telegrafo, che l'esercito si sarebbe riversato nelle piazze per garantire l'ordine pubblico, che la Cgil e la Cisl si sarebbero schierate con i golpisti, e che agli oppositori avrebbero pensato reparti speciali di carabinieri, marina e paracadutisti, incaricati di colossali deportazioni in segretissimi campi di concentramento. Già nel 1967, convinto che questo tragico scenario si sarebbe verificato di lì a poco, aveva mandato alcuni suoi emissari in Sardegna per organizzare, di concerto con il banditismo locale, una nuova Resistenza. L'isola, nel progetto di Feltrinelli, sarebbe dovuta diventare una specie di Cuba del Mediterraneo. Ma i suoi emissari, dopo aver parlato con i boss di Orgosolo e dintorni, gli riferirono che era meglio lasciar perdere.
Di fronte alla certezza dell'ineluttabilità del golpe, comunque, Feltrinelli serrò le file della sua organizzazione, richiamando alle armi giovani inquieti e vecchi partigiani che sentivano traditi gli ideali della Resistenza. E, appunto, sfornando a migliaia di copie questi opuscoli, che dovevano preparare le masse a resistere: «Dobbiamo organizzare le avanguardie marxiste-leniniste. Dobbiamo costituire cellule e comitati di resistenza. Dobbiamo sviluppare una vera e propria guerriglia politica» si legge nel saggio Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia! dell'aprile 1968. Il programma feltrinelliano era «Resistenza attiva oggi, controffensiva domani». E aveva cominciato, lui ricco editore, ad addestrarsi all'uso delle armi e alla vita alla macchia.

PERCHE' LA VIOLENZA

Erano forse, quelli di Feltrinelli, pruriti intellettuali di un rivoluzionario da salotto? Un fenomeno limitato? Nient'affatto. Feltrinelli non era un isolato. Non a caso una parte del suo saggio Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia! fu pubblicata anche da «La Sinistra», giornale diretto da Lucio Colletti e Paolo Flores d'Arcais.
E poi la convinzione che il ricorso alla lotta armata fosse ineluttabile per la vittoria finale era convinzione diffusa in tutto il movimento, ben prima della strage di piazza Fontana. Come testimonia, fra l'altro, il fatto che quei famosi opuscoli sulla guerriglia vennero venduti come pane.
Lo stesso Capanna -che pure con il terrorismo non ha mai avuto nulla a che fare- diceva, l'11 marzo 1969, alla «Domenica del Corriere»: «[La rivoluzione è] più che un conflitto, un processo, una lotta -poi stabiliremo se violenta o no- nel corso della quale la classe operaia, oppressa, rovescia il rapporto di potere, prende a sé il potere. Per noi, come per Marx, Lenin, Mao, essa è violenta o non è».
E ancora, alla domanda «Tu ipotizzi quindi anche una rivoluzione violenta, le fucilate nelle strade?», Capanna rispose: «Certamente». E sempre nella stessa intervista, il leader del Movimento studentesco spiegava: «Che poi per conseguire questo occorra anche agire con violenza, potrà dispiacere, ma non è scelta che facciamo noi. E' scelta alla quale siamo costretti da chi detiene il potere. Varrebbe la pena di approfondire il discorso sulla violenza. Mi rendo conto che la gente ha paura quando si parla di violenza. Ma perché ha paura? Perché è stata convinta, attraverso un'abile orchestrazione di informazioni, di ricatti, che il sistema in cui vive non è violento. Il che è falso. Perché è violenza tacere una notizia, o darla in ritardo, o in maniera parziale. Non è violenza costringere milioni di uomini a lavorare in condizioni subumane? E non è vero che lavorano in condizioni subumane? Qualcuno lo smentisca, venga con me all'Alfa Romeo, alla catena di montaggio, o alla Pirelli. Questa è violenza, sottile, quotidiana».
La stessa tesi, Capanna la illustrò dettagliatamente nell'articolo La Contro-violenza rivoluzionaria, che scrisse su «Gli studenti alla Città», giornale di controinformazione studentesca: «Subiamo quotidianamente, e a tutti i livelli, la manipolazione e il ricatto di questo sistema che si regge sull'uso programmato della violenza. Opporsi ad esso in maniera pacifica vuol dire rinunciare in partenza a cambiarlo alle radici. (...) Chi comanda deve usare la violenza appunto perché è in minoranza e deve impedire costantemente la ribellione degli oppressi. Questi, per liberarsi, per essere veramente uomini padroni della propria vita e del proprio lavoro, devono prendere loro il potere, devono sconfiggere la minoranza violenta, devono usare una violenza più forte. Non quindi il gesto individuale terroristico, ma la violenza di massa, programmata, organizzata. Il popolo oppresso che lotta unito è invincibile. Davanti alle lotte di popolo gli imperialisti segnano il passo: Vietnam, Cina, Angola, Mozambico ecc. Questa violenza non è distruggitrice: è creativa, (...) La violenza rivoluzionaria è l'unica possibilità effettiva di instaurare una società dove non vi siano più oppressi ed oppressori, dove il potere si eserciti sotto il controllo reale di tutti».
Come si nota, il ricorso alla violenza non era ritenuto indispensabile solo per reagire a un ipotetico colpo di Stato, ma anche per ribaltare il potere già costituito e dar vita a una società comunista.

DATE DI NASCITA DEL TERRORISMO ROSSO

E poi la violenza, nelle scuole e nelle università, fu pratica quotidiana fino dagli albori del Sessantotto. Ha scritto Massimo Fini sull'«Indipendente» del 5 maggio 1993: «Se me ne sono andato dal movimento studentesco dopo soli tre mesi è anche perché si era presa l'abitudine di sprangare trenta contro uno chi la pensava diversamente. (...) Vomitai l'anima, anche per lo sforzo, nei cessi della Statale dopo che con altri compagni ci avevamo messo quaranta minuti per sottrarre Paolo Longanesi, il figliolo di Leo, alla furia scatenata di Luca Cafiero, Popi Saracino e altri noti picchiatori del momento».
E anche se guardiamo -oltre che alle fissazioni di Feltrinelli e alla violenza dei vari gruppi studenteschi- allo stesso «partito armato», vediamo che la data di nascita è anteriore a quel fatidico 12 dicembre 1969 a cui tutto si vorrebbe far risalire.
Ha scritto il politologo Giorgio Galli nella sua Storia del partito armato: «Ai primi di novembre (del 1969) nell'albergo Stella Maris di Chiavari, di proprietà di un istituto religioso, si riuniscono una settantina di appartenenti al Collettivo politico metropolitano di Milano nel quale figura il nucleo che nell'anno successivo fonderà le Brigate rosse. Nella sala Marchesani attigua all'albergo, di proprietà dello stesso istituto, ottenuta col pretesto di trattare temi della presenza cattolica nella società, Renato Curcio tiene una relazione che si può considerare la carta della fondazione del partito armato».
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, nega che in quell'occasione si sia parlato di lotta armata. Ha scritto nel suo libro Mara Renato e io: «Un atto di fondazione delle Brigate Rosse non è stato mai scritto anche se la loro nascita la si fa normalmente risalire a un convegno che tenemmo a Chiavari, nell'autunno del 1969. Non è vero. In riviera discutemmo soltanto di come doveva muoversi il neonato Collettivo politico metropolitano. Non si parlò di lotta armata e la "clandestinità», come mezzo di lotta politica, venne respinta».
Franceschini viene però contraddetto da Renato Curcio, che nel libro-intervista A viso aperto così racconta il convegno di Chiavari: «Dopo due giorni di dibattito in una fredda saletta, decidemmo di trasformarci in un gruppo più centralizzato: che chiamammo Sinistra proletaria... E nel documento elaborato al convegno di Chiavari, il cosiddetto "libretto giallo", parlando dell'autonomia operaia introducemmo per la prima volta una riflessione sull'ipotesi della lotta armata».
Ma più che i ricordi, a volte contraddittori, di Franceschini e Curcio, parlano i documenti. E il documento elaborato dal Collettivo in quel convegno di Chiavari nel novembre del 1969 dice:
«Compagni, non è con le armi della critica e della chiarificazione che si intacca la corazza del potere capitalistico. Questi anni di lotta proletaria hanno finalmente maturato un fatto nuovo ed un fiore è sbocciato: la lotta violenta e organizzata dei nuovi partigiani contro il potere, i suoi strumenti e i suoi servi. Da Milano a Roma, da Trento al Sud, le poderose e incessanti lotte proletarie hanno trovato uno sbocco nelle azioni offensive dei primi nuclei proletari della nuova Resistenza».
E un'ulteriore prova del fatto che il terrorismo di sinistra fu concepito prima della strage di piazza Fontana sta nella data di fondazione (22 ottobre 1969) di uno dei primi gruppi che esplicitamente scelsero la lotta armata: il gruppo chiamato, appunto, «XXII Ottobre».

I FIGLI SCOMODI

Dire che l'estrema sinistra diventò violenta -sia nei gruppi sia nelle sue avanguardie clandestine- per reazione alla strage di piazza Fontana, e come difesa a un colpo di Stato che si riteneva incombente, è l'ultima (in ordine di tempo) forma di esorcismo attuata dalla sinistra. Per negare che dal movimento del Sessantotto stava nascendo una forza eversiva violenta, si fece ricorso a una serie di argomentazioni via via smentite dai fatti.
Ha lucidamente osservato un giornalista dichiaratamente di sinistra, Giampaolo Pansa, nel suo libro Storie italiane di violenza e terrorismo: «Fra le molte sinistre non si volle ammettere che [i terroristi] erano facce note e alcune, un tempo, anche facce amiche. Circolò una tacita parola d'ordine: rifiutare il "problema terrorismo" come problema della sinistra e negare che un certo numero di compagni si fossero messi a sparare, a rubare, a sequestrare. Così gli opportunismi di partito, la paura di essere coinvolti in un discorso amaro, e un'invincibile tendenza ad autoingannarsi, strinsero alleanza e generarono un doppio errore.
«Il primo» continua Pansa «fu quello di non voler riconoscere l'identità politica delle bande clandestine e di classificarle come semplici gruppi criminali. Questo avvenne soprattutto con le bande marginali, prima fra tutte quella dei "22 Ottobre" di Genova, che non si fregiavano della leadership di laureati a Trento, bensì della guida più modesta di operai e sottoproletari.
«Quando l'origine politica delle bande non poté più essere smentita, si commise il secondo errore: quello di sfuggire alla verità con l'aiuto di figure che avevano si, a che fare con la politica, ma erano figure di comodo, immagini continuamente diverse, talora contrastanti, però sempre false. Fu l'epoca del camuffamento. Per non confessare che il terrorismo veniva dalle fila della sinistra, si cominciò a parlare di "sedicenti" Brigate rosse, di fascisti travestiti, di provocatori organizzati dal padrone, di agenti dei servizi segreti addetti alla strategia della tensione, di mercenari al seguito di qualche complotto straniero. Più tardi si ricorse a un camuffamento meno lontano dalla realtà: i terroristi, in fondo, sono soltanto dei compagni che sbagliano».
E dopo questo terzo camuffamento, ecco il quarto, sopravvissuto fino ai nostri giorni: la sinistra si armò perché c'era stata la strage di piazza Fontana.
Non può sfuggire, fra l'altro, il fatto che l'ostinazione nel cercare attenuanti al terrorismo «rosso» (o addirittura nel negare la sua vera matrice) è più della sinistra tradizionale, per così dire legale, che non di quella extraparlamentare. Franco Piperno, di Potere operaio, non ha avuto alcuna difficoltà nell'affermare (nel 1979, in piena offensiva delle Br) che «il terrorismo di oggi è figlio del '68; anzi, del '68 è il figlio di maggior rilievo, l'unico vero seguito dell'azione politica di quella stagione».
E Chicco Galmozzi, uno dei fondatori di Prima linea, ha detto al «Corriere della Sera» dell'11 maggio 1993: «La sinistra italiana ha rimosso il fatto che la violenza non era identificabile soltanto con le Brigate rosse, ha dimenticato, per esempio, che l'agente Annarumma è morto durante uno scontro con gli operai davanti al Lirico... Nei cortei di trentamila erano tutti d'accordo, il nemico era comune. Qualcuno dalle parole scendeva ai fatti ma la spinta era della massa. E le colpe andrebbero condivise. Che dire delle armi? Abbiamo disseppellito quelle dei partigiani. Solo da poco è stata pubblicata una lettera del '43, del comando dei Gap di Roma, in cui si invitavano tutte le formazioni a intensificare le attività terroristiche. Quindi, il terrorismo in Italia non è figlio del nulla. E' scomodo dire che anche noi apparteniamo alla tradizione della sinistra. Che perciò ha deciso di falsificare la storia».

LA TRAGICA FINE DEL COMPAGNO OSVALDO

I Gap di Feltrinelli, il gruppo XXII Ottobre di Genova e le Brigate rosse furono dunque le prime tre formazioni che scelsero la lotta armata.
I Gap, attivi soprattutto nel triangolo Milano-Genova-Torino e dediti in particolare agli attentati dinamitardi, non sopravvissero alla fine del loro fondatore. Giangiacomo Feltrinelli, che da tempo si era dato alla clandestinità (pur senza essere ricercato) e girava con documenti falsi, saltò in aria il 15 marzo 1972, dilaniato da una bomba che stava mettendo a un traliccio dell'alta tensione a Segrate: l'obiettivo era quello di procurare un black-out in una buona parte di Milano. Centinaia di giornalisti e intellettuali sostennero immediatamente la tesi dell'omicidio, della «mostruosa macchinazione», della «gravissima provocazione».
Si accusarono la polizia e la Cia di aver ucciso l'editore e di aver organizzato una macabra messinscena, e il giorno dei funerali migliaia di persone, in un'atmosfera tesissima, sfilarono gridando: «Compagno Feltrinelli sarai vendicato dalla giustizia del proletariato».
Ogni discussione venne troncata, anni più tardi, dal ritrovamento in un covo delle Brigate rosse di un nastro su cui era registrata la confessione di un complice di Feltrinelli, testimone del fatto: la ricostruzione coincideva perfettamente con quella fornita allora dalla polizia. E gli stessi brigatisti, fra cui Renato Curcio, al processo Gap-Br del 1979 lessero in aula un comunicato in cui si diceva che l'editore era morto durante un'azione di sabotaggio, a causa di un timer di bassa affidabilità. «Osvaldo» diceva il comunicato delle Br (Osvaldo era il nome di battaglia di Feltrinelli) «non è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo.»

I PRIMI COLPI DELLE BR

Il gruppo XXII Ottobre di Mario Rossi si rese protagonista soprattutto di due azioni: il sequestro dell'industriale Sergio Gadolla (5 ottobre 1970) e una rapina all'Istituto case popolari di Genova, durante la quale i terroristi uccisero il fattorino Alessandro Floris (26 marzo 1971).
Le Brigate rosse, snobbatissime all'inizio, diventarono invece il gruppo di gran lunga più importante del terrorismo di sinistra. Del convegno di Chiavari s'è detto. Nell'agosto del 1970 ci fu un secondo appuntamento fondamentale: a Pecorile, un paesino ai piedi dell'Appennino, a una ventina di chilometri da Reggio Emilia.
Un centinaio di membri del Collettivo politico metropolitano si trovarono in un albergo messo a disposizione da un amico di Alberto Franceschini. Si discusse non tanto se passare o no alla lotta armata (quello, come abbiamo visto, era già stato deciso) ma su «come» passare alla lotta armata. Nella relazione introduttiva preparata da Renato Curcio e Corrado Simioni si diceva: «Occorre invece preparare la "guerra civile di lunga durata" in cui il "politico" è, da subito, strettamente unito al "militare". E' Milano, la grande metropoli, vetrina dell'impero, centro dei movimenti più maturi, la nostra giungla. Da lì e da ora bisogna partire».
Su questo, tutti d'accordo. La spaccatura era fra coloro che volevano agire con avanguardie clandestine, e coloro che propugnavano la tesi della «centralità» della violenza di massa. Prevalsero i primi, e i secondi se ne andarono in Lotta continua.
Nacquero così le Brigate rosse, il cui battesimo del fuoco fu il 17 settembre 1970, con l'incendio dell'«Alfetta» di Giuseppe Leoni, capo del personale della Sit-Siemens di Milano. In verità, le Brigate rosse degli esordi sono ben diverse da quelle, efficientissime, che abbiamo conosciuto in seguito. A Incendiare la macchina di Leoni, come racconta Franceschini nelle sue memorie, andarono in nove. E anche la clandestinità presentava aspetti al limite del grottesco. Basti dire che questi terroristi che dovevano prepararsi alla guerriglia e alla rivoluzione ritennero di dover dare notizia, sul giornale «Sinistra proletaria» del 20 ottobre '70, della loro costituzione formale. Nella primavera precedente avevano addirittura tenuto un comizio, sia pur improvvisato, nel quartiere popolare milanese del Lorenteggio. Nei mesi di agosto e settembre dello stesso anno, davanti alle sedi della Sit-Siemens di piazza Zavattari a Milano e di Settimo Milanese, i brigatisti avevano organizzato distribuzioni di volantini. E addirittura, il 25 aprile del 1971, le Br pubblicarono il primo numero di un foglio legale, «Nuova Resistenza».

Le prime Brigate rosse nacquero proprio lì, alla Sit-Siemens, dove lavoravano Mario Moretti, Corrado Alunni, Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa e Umberto Farioli; altri gruppi del nucleo storico sono quello dell'Università di Trento (Renato Curcio, Margherita Cagol, Giorgio Semeria), quello emiliano (Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Tonino Paroli, Fabrizio Pelli), quello del cosiddetto Superclan (ossia superclandestini: Vanni Mulinaris, Duccio Berio e Corrado Simioni).
L'estrazione sociale dei primi brigatisti è eterogenea. Come ha scritto il magistrato Gian Carlo Caselli, «sono di estrazione borghese Margherita Cagol e Giorgio Semeria, di estrazione piccolo borghese Roberto Ognibene, Mario Moretti e Arialdo Lintrami; di estrazione proletaria Alberto Franceschini, Alfredo Bonavita, Tonino Paroli, Paolo Maurizio Ferrari, Prospero Gallinari».
Dopo le prime, un po' goffe azioni dimostrative, i brigatisti andarono via via specializzandosi. Il 3 marzo 1972 rapirono il dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini e lo fotografarono con una pistola puntata alla tempia e con, appeso al collo, un cartello nel quale lo si definiva «fascista». Macchiarini fu rilasciato «in libertà provvisoria», e il volantino di rivendicazione dei brigatisti terminava così: «Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine uno per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato».
Il 12 febbraio 1973, a Torino, rapirono il segretario provinciale della Cisnal (il sindacato missino dei lavoratori) Bruno Labate, che venne rapato a zero, interrogato e, dopo quattro ore passate in mano a un «tribunale del popolo», lasciato legato a un cancello della Fiat Mirafiori con il solito cartello di insulti e minacce. Il 28 giugno successivo altro sequestro, quello dell'ingegner Michele Mincuzzi, dirigente dell'Alfa Romeo, interrogato e rilasciato.

L'OPERAZIONE GIRASOLE

Decisamente diverso, e sintomo di un notevole salto di qualità, fu il sequestro, il 10 dicembre 1973 a Torino, del direttore del personale della Fiat Auto, il cavalier Ettore Amerio.
A differenza di quelli di Macchiarini, Labate e Mincuzzi, il sequestro di Amerio non si risolse in poche ore. Durò ben otto giorni, a dimostrazione del fatto che le Br avevano ormai capacità operative tali da tenere un ostaggio, e per giunta così importante, nascosto in «covi» segreti. Amerio fu rilasciato dopo lunghi interrogatori, durante i quali, scrissero soddisfatte le Br in un volantino, l'ostaggio aveva «collaborato in modo soddisfacente».
Fu la prova generale del primo vero grande «colpo» delle Brigate rosse: l'«Operazione Girasole», ossia il rapimento del magistrato genovese Mario Sossi.
Sossi, sostituto procuratore della Repubblica, era un uomo odiatissimo dall'estrema sinistra. Considerato un duro, un reazionario, aveva sostenuto la pubblica accusa al processo contro il gruppo XXII Ottobre. Il 18 aprile 1974, anniversario del trionfo elettorale della Dc nel '48 e giorno dell'insediamento di Gianni Agnelli alla presidenza della Confindustria, le Br lo rapirono.
Sossi fu rinchiuso in una «prigione del popolo» scelta da Alberto Franceschini: una villetta nei pressi di Tortona, presa in affitto, naturalmente, con un nome falso. Le Br diffusero ai giornali un comunicato con cui si annunciava la cattura di una «pedina fondamentale dello scacchiere della controrivoluzione, persecutore fanatico della classe operaia». Da quel momento, i giornali diventarono -per anni- veicolo dei messaggi del partito armato.
Il 5 maggio 1974, sempre attraverso i giornali, le Br dettarono le condizioni per il rilascio di Sossi: «Vogliamo la libertà per Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Renato Fiorani, Silvio Malagoli, Cesare Maino, Gino Piccardo, Aldo De Scisciolo». I membri, insomma, della banda XXII Ottobre. «Gli otto compagni» intimarono i brigatisti «dovranno essere liberati insieme in uno dei seguenti paesi: Cuba, Corea del Nord, Algeria.»
Lo Stato rispose con un secco «no». E allora, il 18 maggio, con il comunicato numero 6, le Br annunciarono la condanna a morte di Sossi e l'imminente esecuzione. Due giorni dopo, 20 maggio, la Corte d'assise d'appello di Genova concesse d'ufficio agli otto esponenti della XXII Ottobre la libertà provvisoria e il nullaosta per il rilascio del passaporto.
Per le Br, una grande vittoria. Il 23 maggio Sossi fu liberato. Ma gli otto estremisti di cui le Br chiedevano la liberazione, contrariamente alla promessa della Corte d'assise d'appello, restarono in carcere, anche per l'intervento del procuratore generale di Genova Francesco Coco. L'8 giugno 1976 Coco pagherà con la vita il suo «no» alle scarcerazioni: le Br uccideranno lui e i due uomini della scorta in un agguato nel centro di Genova. E nel volantino di rivendicazione faranno esplicito riferimento alla vicenda Sossi.

Ma, al di là della beffa per la mancata scarcerazione dei compagni del gruppo XXII Ottobre, il sequestro di Sossi fu per le Br un grande successo. Intanto, dal punto di vista operativo. Erano riuscite a rapire un magistrato e a tenere in scacco polizia e carabinieri per più di un mese. Poi, avevano costretto i grandi mezzi di comunicazione a occuparsi di loro per più settimane, con cadenza quotidiana: erano diventate, insomma, una forza considerevole con cui lo Stato doveva fare i conti. Infine, la soluzione incruenta del sequestro accreditò le Br di una fama che si rivelerà poi assolutamente immeritata, e cioè quella di un esercito rivoluzionario «buono», determinato nel colpire i potenti, ma non crudele al punto di versare sangue. Il 28 maggio 1974, solo cinque giorni dopo il rilascio di Sossi, ci fu a Brescia la strage di piazza della Loggia, subito attribuita ai neofascisti (anche se le inchieste e i processi non arriveranno a scoprire alcun colpevole), e il confronto fra le differenti strategie dei due opposti estremismi segnò molti punti a vantaggio delle Br, che in quel momento potevano contare -come vedremo- su un ampio consenso sia nelle fabbriche sia, soprattutto, nel movimento giovanile di sinistra.

CALABRESI: SENTENZA ESEGUITA

Del resto, nel movimento le imprese dei terroristi venivano salutate con gioia anche quando il sangue veniva, viceversa, versato.
Accadde, ad esempio, con l'omicidio dell'odiatissimo (dalla sinistra) commissario Luigi Calabresi, considerato -ingiustamente, come abbiamo visto- l'inquisitore, il torturatore, l'assassino del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. Calabresi era odiato anche perché era spesso lui a dirigere gli uomini della squadra politica della questura durante gli scontri di piazza.
Fu ucciso sotto casa, con due colpi di pistola sparati alle spalle, la mattina del 17 maggio 1972. Il processo su questo delitto non è ancora finito. L'ex leader di Lotta continua Adriano Sofri, il suo «braccio organizzativo» Giorgio Pietrostefani e i militanti Ovidio Bompressi e Leonardo Marino erano stati condannati (i primi due come mandanti, gli altri come esecutori materiali) sia in primo che in secondo grado, ma la Corte di Cassazione, il 23 ottobre del '92, ha annullato la sentenza di secondo grado per «difetto di motivazione». L'appello è stato dunque ripetuto e il 21 dicembre 1993 tutti e quattro gli imputati -compreso Marino, che pure si dice colpevole- sono stati assolti.
Ancora non si sa, dunque, chi abbia ucciso Calabresi. Ma a prescindere da chi sia il colpevole, rimane il fatto che quel delitto fu salutato con gioia da migliaia di giovani del movimento: la minaccia ripetuta all'infinito, per due anni e mezzo, nei cortei («Guida e Calabresi, sarete presto appesi»: Marcello Guida era il questore di Milano al tempo della morte di Pinelli) era stata, sia pur a metà, realizzata. Il giornale «Lotta continua», il giorno dopo il delitto, esultò: «Un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».
Lo stesso giornale per anni aveva pubblicato foto e indirizzo di Calabresi, indicandolo come bersaglio, e aveva annunciato: «Il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell'assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara. (...) Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell'assalto del proletariato contro lo Stato assassino». Lotta continua era già, all'epoca, uno dei tre più importanti movimenti dell'estrema sinistra «legale» (cioè non clandestina, non terrorista) italiana.

LA STRAGE RIMOSSA

L'omicidio di Calabresi è la genesi anche di uno dei atti più rimossi dalla sinistra italiana: la strage compiuta dall'anarchico Gianfranco Bertoli davanti alla questura di Milano il 17 maggio del 1973, primo anniversario, appunto, dell'uccisione del commissario.
Quel giorno, in questura, era prevista una cerimonia di commemorazione, presente il ministro degli Interni Mariano Rumor. Bertoli lanciò una bomba all'ingresso di via Fatebenefratelli, uccidendo quattro passanti e ferendone altri quarantasei. Fu quasi immediatamente arrestato dalla polizia, che lo sottrasse a quel linciaggio a cui -sostiene lui- aspirava.
Bertoli è infatti un «anarchico stirneriano» (così si definisce egli stesso), e dell'anarchia aveva ancora una visione da fine Ottocento-inizio Novecento: quella del vendicatore solitario che si sacrifica per il riscatto di tutti, quella della bomba nel mucchio «perché non ci sono innocenti», quella della strage al cinema Diana a Milano; quella dell'epopea cantata -tanto per stare in tema anni Settanta- da Francesco Guccini nella sua La locomotiva, in cui si racconta di un ferroviere anarchico dei primi del secolo che lancia un convoglio contro «un treno di signori» gridando «trionfi la giustizia proletaria». Per questo, dopo aver lanciato la bomba, Bertoli non fece alcun tentativo di scappare.
Si fece di tutto, all'epoca, per dire che Bertoli era in realtà un uomo dei servizi segreti, un doppiogiochista, un fascista; e anche recentemente s'è tentato di collegarlo alla vicenda Gladio.
Ma l'ipotesi di un Bertoli doppiogiochista sbatte contro un ostacolo che appare insormontabile: condannato all'ergastolo, Bertoli è in carcere ininterrottamente da quel 17 maggio 1973, cioè da più di vent'anni. Se avesse reso un servigio al «potere», gli si sarebbe riservato un futuro migliore (con una fuga all'estero, ad esempio) o peggiore (lo avrebbero fatto fuori per impedirgli di parlare).
E invece Bertoli è lì, in carcere, tuttora vivo, e non dice «mi hanno strumentalizzato», non cerca di attenuare la propria responsabilità, non cerca di uscire di cella. Da più di vent'anni, al giudici ripete di essere un anarchico, e di avere agito da solo. Il movimento anarchico italiano gli ha creduto e lo ha riconosciuto. Bertoli, dal penitenziario di Porto Azzurro, collabora tuttora (manda un cruciverba al mese) alla rivista dell'anarchia italiana «A».
Nell'unica intervista che ha mai concesso (a Pino Corrias della «Stampa», il 17 maggio 1993), Bertoli ha spiegato: «I giudici e l'informazione si servirono di me, perché a quei tempi non si ammetteva il terrorismo di sinistra e serviva il pericolo fascista. I fascisti mettevano le bombe; Bertoli mette la bomba, dunque è fascista. Che cosa penso di quegli anni? Che il pericolo fascista era volutamente sovradimensionato».
Se attorno alla figura di Bertoli e al suo folle gesto sopravvivono tanti esorcismi, infatti è proprio perché la «strage anarchica» andava e va a intaccare il teorema secondo cui tutte le bombe le hanno messe i fascisti, e sono frutto di un'unica regia e di un unico piano, reazionario, che doveva frenare l'avanzata delle sinistre in Italia.
Forse è per questo che, quando si fa l'elenco delle stragi, quella di via Fatebenefratelli viene spesso dimenticata.


X - GLI ANNI DEL CONSENSO

Le prime azioni del partito armato e delle varie avanguardie dei gruppi extraparlamentari furono accolte dalla sinistra con un duplice, e contraddittorio, atteggiamento. Da un lato, una sinistra tradizionale, Pci soprattutto, impegnata a negare la stessa esistenza di un'eversione «rossa». Dall'altra, un clima di simpatia e di crescente consenso che le prime Brigate rosse e i vari katanga e soci riscuotevano nel movimento degli studenti e nelle fabbriche.
«A sinistra» ha scritto Giampaolo Pansa nelle sue Storie italiane di violenza e terrorismo, «dinanzi a quei primi colpi di pistola molti non vollero vedere né sentire. Alzava la testa un nemico nuovo, eppure non si avvertì il pericolo e non si riconobbe da che parte veniva. Soltanto alcuni ebbero l'onestà di ammettere subito che il terrorismo delle Brigate rosse e dei gruppi affini nasceva in casa, tra le file delle sinistre, e andava messo nel conto del Sessantotto, tra i frutti marci di quella straordinaria stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori. (...) Ci vollero altri anni, e molti altri morti, e soprattutto l'assassinio di un operaio comunista [Guido Rossa, sindacalista dell'Italsider, ucciso nel 1979, n.d.a.] e di un giudice amato dalle sinistre [Emilio Alessandrini, assassinato quattro giorni dopo Rossa, n.d.a.] perché quasi tutti aprissero gli occhi».

APPLAUSI AI NUOVI ROBIN HOOD

Ma accanto a questa negazione della realtà, atteggiamento più che altro di facciata, c'era, come detto, un sentimento di diffusa simpatia, di comprensione e spesso di approvazione per questi coraggiosi che stavano, finalmente, per far vedere i sorci verdi ai padroni. Che stavano, finalmente, dopo tante parole a vuoto, facendo davvero la rivoluzione.
Primo Moroni, già membro del Collettivo politico metropolitano (ma mai dei gruppi armati) e punto di riferimento importante nel mondo dell'estrema sinistra milanese, ha scritto con Nanni Balestrini: «Nel febbraio 1971... anche le analisi di altri gruppi [altri rispetto alle Brigate rosse, n.d.a.] sembrano confermare che è necessario alzare il livello dello scontro. Particolarmente Lotta continua, che insieme a Potere operaio è massicciamente presente nelle fabbriche torinesi, pare privilegiare una tendenza verso un uso generalizzato di una "giustizia proletaria" da contrapporre a quella borghese...».
E così nelle fabbriche e nelle scuole non furono in pochi a pensare che i compagni delle Brigate rosse avrebbero condotto la classe operaia verso la vittoria. Nei cortei si cantavano canzoni dai messaggi espliciti, come La ballata della Fiat, che diceva:

Signor padrone questa volta
per te andrà di certo male
siamo stanchi di aspettare
che tu ci faccia ammazzare.
Noi si continua a lavorare
e i sindacati vengono a dire
che bisogna ragionare
e di lottare non si parla mai.
Signor padrone ci siam svegliati
e questa volta si dà battaglia
e questa volta come lottare
lo decidiamo soltanto noi.
Vedi il crumiro che se la squaglia
senti il silenzio nelle officine
forse domani solo il rumore
della mitraglia tu sentirai!

E un'altra canzone era L'ora del fucile, di Pino Masi e Piero Nissim, che parlava di «giusta violenza» e diceva:

Cosa vuoi di più compagno
per capire
che è suonata l'ora
del fucile?

E più tardi, quando molti terroristi furono arrestati, lo stesso Pino Masi scrisse un'altra canzone cantata nei cortei. Si chiamava Liberare tutti e diceva:

Liberare tutti
vuol dire lottare ancora
vuol dire organizzarsi
senza perdere un'ora.
Porci padroni
voi vi siete illusi
non bastano le galere
per tenerci chiusi...
E tutti i riformisti
che fanno i delatori
insieme ai padroni
noi li faremo fuori.

Scrivono sempre Moroni e Balestrini che il sequestro di Macchiarini, ad opera delle Brigate rosse, venne «visto con diffusa simpatia tra le avanguardie operaie, e anche da alcune organizzazioni extraparlamentari».
E' vero, tanto che Potere operaio e Lotta continua espressero pubblicamente la loro approvazione. «La recezione di questo atto, a livello di classe operaia, è stata positiva» annotava in un comunicato Potere operaio. E Lotta continua, sempre in un comunicato, fece sapere: «Noi riteniamo che questa azione si inserisca coerentemente nella volontà generalizzata delle masse di condurre la lotta di classe anche sul terreno della violenza e dell'illegalità».
Sei giorni dopo il rapimento di Macchiarini, in Francia fu sequestrato Robert Nogrette, un dirigente della Renault. Un'azione firmata da Nouvelle resistence populaire, braccio armato della disciolta Gauche proletarienne. Il giornale «Lotta continua» titolò: Il sequestro di dirigenti della Sit-Siemens e della Renault: la giustizia rivoluzionaria comincia a far paura? Viva la giustizia rivoluzionaria.
«Tra la fine del '72 e l'inizio del '73 » scrivono ancora Moroni e Balestrini «intorno alle Br e al problema dello spontaneismo armato si accendono molte discussioni, ma non c'è dubbio che intorno alle Br si forma un'aura di romanticismo e di diffusa simpatia. (...) La base operaia accoglie con divertita ironia la diffusione dei "verbali" dell'"interrogatorio" Amerio e nella più totale indifferenza lascia il sindacalista fascista Labate incatenato a un palo di fronte a Mirafiori, in attesa che arrivi la polizia a liberarlo».
Ancora Giampaolo Pansa: «Come non ricordare il tempo dell'ipocrisia, gli anni sino al 1974? Il mito dell'avanguardia armata andava ancora forte e sembrava in grado di attenuare la delusione per i tanti slogan scanditi invano. Curcio e i suoi apparivano a molti come i nuovi Robin Hood, ragazzi forse un po' spietati ma generosi, disposti a pagare di persona e, tutto sommato, in guerra contro un nemico comune, la società ingiusta. Quante volte, di fronte a una classe politica imbelle e spesso marcia, di fronte a un sistema di alternative bloccate che non offriva speranze a nessuno e tanto meno ai più giovani, quante volte non abbiamo pensato: "Meglio le Brigate rosse di chi froda il fisco di chi ruba nelle casse statali, di chi specula sulla salute del prossimo"?
Ogni vittima delle Brigate rosse veniva guardata con sospetto un po' cinico: se gli hanno sparato, una ragione ci sarà, forse tormentava gli operai del suo reparto, forse incriminava i militanti rivoluzionari, forse scriveva articoli forcaioli (...) E quando venne sequestrato il procuratore Sossi, molti videro in quel rapimento la giusta lezione inflitta a un magistrato conservatore e una lunga beffa giocata allo Stato democristiano e dei padroni».

L'APPOGGIO NELLE FABBRICHE

Che le Brigate rosse, nei primi anni, incontrassero non pochi consensi nelle fabbriche, lo testimonia del resto lo stesso Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, nelle sue memorie. Quando racconta la prima azione, l'incendio dell'auto del capo del personale della Sit-Siemens Giuseppe Leoni, Franceschini scrive: «Individuare i nostri primi obiettivi non fu difficile. Gli operai con cui parlavamo ripetevano in continuazione che bisognava colpire i "capi"", i quadri dirigenti delle fabbriche che applicavano direttamente sui lavoratori gli ordini del padrone.(...) Fu un operaio della Sit-Siemens a pensare alle auto.(...) Scegliemmo lui [Leoni, n.d.a.] perché i compagni della fabbrica avevano sempre quel nome sulle labbra.(...) Passarono molti giorni, i compagni della fabbrica erano sempre più impazienti, ci chiedevano se avevamo trovato la macchina, che cosa avevamo intenzione di fare».
Lo stesso scenario si ripeté quando si decise di passare al primo sequestro di persona: «I compagni di fabbrica ci fornirono l'indicazione precisa: Idalgo Macchiarini» ricorda Franceschini, che aggiunge che a rapimento fatto «dagli operai ci arrivavano segnali di approvazione». Quanto al sequestro Amerio, dice sempre Franceschini, «fu un successo, le richieste di incontrarsi con noi aumentarono, le brigate di fabbrica diventavano nuclei sempre più vivi, si rivolgevano a noi anche compagni comunisti da sempre, quadri di base del Pci e del sindacato».

Nelle fabbriche, quindi, si sapeva chi erano i brigatisti: «A Reggio Emilia sapevano che io e gli altri eravamo nelle Br anche se nessuno lo ammetteva ufficialmente. Così potevo tornarmene nella mia città per la Festa dell'Unità e mangiare tranquillamente ai tavoli con i compagni di pochi anni prima. (...) Mi consideravano dei loro. (...) E non era nemmeno clandestino, a Torino, Angelo Basone, un nostro compagno che lavorava alle presse della Fiat, iscritto al Pci, delegato sindacale, nel quale i compagni di lavoro riponevano grande fiducia».
«Il Pci», è ancora Franceschini nelle sue memorie, «aveva seguito nei nostri confronti una tattica ormai consolidata. Pubblicamente, sull'Unità e sui giornali amici, ci faceva bollare come provocatori legati ai servizi segreti, venivamo chiamate le "fantomatiche Brigate rosse, rosse di nome e nere di fatto". Il partito comunista sapeva però bene chi eravamo, sapeva che la maggioranza di noi proveniva dalle sue file e che alcuni, con la tessera in tasca, frequentavano ancora le sezioni. Era informato ma non collaborava con polizia e carabinieri, si limitava a dar di noi un'immagine misteriosa e torbida per allontanare la gente e gli operai.»
Conferma Prospero Gallinari, condannato all'ergastolo per il delitto Moro: «Voi avete sempre pensato che le Brigate rosse fossero solo un'organizzazione terroristica. Invece no. Penso alle fabbriche del mio Nord. Il cinquanta per cento degli operai sapeva chi erano i loro colleghi che appartenevano alle Br. Ma non li denunciavano» («l'Unità» del 23 ottobre 1993).
Franceschini dice anche che «dopo il sequestro Amerio cambiò tutto». Il Pci, spiega, doveva «aver intuito il consenso, ancora minimo ma significativo, che si andava coagulando intorno a noi e doveva essere scattata la paura di sempre, quella di essere scavalcati a sinistra». E così, tramite un giornalista dell'«Unità», l'onorevole Alberto Malagugini, responsabile del settore giustizia del Pci, fece avere ai brigatisti (secondo il racconto di Franceschini) un messaggio in cui li si invitava ad arrendersi e a consegnarsi al giudice milanese Ciro De Vincenzo, il quale «non avrebbe usato la mano pesante».
Tutto questo non significa né che il Pci abbia incoraggiato le prime Br, né che le fabbriche fossero popolate da fiancheggiatori dei brigatisti. Tutto questo vuol dire, però, che è sbagliato pensare che le Br siano nate dal nulla, corpo estraneo nel mare magnum della contestazione. Genitori e fratelli dei terroristi vanno cercati nella grande famiglia della sinistra, tradizionale ed extraparlamentare, e in quella casa comune il partito armato poté godere, per qualche anno, di coperture e consensi determinanti alla sua crescita.

CRONACHE E IMBROGLI

Se non proprio di consenso, l'atteggiamento tenuto dalla maggioranza dei giornali nei confronti della violenza di estrema sinistra fu -lo abbiamo già visto- una sorta di complicità, seppur sgradita agli stessi terroristi.
Non era certo solo «l'Unità» a chiamare «fantomatiche» o «sedicenti» le Brigate rosse, e ad avanzare dubbi sulla loro vera matrice politica. Anche la stampa cosiddetta «borghese» -in blocco, salvo rare eccezioni- seguitò per anni a sostenere che il terrorismo rosso non esisteva, e che l'unico pericolo di eversione veniva da destra. Quando anche il «Corriere della Sera» prese questa linea, Indro Montanelli e un'altra trentina di giornalisti lasciarono (1974) via Solferino per fondare «il Giornale», che fra i quotidiani nazionali fu, in quegli anni, la sola voce controcorrente. Montanelli se ne andò in polemica con l'allora direttore Piero Ottone, ma soprattutto con la proprietaria, Giulia Maria Crespi. In un'assemblea al «Corriere», Montanelli disse che la Crespi «poteva dirigere solo un Cottolengo».
Le azioni delle Brigate rosse avevano messo in moto, come scrivono gli insospettabili Moroni e Balestrini, «schiere di dietrologi, non solo nella stampa borghese ma anche in quella di movimento. Il Bcd (Bollettino di controinformazione democratica), che pure si era schierato accanto al movimento, non aveva mai cessato di accusare le Brigate rosse di essere "agenti provocatori" e lo stesso quotidiano "Il Manifesto" aveva per anni riportato le notizie sulle Br definendole "le sedicenti" o "le cosiddette" sostenendo di fatto la loro complicità con poteri occulti dello Stato. In realtà al loro apparire le Brigate rosse erano molto meno oscure di quanto non si immagini».
Ancora oggi, tutti i capi e i militanti delle Br reagiscono con fastidio, se non con esasperazione, ogni qual volta viene ripetuto il ritornello delle Br manovrate dai servizi segreti e, quindi, dal «palazzo».
«Dietro alle Br c'erano solo le Br» hanno detto Adriana Faranda e Franco Bonisoli quando, nel '93, per l'ennesima volta si è cercato di accreditare la tesi di una regia occulta dietro il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. E Valerio Morucci, interrogato dalla prima Corte d'assise di Roma il 25 ottobre 1993, ha definito «congetture e ipotesi fantasiose» le voci, circolate in quei giorni, della presenza di un uomo della 'ndrangheta, a fianco dei brigatisti, in via Fani il giorno del sequestro di Moro. «Eravamo comunisti, non qualcosa d'altro» ha aggiunto lo stesso giorno in un'intervista al «Manifesto».
Mario Moretti, il capo delle Br dopo la cattura di Curcio, l'organizzatore del rapimento Moro, intervistato nel carcere di Opera (dove si trova tuttora, da una dozzina d'anni, per scontare l'ergastolo: e questo dovrebbe far riflettere chi continua a bollarlo come un agente della Cia) ha detto al «Corriere della Sera» del 24 ottobre 1993: «I fatti devono essere storicizzati; eravamo le Br e basta. E il sequestro Moro fu fatto per colpire la Dc, la politica di solidarietà nazionale e indirettamente il Pci. Non ci manovrava nessuno. Non agivamo per conto di forze occulte. Ma quali servizi! Avevamo tanta acqua in cui nuotare. Se seimila persone sono finite dentro per terrorismo vuol dire che tanti in qualche modo ci appoggiavano: comprese persone insospettabili e pulite».
E il brigatista Cassetta in un'intervista a Walter Veltroni sull'«Unità» del 23 ottobre 1993, ha detto: «Voi [voi dell'Unità e del Tg3, n.d.a.] cercate un complotto che non c'è. Non avete la forza di riconoscere la realtà degli anni Settanta. (...) Non volete riconoscere che la causa della sconfitta della sinistra sono i suoi errori, la sua cedevolezza. E allora vi rifugiate nel complotto. Cercate di far credere che le Br erano un burattino nelle mani dei servizi o dello Stato». E Prospero Gallinari, suo compagno di carcere, nella stessa intervista: «Può darsi che Gelli e la P2 abbiano deciso che gli conveniva la morte di Moro [e quindi si adoperarono per non farlo liberare, n.d.a.]. D'altra parte è stato Gramsci nei "Quaderni" che diceva che quando uno assume un'iniziativa poi qualcuno tenta di utilizzarla. Nessuno mi ha coperto, se no non sarei qui. Siamo stati usati? Io so che nessuno mi ha costretto a fare quello che ho fatto, nessuno mi ha condizionato. Certo, sono uno sconfitto, sono qui. Ho perso la mia partita. Ma è stata la mia partita, la partita delle Br».
In realtà delle Brigate rosse oggi sappiamo quasi tutto: nomi, cognomi e storia politica dei loro militanti. Quasi tutti finiti in carcere, e a lungo. Un destino che non viene mai riservato ai doppiogiochisti.

«I FASCISTI S'AMMAZZANO FRA DI LORO»

Ma sui giornali degli anni Settanta, almeno fino al sequestro Moro (1978), non si negava solo la vera matrice delle Br. Anche per altri episodi di violenza si accreditavano versioni che occultavano la responsabilità dell'estrema sinistra. S'è detto dei casi di Feltrinelli e di Bertoli. Un altro esempio di «depistaggio» giornalistico è l'omicidio, spacciato per un regolamento di conti nell'ambiente della destra, dello studente greco Mikis Mantakas, missino, ucciso il 28 febbraio 1975, con un colpo di pistola, da estremisti di sinistra che avevano assaltato la sede del Msi di via Ottaviano a Roma.
Nei giorni successivi i giornali cominciarono ad accreditare la «pista nera» anche per questo delitto. Sospetti su un giovane fascista per la morte del greco Mantakas, titolava il «Corriere della Sera» dell'11 marzo '75. Lo studente fascista era un tale Mario Fagnani, venticinque anni, che risultò poi totalmente estraneo ai fatti. Il movente, spiegava «Il Giorno» sempre quell'11 marzo, era «eliminare un testimone che la sapeva troppo lunga su una serie di azioni terroristiche». Lo stesso giorno il quotidiano romano del pomeriggio «Paese Sera» aveva già la soluzione pronta: l'omicidio di Mantakas era «un'ennesima provocazione che doveva servire a rilanciare i fascisti in Grecia e a creare un clima di tensione in occasione del processo per la strage di Primavalle».
Quando i giornali scrivevano queste cose, era già in carcere un giovane di Avanguardia comunista, Fabrizio Panzieri, mentre un altro estremista di sinistra, Alvaro Lojacono, era ricercato. Panzieri e Lojacono sono stati ritenuti responsabili del delitto Mantakas e condannati a sedici anni ciascuno, con sentenza resa definitiva dalla Cassazione il 20 ottobre 1981. Ma i due erano però, da tempo, latitanti. Panzieri, nell'84, venne poi condannato a 9 anni e 6 mesi quale appartenente alle Unità comuniste combattenti. Ai tempi del processo per l'omicidio di Mantakas, si era costituito per lui un comitato, presieduto dal senatore del Pci Umberto Terracini.
Forse ancor più grottesco fu il tentativo di spacciare per frutto di una faida tra fascisti il duplice omicidio, compiuto a Padova il 17 giugno 1974, dei militanti missini Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Questi furono legati e imbavagliati all'interno della sede padovana del Msi, e poi freddati con un colpo alla nuca. Un'azione rivendicata dalle Brigate rosse. Quel che raccontarono i giornali lo ricorda Giampaolo Pansa, un giornalista -lo ripetiamo- non sospettabile di simpatie di destra:
«Poiché era stato versato sangue missino, neppure quelle due vite spezzate bastarono. Per spiegare un delitto che non rientrava nello schema del Robin Hood vendicatore però mai assassino, certuni inventarono per i loro lettori una macchinosa storia di faide interne al neofascismo che s'erano coperte con la sigla brigatista. Altri si rallegrarono, dal momento che i morti erano fascisti e quindi, secondo lo slogan, soltanto carogne, tornate finalmente nelle fogne. Altri ancora continuarono a dire: "Si, uccidono. Ma hanno delle idee e lottano per cambiare questa società"».

GLI OPPOSTI ESTREMISMI

Del resto, a dire che il terrorismo di sinistra non esisteva, e che l'unico pericolo di eversione veniva da destra, non c'erano soltanto l'intellighenzia di sinistra e la quasi totalità dei giornali, ancora una volta travolti dal conformismo imperante. A dire tutto questo c'era persino la massima autorità in materia, cioè il ministro degli Interni. Che era, nientemeno, democristiano: Paolo Emilio Taviani.
Nell'agosto del 1974, Taviani rilasciò al settimanale «L'Espresso» un'intervista destinata a far rumore, e molto, in tutto il Paese. Disse Taviani: «Per molto tempo ho creduto alla tesi degli opposti estremismi. Quando ho mutato parere? Poco dopo essere tornato su questa sedia di ministro degli Interni. Gli indizi, le informazioni, le prove raccolte dalle questure e da tutta la rete informativa della pubblica sicurezza m'hanno dato la certezza che non solo la matrice ideologica, ma l'organizzazione sovversiva va cercata a destra».
E ancora: «E' stato un modo [quello di sostenere che gli estremismi erano due e non uno solo, n.d.a.] per mantenere la posizione "centrale" della Dc nello schieramento politico».
Commentò il «Corriere della Sera»: «Queste parole sono un'ammissione importante perché sanzionano a livello ufficiale, cioè di governo, la fine di una teoria, quella degli opposti estremismi».

Ma benché cancellati «ufficialmente», gli opposti estremismi continuavano a vivere, e non erano una teoria, ma una realtà. C'era un estremismo di sinistra, scaturito dal Sessantotto, che diventava pericoloso nelle azioni del partito armato e nelle manifestazioni violente di molti gruppi studenteschi.
E c'era un estremismo di segno opposto, nato per reazione al Sessantotto e all'autunno caldo, che si esplicitava nelle rappresaglie di gruppi neofascisti contro i «rossi» e nelle trame di uomini dei servizi segreti e di alcuni settori delle forze armate.
Che poi, alla fine, di tanta confusione abbia beneficiato il centro, è vero. Che alcuni uomini di questo «centro» abbiano, in alcune occasioni, lasciato strategicamente agire gli estremisti, è possibilissimo, anche se da dimostrare.
Ma sta di fatto che gli estremismi c'erano. E sta di fatto, quindi, che c'era anche quel pericolo eversivo di sinistra che Taviani negava. C'era in un partito armato la cui origine politica è nota, essendone conosciuti i componenti. E c'era nello squadrismo dei gruppuscoli che un giorno si e l'altro pure ingaggiavano battaglie con la polizia, spaccavano vetrine di negozi «borghesi», incendiavano auto in sosta, cacciavano dalle scuole e dalle università i non allineati, sbrigativamente definiti «fascisti», facendo valere in caso di dissenso la legge della spranga.
La smentita a Taviani sta nei fatti, pressoché contemporanei a quelle sue affermazioni. Prima dell'intervista all'«Espresso», come abbiamo visto, le Brigate rosse avevano cominciato a uccidere (i due missini a Padova, il 17 giugno '74). Poco dopo, l'8 settembre '74, Renato Curcio e Alberto Franceschini vennero arrestati a Pinerolo; il 15 ottobre successivo, in uno scontro a fuoco nel covo di Robbiano di Mediglia, il brigatista rosso Roberto Ognibene uccise il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano; il 29 ottobre i Nap, Nuclei armati proletari, tentarono una rapina a una Cassa di Risparmio a Firenze, ci fu una sparatoria e alla fine rimasero uccisi i nappisti Giuseppe Romeo e Luca Mantini, feriti e catturati i compagni Pasquale Abatangelo e Pietro Sofia, feriti un passante e il maresciallo dei carabinieri Luciano Arrigucci.
E ancora: il 5 dicembre, sempre del '74, un gruppo legato all'Autonomia operaia uccise a Bologna il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini; il 18 febbraio 1975 un commando delle Brigate rosse, guidato da Mara Cagol, riuscì a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato; il 15 maggio venne ferito il dirigente della Dc milanese Massimo De Carolis; il 30 maggio il militante dei Nap Giovanni Taras morì dilaniato da una bomba che stava collocando sul tetto del manicomio di Aversa; il 4 giugno le Brigate rosse rapirono l'industriale Vallarino Gancia; il giorno dopo, 5 giugno, lo stesso Gancia venne liberato dai carabinieri, che avevano individuato la sua «prigione» nella cascina Spiotta ad Arzello, sopra Acqui: nello scontro a fuoco morirono l'appuntato Giovanni D'Alfonso e la brigatista Mara Cagol; il tenente Umberto Rocco si ritrovò con una gamba spappolata e anche il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito.
E ancora: il 18 giugno a Baranzate di Bollate fu scoperto un altro covo delle Br, e furono arrestati Pierluigi Zuffada e Attilio Casaletti; l'8 luglio a Firenze il vicebrigadiere dei carabinieri Antonio Tuzzolino uccise Anna Maria Mantini, sorella del nappista Luca (un incidente, assicurò l'Arma, un atto deliberato, replicarono i Nap, che per vendetta poi spararono a Tuzzolino, che rimase paralizzato); il 4 settembre sempre del 1975 a Ponte di Brenta venne ucciso l'appuntato Antonio Niedda.
Tutto questo avveniva, a cavallo fra il '74 e il '75, ad opera di quel partito armato di cui si voleva negare l'esistenza.


XI - LA VIOLENZA QUOTIDIANA

Ma non erano solo il partito armato e il partito delle stragi a versare sangue. Mai come in quei dieci anni che vanno dal 1968 al 1977 la violenza è stata compagna di viaggio degli italiani. Specie nelle grandi città, gli scontri di piazza fra dimostranti e polizia, oppure fra estremisti rossi e neri, erano all'ordine, se non del giorno, della settimana.
Non c'era corteo che non incutesse il timore di una degenerazione. L'atteggiamento dei militanti dei vari gruppi -quasi sempre molto aggressivi se non altro negli slogan, e spesso armati con spranghe o bastoni o chiavi inglesi o biglie o molotov o tutte queste cose insieme- era tale da tenere sempre al massimo della tensione i nervi di giovani poliziotti e carabinieri non sempre in grado di evitare il peggio, e non sempre guidati da dirigenti con la testa sulle spalle. Non di rado andavano di mezzo cittadini del tutto estranei alle manifestazioni: semplici passanti che rimanevano feriti, automobilisti che si vedevano ribaltare o incendiare le loro auto parcheggiate, commercianti che si ritrovavano con le vetrine in frantumi se non peggio. Cronaca e storia registrano solo i morti, e non rendono con esattezza il quadro della vita quotidiana degli italiani negli anni Settanta.

IN PIAZZA I PRIMI MORTI

Il primo di questi morti è Antonio Annarumma, un poliziotto di ventidue anni ucciso a Milano il 19 novembre 1969, quasi un mese prima della strage di piazza Fontana, al termine di un comizio per lo sciopero generale al teatro Lirico.
Annarumma fu colpito alla testa da uno dei tanti tubolari d'acciaio raccolti dai manifestanti in un vicino cantiere edile e scagliati contro la polizia.
La morte di un agente era un fatto troppo scomodo per la sinistra, e così si cominciò, fin dal giorno dopo, a diffondere la versione -ancora oggi accreditata in numerosi libri su quegli anni- secondo cui Annarumma, che era alla guida di una jeep, era andato a sbattere, nella confusione, contro un altro mezzo, e aveva picchiato la testa. Niente tubolare d'acciaio, dunque, e niente omicidio: il poliziotto era morto in un incidente d'auto.
In realtà il tubolare esisteva. Intanto, lo avevano visto i tre agenti che erano sulla jeep guidata da Annarumma. E poi per terra, dopo gli scontri, c'erano ben quattrocento di quei tubi usati come lance contro la polizia. Ma soprattutto, l'autopsia aveva accertato sul capo di Annarumma «una sezione circolare di circa cinque centimetri» e una penetrazione «nella testa della vittima fino a metà cranio»: guarda caso, il diametro dei tubolari raccolti in via Larga, luogo degli scontri, era di 48 millimetri, ossia circa cinque centimetri.
Ma non solo: c'è, agli atti dell'inchiesta, una fotografia scattata un attimo prima dell'impatto fra la jeep di Annarumma e l'altro veicolo: il poliziotto è già col capo riverso, e sulla macchina c'è già una chiazza di sangue.
I tragici incidenti di via Larga fecero salire la tensione come mai si era verificato prima, almeno a Milano. La sera stessa, gli studenti del «movimento» occuparono l'Università Statale. E due giorni dopo, il 21 novembre, i funerali dell'agente furono l'occasione per scontri furibondi fra estremisti di destra e di sinistra. Da Roma dovettero arrivare il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro degli Interni Franco Restivo e il capo della polizia Angelo Vicari per sedare una mezza rivolta degli agenti alla caserma «Bicocca».
Gli equilibrismi sulla fine di Annarumma non poterono comunque nascondere una realtà che la sinistra, specie quella storica, non voleva accettare: e cioè che al termine di un comizio c'erano stati degli scontri, il cui esito -sessantadue feriti fra la forza pubblica e otto fra i civili- parlava da solo.
Una faziosità simile, ma di segno opposto, seguì alla morte dello studente ventitreenne Saverio Saltarelli.
Questi morì, come Annarumma, in via Larga a Milano. Era il 12 dicembre 1970, primo anniversario della strage di piazza Fontana, e il Movimento studentesco e gli anarchici avevano organizzato una manifestazione che -al pari di un'altra promossa dal Msi, che voleva celebrare una messa in suffragio di Annarumma- non era stata autorizzata dalla questura.
In via Larga, appunto, i militanti del Movimento studentesco, guidati da Capanna, si scontrarono con i carabinieri, che spararono una serie di candelotti lacrimogeni. Uno di questi centrò in pieno petto Saverio Saltarelli, uccidendolo.
Il questore di Milano Ferruccio Allitto Bonanno sostenne che il giovane era morto d'infarto. Una menzogna che voleva evidentemente «coprire» la responsabilità di chi aveva sparato i lacrimogeni ad altezza d'uomo, e che si ritorse presto contro la polizia.

QUATTRO CARTELLE ESPLOSIVE

La gente era ormai esasperata da tanta violenza, e dal clima di terrore in cui scorrevano le giornate -specialmente il sabato pomeriggio- nelle grandi città.
Il prefetto di Milano, Libero Mazza, decise di inviare al ministro dell'Interno Franco Restivo, dc, quattro cartelle dattiloscritte in cui si faceva il punto della situazione: un documento poi divenuto famoso come «rapporto Mazza», demonizzato dalle sinistre che vi videro la matrice di un tetro reazionario che dipingeva a tinte fosche i «ragazzi» del «movimento». Non si perdonò, a Mazza, il fatto di aver attribuito agli estremisti di sinistra una schiacciante superiorità numerica rispetto a quelli di destra (un fatto, tuttavia, incontestabile): e soprattutto non gli si perdonò di avere avallato quella teoria degli «opposti estremismi» secondo cui i pericoli eversivi venivano da due parti, e non solo dalla destra. Mazza fu bollato come «fascista», nonostante il suo insospettabile passato di partigiano, e nei cortei la sua testa («Mazza, ti impiccheremo in piazza») veniva chiesta con frequenza quotidiana.
In realtà il «rapporto Mazza» -divenuto pubblico il 16 aprile 1971, quando fu riportato dal «Giornale d'Italia»- era un documento tanto ovvio e banale quanto profetico. Si sosteneva che la contestazione stava prendendo una brutta piega, e che c'era il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Quale sarà, appunto, quella delle Brigate rosse.
Alla fine degli anni Settanta, di fronte alla spietata e serrata iniziativa delle Br, Mazza venne rivalutato con tante scuse. Ma intanto, in quella fine del '70 e inizio del '71, non solo veniva stigmatizzato dalla sinistra, ma era pure ignorato dallo stesso ministro Restivo e, più in generale, da un governo caratterizzato da quella linea tutta morotea secondo cui è meglio non intervenire mai, non affrontare i problemi e tanto meno cercare di risolverli, lasciando che si estinguano per morte naturale. Una tattica che tanta parte ebbe nella lunghissima durata (record mondiale) del Sessantotto italiano.

CASCHI, SPRANGHE E BOTTIGLIE

Ignorati gli appelli di Mazza, la violenza continuava a imperversare, e altri gravissimi incidenti sconvolsero Milano l'11 marzo del 1972, un sabato. Ecco la cronaca di quegli incidenti secondo il racconto fatto nel 1973 (il linguaggio è quello dell'epoca) da Andrea Valcarenghi, allora militante dell'estrema sinistra:
«Comizio in largo Cairoli. Lo hanno organizzato Lotta continua, Avanguardia operaia e Potere operaio. Una roba antifascista; infatti, duecento metri più in là, in piazza Castello, ci sono i fascisti, sia quelli silenziosi che quelli bombaroli. E' alle tre che comincia il comizio nero. Noi siamo intruppati con il servizio d'ordine di Potere operaio, schierato verso Foro Bonaparte. Non siamo più di un paio di centinaia. Incazzatissimi. Duecento caschi, duecento spranghe, duecento bottiglie. I fascisti non devono parlare.
«I compagni incominciano ad affluire numerosi dietro i cordoni dei servizi d'ordine. Per l'aria c'è una tensione bestiale. Nessuno parla. Capiamo tutti che lo scontro è inevitabile... Alle 16 la polizia va giù pesante: una salva di lacrimogeni ad alzo zero e parte durissima una carica a pettine. Nessuno indietreggia. Dal lato di corso Garibaldi c'è una controcarica di una ventina di compagni lanciatori. Le bottiglie piovono sulle prime file. (...) Passiamo davanti a una filiale della Renault, quindici giorni prima i guardiani della Renault avevano ucciso a pistolettate il compagno operaio Pierre Ovenay. Crollano le vetrine. S... spiega ai vigili urbani allibiti e ai pochi passanti presenti il perché di quel gesto. Stiamo marciando sul "Corriere" quando una pantera isolata cerca di passarci vicino a sirene spiegate. Crash! E se ne va senza vetri.
«Piombiamo in via Solferino in una quarantina, la questione incomincia a diventare pericolosa. Ormai è già da un paio d'ore che siamo in ballo. Ho una paura del rastrellamento. Ma non faccio in tempo a riflettere che partono due bottiglie incendiarie. Korriere: colpito! (...)
«Via ancora in corteo, ci arriva la notizia che il grosso dei compagni è attestato in corso Garibaldi. Arriviamo nel corso al grido "Il Corriere brucia!"».
Il bilancio di quel pomeriggio di guerriglia sarà di 82 arresti, 49 poliziotti feriti e un morto: il pensionato Giuseppe Tavecchia, casualmente coinvolto negli scontri.

LA MAGGIORANZA SILENZIOSA E L'ORDINE MISSINO

Per reazione a questo clima avvelenato, nacque in quegli anni a Milano la Maggioranza silenziosa, fondata dall'avvocato Adamo Degli Occhi e guidata, fra gli altri, dall'allora vicesegretario cittadino della Dc Massimo De Carolis e dal direttore di «Lotta Europea» Luciano Buonocore.
L'esordio della Maggioranza silenziosa fu il 17 marzo 1971, quando migliaia di persone -professionisti, commercianti, impiegati, pensionati, ma anche studenti e operai- sfilarono in corteo da porta Venezia a piazza Duomo, senza labari di partito e senza slogan aggressivi. I manifestanti avevano bandiere tricolori e striscioni con scritto: «Ordine e progresso», «Viva l'Italia», «Meno politica e più fatti», «Roma sì, Mosca no». Tutto filò liscio, e fu un grande successo per gli organizzatori.
Un mese dopo, il 17 aprile, si tentò la replica, ma le cose andarono ben diversamente. Nel corteo c'erano anche gruppi di facinorosi, che assaltarono la sede dell'associazione «Italia-Cina» in corso Buenos Aires e una sezione del Pci in via Sirtori. Intervenne la polizia, i più agguerriti fra i dimostranti innalzarono barricate, e fra i lacrimogeni e gli slogan «Il comunismo non passerà» la manifestazione si concluse con 22 feriti (di cui 10 poliziotti) e 82 fermati.
Il 29 maggio, sempre del '71, terza uscita pubblica, stavolta senza incidenti e con un notevole successo di partecipazione: dodicimila persone. In tutto, nella storia della Maggioranza silenziosa, le manifestazioni furono dieci, l'ultima delle quali il 30 marzo 1974.
La Maggioranza silenziosa viene comunemente considerata un movimento fascista, ma una simile definizione è impropria. Non il fascismo, ma un ordine tipo anni Cinquanta volevano coloro che ne fecero parte. Ai suoi cortei c'erano iscritti ed elettori, oltre che del Msi, anche e soprattutto di Dc, Pli, Pri e Psdi. Sicuramente tutti erano accomunati, oltre che dall'esasperazione per le continue turbolenze di piazza, anche da un forte anticomunismo. E nel mirino della Maggioranza silenziosa ci furono in particolare il sindaco milanese di allora, il socialista Aldo Aniasi, e Giulia Maria Crespi, la proprietaria del «Corriere della Sera», accusata di avere impresso, con la direzione di Piero Ottone, una svolta di sinistra al tradizionale quotidiano della borghesia milanese.
Anche il fatto che il gruppo dirigente della Maggioranza silenziosa fece, alla fine, un'esplicita scelta di campo aderendo al Msi, non deve trarre in inganno.
Il Movimento sociale, con la segreteria di Giorgio Almirante, aveva lasciato in un angolo le aspirazioni oltranziste della sua ala più radicale, quella che agognava una riedizione della Repubblica sociale, e che era capeggiata da Pino Rauti, ex leader di Ordine nuovo. Almirante aveva detto che il partito si era tolta la camicia nera, e aveva indossato il doppiopetto. Aveva, cioè, deciso -vista l'emergenza imposta dal pericolo comunista- di difendere la legalità repubblicana, pur senza rinunciare a una critica serrata alla corruzione del sistema partitocratico.
E' per questo che, alla fine, la Maggioranza silenziosa venne risucchiata nel Msi e, in pratica, si dissolse. Il Msi era visto allora da una buona parte degli italiani come l'unico partito -troppo molle essendo la Dc- in grado di garantire l'ordine e di assicurare una chiusura al comunismo. Solo così si spiega -in un Paese dove ancora fortissimi erano il culto e anche una certa retorica della Resistenza- lo straordinario successo (8,7 per cento alla Camera e 9,2 per cento al Senato) conseguito dalla fiamma tricolore alle elezioni politiche del 1972.

L'AGENTE MARINO

L'immagine di un Msi tutore dell'ordine ricevette però un duro colpo il 12 aprile 1973, quando a essere protagonisti di violenze e scontri di piazza furono, a Milano, proprio i missini.
Quel giorno era in programma, in piazza Tricolore, un comizio del senatore Ciccio Franco, la «primula nera» della rivolta di Reggio Calabria. Seppur tardivamente -alle 13 di quello stesso 12 aprile, e quindi solo cinque ore prima dell'inizio- il prefetto Mazza aveva però vietato il comizio. Centinaia di missini, non rassegnati, si erano comunque radunati, fin dalle prime ore del pomeriggio, nei pressi della piazza, scandendo slogan del tipo «Boia chi molla». La polizia aveva caricato, e lì erano cominciati gli scontri.
Scontri che si estesero poi a tutto il centro città e che culminarono alle sette meno venti di sera in via Bellotti, quando gli estremisti di destra risposero a una carica della polizia lanciando tre bombe a mano, del tipo Srcm (quelle «leggere», per le esercitazioni militari): e una di queste bombe centrò in pieno petto, uccidendolo, l'agente Antonio Marino, ventidue anni, del terzo reparto Celere, lo stesso di Annarumma. Solo la freddezza di un vicequestore impedì che i poliziotti, sconvolti, aprissero il fuoco contro i dimostranti. La giornata finì con ventidue feriti fra i poliziotti, nove fra i civili (anche qui, alcuni passanti) e settantun fermati.
Alle indagini della polizia e della magistratura collaborò anche il Msi, e in particolare l'onorevole Franco Servello. La federazione milanese missina, d'accordo con Almirante, pose addirittura una taglia di cinque milioni sui colpevoli dell'uccisione di Marino. Poi denunciò agli inquirenti i due responsabili, due giovani che il partito tenne a qualificare come «estranei al Msi».
I due, Vittorio Loi (figlio del grande pugile Duilio) e Maurizio Murelli, non erano però così estranei. Loi era stato militante della sezione di corso Monforte della Giovane Italia (così si chiamava l'organizzazione giovanile del Msi prima di diventare Fronte della Gioventù), e anche Murelli, pur se dichiaratamente contrario alla linea del partito, era stato un iscritto. Va detto, comunque, che una sentenza emessa dal tribunale di Milano il 26 maggio 1978 ha riconosciuto la totale estraneità dei dirigenti del Msi e del Fronte della Gioventù agli incidenti di quel 12 aprile 1973. Loi e Murelli, invece, sono stati condannati (nel 1977) rispettivamente a 19 e 18 anni di carcere.

La collaborazione dei vertici del partito con la giustizia, pur se determinante, non fu comunque sufficiente ad evitare al Msi pesantissime accuse da tutta Italia, e furono molti a invocare, ancora una volta, il suo scioglimento. D'altra parte, la denuncia di Loi e Murelli alla magistratura provocò l'ira dei giovani missini, che si sentirono beffati: prima mandati a combattere, e poi fatti arrestare dal loro stesso partito. Si aprì allora una frattura interna mai più sanata.

SERANTINI E FRANCESCHI

La lista delle vittime negli scontri di piazza comprende anche un numero cospicuo di giovani dimostranti. Di alcuni, come Saltarelli, s'è detto. Altri due nomi rimasti in modo particolare nella «memoria» del movimento come due caduti-smbolo sono Franco Serantini e Roberto Franceschi.
Serantini, ventun anni, pisano, anarchico, fu arrestato il 5 maggio 1972, a Pisa, durante scontri fra polizia ed estremisti di sinistra, che volevano impedire un comizio elettorale del Movimento sociale. Al momento dell'arresto il giovane anarchico fu picchiato durissimamente, e infatti morì due giorni dopo, in carcere, in seguito alle lesioni subite alla testa.
La tragica morte di Serantini, un «figlio di nessuno» cresciuto in un brefotrofio, destò enorme impressione nel movimento di sinistra. Leonardo Marino, l'ex militante di Lotta continua che ha confessato di essere uno degli assassini di Calabresi, ha spiegato che quel fatto accelerò la decisione di uccidere il commissario: «Ai primi di maggio del '72, a seguito di scontri con la polizia a Pisa, morì il compagno Serantini. Il clima divenne rovente e Pietrostefani mi annunciò che si dovevano anticipare i tempi e ammazzare subito Calabresi, per sfruttare l'ondata di collera dei compagni per la morte di Serantini. (...) Chiesi ripetutamente a Pietrostefani di confermarmi se Sofri davvero era d'accordo, e lui mi disse che potevo accertarmene di persona andando a parlare con lui al comizio per la morte di Serantini, che si sarebbe tenuto a Pisa il 13 maggio. Comizio, del resto, al quale sarebbero andati i compagni da tutto il Nord». A parte le accuse rivolte a Sofri e a Pietrostefani (che sono stati assolti in appello dall'accusa di essere mandanti dell'omicidio Calabresi), le parole di Marino testimoniano, appunto, «l'ondata di collera» e la grande mobilitazione che seguirono alla morte di Serantini.

Anche Roberto Franceschi aveva ventun anni. Militante del Movimento studentesco, era iscritto al secondo anno del corso di laurea in economia e commercio quando, la sera del 23 gennaio 1973, fu ferito alla nuca -davanti alla sua università, la Bocconi di Milano- da un colpo di pistola esploso da un poliziotto. Morì una settimana dopo.
Quella sera, 23 gennaio, alla Bocconi era stata indetta un'assemblea del Movimento studentesco. La polizia era schierata davanti all'università, non per impedire l'assemblea, che il rettore Giordano Dell'Amore aveva autorizzato, ma per evitare possibili incidenti. E invece gli incidenti ci furono, e oltre a Franceschi rimasero feriti anche un altro giovane, il ventiduenne Roberto Piacentini, iscritto al Partito marxista-lninista, il tenente della polizia Vincenzo Addante e l'agente Nicola Pinto.
A sparare contro Franceschi e Piacentini fu l'agente autista Gianni Gallo, ventidue anni, ricoverato la sera stessa in stato di choc: secondo la polizia, aveva sparato perché preso dal panico dopo essere stato attaccato.
All'indomani degli scontri, sia Mario Capanna sia il questore Ferruccio Allitto Bonanno, in due conferenze stampa, diedero la propria versione dei fatti.
Ecco quella di Capanna:
«Alla Bocconi era indetta un'assemblea del Movimento studentesco e la polizia, già alle 21.15, si trovava sul marciapiede opposto all'ingresso. C'era un commissario che voleva controllare i tesserini [dell'università, n.d.a.]. (...) C'era la sensazione che stava maturando una provocazione. Si pensava: o ci fanno entrare e poi ci identificano, oppure vogliono uno scontro aperto. Alle 22.15, allora, abbiamo deciso di andarcene. Gli studenti si sono allontanati verso via Bocconi. All'angolo sono stati caricati senza preavviso, e senza reazione da parte loro. Sono volati solo sassi che erano per terra. Non è stata lanciata né è esplosa alcuna bottiglia molotov. Sono stati invece esplosi molti colpi di pistola».
«Almeno un caricatore intero» aggiunse un altro esponente del Ms presente alla conferenza stampa. «Uno dei proiettili ha forato la portiera destra di una "500" blu che era posteggiata a pochi metri dal pensionato. Franceschi e Piacentini sono stati colpiti proprio lì vicino.»
E questa fu la versione del questore Ferruccio Allitto Bonanno, nel tipico linguaggio burocratico della polizia:
«In giornata gli studenti dell'Università Bocconi avevano chiesto un'aula per tenere in serata un'assemblea. Il rettore, professor Giordano Dell'Amore, non aveva opposto alcun rifiuto, mettendo come unica condizione che all'assemblea non venissero ammesse persone estranee all'Università. Lo stesso rettore (o un suo incaricato) ha poi avvisato il vicequestore dottor Paolella, dirigente il commissariato Ticinese, della programmata assemblea.
«Alle 21, pertanto, coadiuvato nella direzione del servizio dal vicequestore Cardile e dal tenente Vincenzo Addante, il dottor Paolella ha fatto schierare sul marciapiedi antistante quello dell'ingresso alla Bocconi un centinaio di guardie di PS scese dai loro automezzi. Dei circa duecento giovani raccoltisi nel frattempo nelle vicinanze della Bocconi, soltanto una cinquantina è entrato nell'Università. Gli altri hanno voltato l'angolo e si sono diretti verso il pensionato.
«Poco dopo le 22 i cinquanta studenti hanno lasciato l'assemblea e hanno mostrato di andarsene alla spicciolata. Tutto all'apparenza sembrava finito. Ottanta agenti erano quindi già risaliti sui gipponi. Una ventina erano, invece, ancora a terra e alcuni stavano cambiandosi l'elmetto con il berretto. E' stato in questa fase di smobilitazione che è avvenuta l'aggressione. Dal pensionato, sfilando a ridosso dei muri, un centinaio di giovani armati anche di spranghe di ferro e chiavi inglesi ha attaccato d'improvviso i venti agenti, lanciando cubetti di porfido e almeno tre molotov. Il tenente Addante è stato colpito all'occhio sinistro da un sasso. Una delle bottiglie molotov ha causato un principio di incendio e un buco nel telone di uno dei gipponi.
«Nell'interno dell'automezzo si trovava già l'agente Gianni Gallo. In fiamme il telone, anche il suo berretto è rimasto bruciacchiato. La guardia è allora balzata a terra. Tutto è successo contemporaneamente. I giovani dopo aver colpito si stavano voltando in fuga. Alcuni agenti hanno fatto uso di candelotti lacrimogeni. Uno è stato lanciato a mano e non è esploso. Altri tre sono stati sparati con i tromboncini. Il Gallo ha aperto il fuoco con la sua pistola. Lo stesso ha fatto, sparando in aria, il vicebrigadiere Agatino Puglise. Lo stesso sottoufficiale, appena si è reso conto di quanto stava accadendo, ha poi disarmato il Gallo».
Il rettore Giordano Dell'Amore confermava che a dare inizio agli scontri erano stati alcuni studenti del Ms: «La polizia è stata aggredita. Questa è la versione che circola e che tutti confermano. Anche degli studenti che erano lì hanno confermato la mattina successiva che è avvenuto questo». Affermazioni che costeranno a Dell'Amore l'ostilità degli studenti del Ms, che si riunirono in assemblea e decisero che, «visto tutto il comportamento e le posizioni assunte dal rettore», non lo riconoscevano «più come rettore dell'Università, dichiarandolo decaduto dalle sue funzioni». «I poteri» diceva il documento approvato dall'assemblea «vengono assunti temporaneamente dall'intero Consiglio di facoltà». Le bandiere rosse all'ingresso dell'ateneo furono abbrunate e calate e mezz'asta in segno di lutto.

IL ROGO DI PRIMAVALLE

Una fotografia testimonia fino a che punto poterono arrivare, in quegli anni, l'odio e la ferocia.
E' la fotografia che ritrae il giovane romano Virgilio Mattei, orrendamente sfigurato e forse già morto, al davanzale della finestra di casa sua. E' la fotografia del rogo di Primavalle, in cui morirono due figli -uno bambino- di un segretario di sezione del Msi. Un rogo appiccato da estremisti di Potere operaio alle tre di notte del 16 aprile 1973.
Primavalle è un quartiere popolare di Roma, che a quel tempo contava 115.000 abitanti e un reddito annuo pro-capite che non raggiungeva le trecentomila lire. Gente povera, e povero era anche Mario Mattei, quarantotto anni, un imbianchino che dopo un periodo di disoccupazione aveva trovato lavoro come spazzino comunale.
Era sposato con Anna Maria Macconi, ed era padre di sei figli: Virgilio, Stefano, Silvia, Lucia, Antonella e Giampaolo. Una famiglia numerosa, che viveva stipata in due locali di via Bernardo Bibbiena.
Non risulta che Mario Mattei avesse mai fatto del male a nessuno. Ma era segretario della sezione del Msi di via Svampa, a pochi passi da casa.
Quella notte del 16 aprile una tanica di benzina fu rovesciata sulla porta d'ingresso dell'appartamento dei Mattei. E un'altra tanica, con cinque litri di benzina, fu lasciata sulla porta, collegata a una miccia.
Ci fu una specie di botto. Anna Maria Macconi si svegliò, vide le fiamme, cominciò a gridare. Il marito, svegliato dalle urla, andò a prendere un piccolo estintore che teneva in casa proprio perché era stato minacciato («Ti bruceremo»). La schiuma dell'estintore, insufficiente per domare le fiamme bastò comunque per creare un varco da cui la moglie, afferrati i due figlioletti più piccoli Giampaolo e Antonella, riuscì a raggiungere le scale e a mettersi in salvo.
Mentre, decine di persone, attirate dal fuoco e dalle grida, si erano riversate per strada e nel giardino, Mario Mattei, col corpo in buona parte ustionato, riuscì ad aprire la finestra di un piccolo ballatoio e si calò sul balconcino del piano di sotto, gridando alle bambine di seguirlo. Afferrò Lucia, ma non Silvia, che cadde sul selciato, rimanendo ferita.
Ma intanto una barriera di fuoco aveva intrappolato Virgilio, ventidue anni, e Stefano, otto anni. Virgilio afferrò il fratellino e cercò di raggiungere il ballatoio. Si affacciò alla finestra. La gente gridava: «Buttati, buttati». Ma Virgilio era impietrito, incapace di qualsiasi movimento. Cadde, forse per un collasso, forse per soffocamento. Il piccolo Stefano era già morto, aggrappato alla gamba del fratello maggiore. I pompieri li trovarono così, morti tutti e due, aggrappati l'uno all'altro.
Le indagini, dirette dal sostituto procuratore Domenico Sica, arrivarono rapidamente all'identificazione dei colpevoli: Achille Lollo, ventun anni, Marino Clavo, vent'anni, e Manlio Grillo, trentadue anni, tutti di Potere operaio.
A casa di Lollo vennero trovati: un manoscritto con nomi e indirizzi di iscritti al Msi «da punire», e fra questi c'era Mattei; una lettera, a lui indirizzata, in cui si parlava di una fornitura di armi ed esplosivi; un elenco di armi e munizioni; e, soprattutto, fogli di quaderno uguali a quelli usati per comporre il cartello di rivendicazione della strage, un cartello fatto trovare accanto al portoncino del condominio in cui viveva Mattei e firmato dalla «Brigata Tanas, giustizia proletaria».
Ma a sostegno dell'accusa c'era anche, importantissima, la deposizione di Aldo Speranza, un netturbino iscritto al Pri, amico di molti elementi di Potere operaio. Un suo caposquadra, Alessio Di Meo, missino, testimoniò che Speranza gli aveva confidato che un gruppo di Potere operaio, di cui faceva parte Lollo, aveva compiuto numerosi attentati, nel quartiere Primavalle, contro esponenti o simpatizzanti del Msi.
Speranza, dopo un'iniziale ritrosia che gli costò l'accusa di reticenza, ammise che gli amici di Potere operaio gli avevano mostrato un deposito di ordigni esplosivi e gli avevano fatto l'elenco degli obbiettivi da colpire, fra cui la casa di Mattei. E Speranza -particolare decisivo- ammise alla fine di avere visto insieme, poco prima dell'attentato, Lollo, Clavo e Grillo. Clavo disse di avere un alibi, di avere trascorso la notte in compagnia di Diana Perrone, figlia di uno dei proprietari del quotidiano romano «Il Messaggero». Ma Diana Perrone negò.
Con questi e altri (le contraddizioni di Lollo e una serie di perizie) elementi, l'inchiesta si chiuse rapidamente, e già poche settimane dopo la strage i tre militanti di Potere operaio furono rinviati a giudizio.
Il processo di primo grado si svolse condizionato da un clima di grande tensione. Come già raccontato nel capitolo precedente, fu il 28 febbraio 1975 -cioè quattro giorni dopo l'inizio del processo e durante una manifestazione indetta a sostegno degli imputati- che estremisti di sinistra uccisero in via Ottaviano a Roma lo studente greco Mikis Mantakas, dirigente del Fuan, l'organizzazione universitaria del Msi.
E ad alimentare ulteriormente animosità e confusione contribuirono la sinistra e molti giornali, come lo stesso «Messaggero», che sostennero che, in realtà, i figli del Mattei erano stati uccisi in una faida tra fascisti. La stessa tattica -lo abbiamo visto- usata per gli omicidi di altri tre missini: Mazzola, Giralucci e lo stesso Mantakas.
In aula, gli avvocati difensori di Lollo, Clavo e Grillo diedero battaglia portando avanti, parallelamente, due tesi: quella, appunto, della faida tra fascisti, e quella dell'incendio scatenatosi fortuitamente, a causa di un cortocircuito. Il pubblico ministero Sica chiese l'ergastolo, ma il 5 giugno 1975 la Corte assolse i tre per insufficienza di prove, scrivendo nella sentenza che «pur sussistendo a carico di tutti e tre gli imputati non pochi indizi di reità, questi, criticamente esaminati e vagliati, lasciano un apprezzabile spazio per ritenerli non sufficienti a fornire una sicura certezza». Lollo fu scarcerato e scappò all'estero, cosa che Clavo e Grillo avevano fatto già dai giorni immediatamente successivi alla strage.
In un clima diverso, senza più le tensioni e le pressioni di quegli anni, il 16 dicembre 1986 la Corte d'assise d'appello, al processo di secondo grado, condannò i tre a 18 anni di reclusione, ritenendoli colpevoli di duplice omicidio preterintenzionale e di incendio doloso. La sentenza divenne definitiva il 13 ottobre 1987.
Il 23 febbraio 1993 «Il Manifesto», commentando l'arresto, in Brasile, di Achille Lollo (mentre degli altri due si sono perse da tempo le tracce), ha scritto:
«Anche se non dovessimo rivederla in questi giorni sui giornali, l'immagine del cadavere carbonizzato di Virgilio Mattei alla finestra della sua casa, il fratellino stretto fra le braccia in un gesto estremo di protezione, è di quelle che non si possono dimenticare mai. Che ci pesano come macigni».
Continuava l'articolo del «Manifesto»:
«La sinistra extraparlamentare, "Il Manifesto" compreso, nella confusione e nel dolore che seguirono, di fronte a una tragedia fino ad allora non immaginabile (riconosce la sentenza, nemmeno dagli esecutori materiali), credette alla faida fra fascisti. Scrivevamo, allora, che nella sezione del Msi di Primavalle si scontravano "falchi" e "colombe": i Mattei erano fra questi ultimi. E i fautori dello scontro duro con i rossi avrebbero incendiato la porta di casa dei Mattei perché la colpa venisse data all'estrema sinistra».

RAMELLI E VARALLI

Fu davvero una primavera terribile, a Milano, quella del 1975. Quattro ragazzi uccisi, uno di destra e tre di sinistra.
Si cominciò il 13 marzo con Sergio Ramelli. Diciannove anni, iscritto al Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile del Msi, Ramelli era studente dell'Istituto Tecnico Molinari. Aveva subito minacce, come molti studenti di destra era stato «invitato» a cambiare scuola; i «compagni» gli avevano fatto anche un processo pubblico, in aula. Fu atteso sotto casa da un gruppo (almeno otto: tanti furono poi, al processo, i condannati) di estremisti di Avanguardia operaia, perlopiù studenti di medicina, che lo massacrarono a colpi di chiave inglese sulla testa. Ramelli morì, dopo quarantasette giorni di agonia, il 29 aprile.
I suoi assassini furono scoperti e arrestati solo dieci anni dopo. Erano nel frattempo diventati medici, stimati professionisti, e nessuno sospettava del terribile segreto che nascondevano. Finirono quasi tutti con il confessare.

Claudio Varalli, diciassette anni, era invece di sinistra. Un cattolico di sinistra, iscritto alle Acli e militante del Movimento studentesco. Frequentava un istituto tecnico per il turismo. Figlio di operai, viveva a Baranzate di Bollate, nella «cintura» milanese. Fu ucciso il 16 aprile, in piazza Cavour, dal neofascista Antonio Braggion, ventun anni, studente in legge, famiglia benestante.
Quel 16 aprile, Braggion e due suoi amici erano fermi, su una Mini Minor, all'angolo fra via Turati e piazza Cavour. A un tratto arrivarono 20-25 giovani della sinistra extraparlamentare, fra cui Varalli. Qualcuno dice che dalla Mini partì una raffica di insulti contro i «rossi»; altri sostengono che a cominciare furono, invece, quelli di sinistra, che avevano visto, vicino all'auto, volantini del Fuan. Fatto sta che gli ultrà di sinistra circondarono la Mini e cominciarono a tempestarla di colpi con spranghe e chiavi inglesi. Due degli aggrediti riuscirono a scappare; il terzo, Braggion, reagì sparando con una pistola 7,65 che illegalmente portava con sé. Due colpi andarono a vuoto, uno raggiunse alla testa Varalli.
Legittima difesa? Oppure al momento di esplodere il terzo, decisivo colpo, i giovani del Movimento studentesco erano già in fuga? I giudici optarono per la prima soluzione, condannando Antonio Braggion a sei anni di carcere per eccesso colposo in legittima difesa e detenzione abusiva di arma. Questa la versione di Braggion al processo d'appello: «Ero in compagnia di due miei amici in piazza Cavour. Avevo la schiena appoggiata alla Mini Minor. Improvvisamente vidi arrivare una trentina di persone. Il gruppo non aveva intenzioni pacifiche. Pensai di rientrare nell'auto ma venni colpito ripetutamente alla testa da alcune sprangate. Era mia intenzione fuggire in macchina. Riuscii ad aprire la portiera, a entrare nell'abitacolo ma crollai sul sedile. Pensai alla fine che aveva fatto Ramelli.
«Istintivamente presi la pistola dalla tasca della portiera, mi girai e sparai verso l'alto. Mi pare due colpi, un terzo lo sparai uscendo dall'auto. Non mi accorsi di Varalli a terra, morto. (...) Mi avviai in via Turati, abbandonai la pistola e mi recai da un amico. (...) Avevo la pistola perché avevo subito minacce telefoniche, c'era un clima particolare nelle scuole. (...) Non sono iscritto al Fronte della Gioventù, mi hanno anche accusato di essere di Avanguardia nazionale ma a Roma mi hanno assolto».
Quella della legittima difesa, benché accreditata dai giudici, era tuttavia una versione che allora nessuno voleva sentire. I grandi quotidiani, ad esempio il «Corriere» e «La Stampa», parlarono di assassinio fascista e alla violenza fascista dedicarono i lori «fondi», esortando le autorità a usare le maniere forti contro la destra. Lo stesso ministro degli Interni Luigi Gui, democristiano, disse al Senato: «In questo caso la violenza è inequivocabilmente fascista. Una violenza tale per l'orientamento politico di chi ha ucciso, tale anche per i suoi caratteri intrinseci, per questa prontezza a sparare e a uccidere, forse -questo non mi è permesso di dire in forma sicura- con una qualche premeditazione. (...) Questa prontezza ad uccidere, questo desiderio dello scontro, questa provocazione tipicamente fascista meritano una condanna senza attenuanti, profonda».
La sera stessa dell'uccisione di Varalli, un gruppo di ultrà di sinistra, armati di molotov e di spranghe, assaltarono la sede del «Giornale» di Montanelli per impedirne l'uscita. Al quotidiano, benché non ancora stampato, si rimproverava la «tendenziosità» con cui erano state preparate le cronache dei fatti di piazza Cavour. L'assalto riuscì a sabotare la lavorazione al punto da impedire, in pratica, la diffusione del quotidiano. Il giorno dopo, infatti, alle edicole arrivarono solo poche copie del «Giornale».
Sul numero di venerdi 18 aprile, Montanelli spiegò l'accaduto, denunciando il comportamento del magistrato a cui era affidata l'inchiesta sull'uccisione di Varalli. «Asserragliati in redazione e alla mercè dei dimostranti, l'unico segno che ci è venuto dal di fuori» scrisse Montanelli «è stata la voce del sostituto procuratore della Repubblica Ottavio Colato che, con un megafono, invitava la folla tumultuante a non raccogliere le "provocazioni" di "alcuni organi di stampa dall'indirizzo ben determinato", avallando così la tesi della nostra "tendenziosità" e aizzando, con l'aria di sedarla, la violenza contro di noi.»
Davanti al «Giornale» la battaglia durò a lungo, molte vetrate furono abbattute e a fronteggiare gli estremisti c'erano solo i tipografi: nonostante le ripetute telefonate dal «Giornale» alla prefettura e alla questura, non fu inviato nessun poliziotto per mettere fine all'assedio. Il lavoro in tipografia poté riprendere solo quando gli assalitori ottennero di far pubblicare sul «Giornale» un comunicato con cui si deplorava la «tendenziosità» del quotidiano.

ZIBECCHI E BRASILI

Il giorno dopo la morte di Varalli, un altro dramma. Con l'organizzazione dei sindacati ufficiali, dei partiti e dei movimenti degli studenti, si tenne a Milano una grande manifestazione, a cui parteciparono trentamila persone, per denunciare la violenza fascista. Commandos di estremisti si staccarono dal corteo scatenando la guerriglia: vennero devastati quattro bar, gli uffici della compagnia aerea spagnola Iberia, le sezioni del Msi in viale Murillo e via Guerrini, la redazione del giornale milanese «Lo Specchio», una cartoleria, un supermercato della Sma, tre negozi in corso XXII Marzo, gli uffici dell'Istituto autonomo case popolari in viale Romagna. Il consigliere provinciale del Msi Cesare Biglia fu aggredito mentre era con la moglie, sprangato e mandato all'ospedale con la scatola cranica sfondata.
In via Mancini, dove aveva sede la federazione del Msi, fitto lancio di bottiglie molotov. Undici auto parcheggiate andarono distrutte. E incendiati pure alcuni automezzi dei carabinieri, durante l'assalto alla caserma di via Fiamma.
In questi scontri, che terminarono con sessantaquattro feriti, perse la vita Giannino Zibecchi, ventisei anni, operaio, simpatizzante del Movimento studentesco e tra i fondatori del Comitato antifascista della zona Ticinese. Fu travolto e ucciso, in corso XXII Marzo angolo via Cellini, da uno degli automezzi dei carabinieri lanciati per la carica.
Il 25 maggio 1975, sempre a Milano, un gruppo di neofascisti accoltellò e uccise, in piazza San Babila, lo studente Alberto Brasili, che aveva l'unica colpa di vestirsi come «uno di sinistra». Forse, ma non è sicuro, aveva staccato da un muro un adesivo del Msi. Gli assassini vennero subito arrestati: erano cinque, il più vecchio aveva vent'anni.
Un altro delitto assurdo, feroce. Incomprensibile se non si tiene conto della devastazione che l'odio aveva prodotto nell'animo di migliaia di giovani.
Che cosa spingeva Antonio Braggion a girare con la pistola in tasca? E perché Claudio Varalli era in un gruppetto di sprangatori?
Sarebbe troppo semplice, e soprattutto ingiusto, etichettare come assassini tutti i ragazzi che in quegli anni si batterono gli uni contro gli altri. Passare dagli slogan ai fatti era un attimo. Bastava un incontro piuttosto che un altro, un amico piuttosto che un altro, o un'occasione particolare, per ritrovarsi con un'arma in mano. Anche molti ragazzi miti, di indole tutt'altro che bellicosa, rischiavano di trovarsi poi in mezzo a pestaggi, agguati, risse. Quel pomeriggio del 16 aprile 1975, Claudio Varalli uscì di casa per andare a un'assemblea e a una manifestazione del Movimento studentesco sul tema della casa. Era in ritardo, scese le scale di corsa. Ma arrivato sul portone si girò e tornò indietro: aveva dimenticato di dare un bacio a Daniele, il suo fratellino di cinque anni.


XII - I NUOVI IDOLI

Da distruggere non c'era solo un sistema politico ed economico. Andava spazzato via tutto un mondo, andavano stravolte le vecchie regole della convivenza, andava rivoluzionato il modo di vivere quotidiano. Nuove mode e nuovo linguaggio, nuovi miti e nuovi idoli.
Cambiò il modo di esprimersi. Prima nei cortei, a ritmo di slogan: «Agnelli ha paura / e paga la questura», «Governo diccì / il fascismo sta lì», «Per i compagni uccisi / non basta il lutto / pagherete caro / pagherete tutto». E poi nel parlare d'ogni dì, che vedeva nel ricorso frequente alla parolaccia una forma di liberazione dai vecchi tabù, e nell'abuso di espressioni come «nella misura in cui», «il problema sta a monte», «esperienze sulla propria pelle» e «cioè» la pretesa di un tono intellettuale. Il «sinistrese» è la nuova lingua nata in quegli anni.
Del modo di vestirsi s'è detto. La rivoluzione della minigonna e dei pantaloni a zampa d'elefante si fermò agli inizi degli anni Settanta. Poi i giovani della sinistra ebbero nell'eskimo, nei capelli lunghi e incolti e nelle gonne a fiori le loro divise.
Mai come in quegli anni la scelta degli status symbol comportò, automaticamente, una collocazione «a destra» o «a sinistra». Era fascista chi vestiva con loden, occhiali Ray-Ban, scarpe a punta Barrow's, maglietta Lacoste; chi aveva la Volkswagen «Golf» e la Vespa «Primavera»; e le loro ragazze portavano borse di Vuitton. I «compagni» andavano in bicicletta, le loro auto erano la Renault «4» e le Citroén «Dyane» e «2 cavalli»; portavano zaini artigianali e fumavano «MS».
Mode che spesso contagiarono la generazione di padri pateticamente impegnati a stare al passo con i tempi; quanti cinquantenni, per non sentirsi tagliati fuori, vollero adeguare il proprio look e il proprio linguaggio a quello dei figli diciottenni, con i grotteschi risultati che è fin troppo facile immaginare.

LE MODE «ALTERNATIVE»

Tutto doveva essere «alternativo» a quel mondo che sembrava non offrire, ai giovani dei vari movimenti, alcunché di accettabile.
Milano alternativa? Frammenti di controcittà è il titolo di una sorta di guida che voleva offrire «... fra le pieghe della città, nella scelta di un presente alternativo fatto di mille cose quotidiane, la possibilità di una contestazione globale, di valori e di strutture, politica e personale», come era scritto in quarta di copertina.
Milano alternativa seguiva alla pubblicazione di Roma alternativa: le due guide sono utilissime per capire come i giovani di allora volessero «vivere il quotidiano», per cogliere le loro tendenze e i loro gusti. A pubblicarle (nel 1975) non fu un piccolo editore dell'area ultrà, ma la nota SugarCo, e la collana si chiamava significativamente «Fallo!», dal nome del giornale «Underground Fallo!» e da chissà cos'altro.
«Scopo di questo libro, che libro in senso classico non è, ma semmai un contro-libro» si leggeva nel prologo di Milano alternativa «è di tentare una prima radiografia, una mappa, di tendenze, spinte, gruppi, e anche luoghi fisici attorno ai quali si coagula, anche senza cristallizzarsi, una possibile visione alternativa della città. In senso antiautoritario, anticapitalista, in primo luogo, ma anche in senso più lato, meno specificatamente di battaglia, controculturale, controistituzionale, e quindi creativo». Il linguaggio, come si vede è sinistrese doc.
Seguiva una mappa della città per chi voleva «organizzare sin da ora, oggi, una diversa vita quotidiana, senza attendere il sole dell'avvenire». Significativo che fra i mezzi di informazione «buoni» si segnalasse, pur con qualche riserva dovuta ai «vecchi tromboni» ancora purtroppo presenti in redazione, il «Corriere della Sera». Diceva quella guida dell'ultrasinistra che «il Corrierone... ha fatto molta strada... da sanfedista triste si trasformava in progressista eclettico e fervente». Certo c'erano ancora, diceva la guida, «le solite tristissime firme dei Moravia-Pasolini-Cassola & Co.», ma c'erano anche «più giovani firme di giornalisti quasi incazzati e quasi all'americana, tipo Giuliano Zincone, a far da battistrada alla nuova era. Da parte nostra, alternativamente, che altro dire se non: lunga vita al giovane e glorioso comitato di redazione?».
Un capitolo della guida era intitolato «Gay power», e spiegava a chi rivolgersi (Partito radicale, corso di Porta Vigentina 15/A) per vivere la propria sessualità «contro l'imperialismo del cazzo». Un altro capitolo era dedicato alle «terapie alternative», perché «la medicina convenzionale, si sa, è al servizio delle Case farmaceutiche e degli ospedali catene di montaggio».
E il capitolo riservato allo sport è illuminante per comprendere quanto, allora, davvero tutto fosse politicizzato. Spiegava la guida che «tutte le strutture dello sport milanese, dallo stadio dei 100 mila all'ultimo campetto parrocchiale, vivono all'ombra della gigantesca macchina che produce sport-spettacolo, alienante per chi lo produce come per chi lo consuma». Ogni sport, poi, aveva una precisa caratterizzazione ideologica: «Il nuoto, che potrebbe e dovrebbe essere popolare, è strangolato dalla mistica nazista... Il basket, relativamente recente, è per sua natura troppo spettacolare, è gioco già tutto creato per lo spettatore... Il tennis è bollato dallo snobismo manageriale... Le palestre, del trionfante neocapitalismo, sono più che spesso luoghi osceni, per la mistica e il culto della forza che ci si respira, e non a caso sono spesso covi di fascisti... Il ciclismo, anche lui popolare, è sempre stato troppo legato a un agonismo feroce, e ai sogni di Bartali e Coppi... I cosiddetti sport invernali costano troppo, e sono più che altro ricreazione sociale e snobistica della middle class, e spettacolo ...».
E allora quali sport poteva praticare il giovane democratico degli anni Settanta? «Forse lo sport allo stesso tempo popolare e alternativo più d'ogni altro è quello delle bocce... L'atletica, soprattutto praticata nelle scuole, se è fatta senza martirizzarsi negli allenamenti, per arrivare primi e fare i record, può anch'essa essere buona, e alternativa», suggeriva la guida.
E il calcio? Milano alternativa spiegava che il tifo per Inter e Milan era «rincoglionimento», ma siccome «il pallone è proletario», c'è anche «una pratica del gioco del calcio per il gusto del gioco, e del pallone, che è gioiosa, alternativa quasi».

Un'altra guida per vivere la città senza essere out fu Milano? Guida in jeans, edita dalla Vallecchi. Più didascalica e meno commentata di quella della SugarCo, è comunque anch'essa una testimonianza sugli stili di vita di allora. Ad esempio, dove spiega come far ricorso al modo di viaggiare allora più in voga: l'autostop. «Per cercare passaggi potete rivolgervi a qualche radio privata, che organizza annunci di questo genere (esempio Radio Popolare o Canale 96) oppure potete con almeno una settimana di anticipo fare un annuncio su "Secondamano" o ancora mettere un annuncio all'università» era scritto.
E interessante anche il capitoletto «Dormire», dove oltre che fornire gli indirizzi degli Ostelli della gioventù, si diceva: «Il consiglio è farsi degli amici in fretta. Se si hanno esperienze da scambiare, storie da raccontare, se lo scopo non è solo approfittare della generosità altrui, non sarà difficilissimo, soprattutto d'estate quando la gente si sente sola, farsi ospitare».
L'ospitare in casa propria gente che non si era mai vista fino a un minuto prima, e viceversa andare a dormire a casa di gente mai conosciuta, fu un classico di quegli anni. «Ti presento un compagno, è uno che ha una storia incasinata, puoi tenerlo a casa tua per qualche giorno?» ci si sentiva chiedere. E si accettava. Il nomadismo caratterizzò per anni la vita di molti giovani del movimento.
Così come fu ordinario il ricorso ai lavoretti saltuari. In un celebre locale alternativo di Milano, il «Macondo», il lavoro saltuario venne addirittura istituzionalizzato con un convegno sull'«Arte di arrangiarsi». Al «Macondo» si faceva di tutto: si mangiava, si fumava l'hashish (la polizia fece chiudere il locale quando aveva già 6000 tesserati, ma un giudice lo fece riaprire), si imparavano le arti marziali, si vedevano film naturalmente alternativi, si organizzavano mostre, si radunavano i gay.

LE NUOVE BIBBIE: SCRITTE ...

Il nome di quel locale non era casuale. Macondo era la città immaginaria di Centanni di solitudine, il romanzo del colombiano Gabriel García Márquez, il più venduto (per quanto riguarda la narrativa) fra i libri di culto della generazione del Sessantotto.
Scritto nel '67, Cent'anni di solitudine piombò in Italia nei primi mesi del '68, pubblicato da Feltrinelli, e fu l'inizio di un successo strepitoso: oltre 450.000 copie. Solo nei paesi di lingua spagnola questo libro vendette di più.
Pasolini lo stroncò («Márquez è davvero un affascinante burlone, tant'è vero che gli sciocchi ci sono cascati... è il romanzo di uno scenografo o di un costumista»), ma il libro aveva quel tanto di antiamericanismo, terzomondismo e utopismo sufficiente per sfondare.
Un altro libro-simbolo di quegli anni è Porci con le ali, scritto da Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, e pubblicato nel 1975 da Savelli. Fu, per i giovani, una mini-bibbia della cosiddetta liberazione sessuale. Protagonisti del libro erano due ragazzi e i loro genitali, ripetutamente citati e minuziosamente descritti fin dalla prima pagina. Ben altro livello, s'intende, rispetto al romanzo di Márquez, che ha continuato negli anni il successo di vendite. Porci con le ali appare oggi datatissimo: ma è una testimonianza efficace dell'epoca.
Un'epoca in cui la sinistra -e non parliamo solo della sinistra ortodossa, cioè quella comunista- dominò letteratura, arte, cinema, teatro, musica. Dominò, in una parola, la cultura, come hanno riconosciuto, in un servizio sulla «Stampa» del 20 maggio 1993, il leader comunista Pietro Ingrao e il padre storico del «Manifesto» Valentino Parlato. «C'è stata una forte cultura della sinistra anticapitalista, che si è espressa nel campo del pensiero, dell'arte e delle lettere» ha detto Ingrao. E Parlato: «Sul mercato andavano bene i romanzi, i film, i saggi degli autori comunisti, o impropriamente annessi dagli altri al comunismo». Un'egemonia, sostengono Ingrao e Parlato, che non fu imposta, ma che venne da sé, dalla legge dell'offerta e della domanda.
Sia stata la sinistra a scegliere di andare alla presa del «palazzo» che controlla le coscienze, o siano stati gli altri -liberali e cattolici- a lasciare campo libero con la loro assenza, sta di fatto che in quegli anni tutto ciò che non poteva esibire un imprimatur laico, democratico e antifascista non veniva considerato «cultura». Furono quelli, fra l'altro, gli anni in cui gli storici marxisti ottennero quasi il monopolio dei libri di testo delle scuole medie superiori.

... E CANTATE

E furono quelli gli anni della musica politicizzata, con l'esplosione dei cantautori «impegnati»: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Pierangelo Bertoli, Roberto Vecchioni, Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Eugenio Finardi.
La musica leggera non fu più una mera occasione di svago, ma al contrario una specie di catechesi politico-rivoluzionaria, o quanto meno un messaggio di impegno sociale. Chi continuava a cantare il cosiddetto «privato», scandagliando nei sentimenti dell'uomo e facendo riferimento a valori tradizionali, veniva marchiato come fascista.
E' il caso di Lucio Battisti, forse il maggior talento musicale italiano degli anni Settanta. Non piacevano i suoi maglioni dolce vita neri, le sue polemiche (che parevano «da destra») contro il consumismo, il suo raccontare amori e sentimenti «privati». Battisti cantava Emozioni quando gli altri parlavano di ingiustizie sociali, e cantava Innocenti evasioni quando gli altri urlavano il dovere di impegnarsi.
E mentre gli altri sostenevano che la libertà era l'abbattimento delle classi, Battisti cantava «In un mondo che / non ci vuole più / il mio canto libero / sei tu». E a proposito di amori, ne raccontava anche uno con una ragazza che viveva oltre la cortina di ferro, in una canzone, La luce dell'Est, che mandò in bestia i comunisti.
Così Lucio Battisti diventò un nemico della sinistra, che lo accusò di finanziare Ordine nuovo. Ha detto al «Corriere della Sera» del 29 settembre 1992 Pierangelo Bertoli: «Negli anni Settanta si sapeva che stava a destra e che era vicino al Movimento sociale. Lo si sapeva e basta».
Prove di tutto questo, nessuna. E del resto Ornella Vanoni ha commentato: «Negli anni Settanta chiunque parlasse d'amore veniva considerato di destra: anch'io ho patito rimproveri dalle femministe...».
E lo stesso Giulio Rapetti, in arte Mogol, paroliere di Battisti, in un'intervista all'«Avanti!» nell'agosto del '92 ha ricordato: «La contestazione era diventata una forma di manierismo quasi nazista. Io, come autore, ho evitato di speculare e mi sono anche preso del fascista per non aver inseguito il mito della sinistra, del pugno chiuso. (...) Esistevano due culture: quella privata, interiore, dei sentimenti e di certi valori. Poi la cultura appiccicata, determinata da un momento di furore, forse anche con delle ragioni iniziali di stimolo ma poi degenerata in una cultura di simbolo: "Io sono questo, tu sei quello"».
«Negli anni Settanta» ha detto Red Canzian, dei Pooh «non eri forte se non salivi col pugno chiuso sul palco. E la sinistra ne ha approfittato».

UN SOTTILE VELENO

E questa è la testimonianza di uno di quei cantautori che pure, in quegli anni, riscuotevano grandi consensi a sinistra, Franco Battiato: «Il Sessantotto è stato una buffonata. C'era puzza di semplice incazzatura. A che serve se uno si ubriaca senza evolvere il proprio pensiero? (...)
«Ricordo scene orribili degli anni Settanta. Avevo molto seguito, i miei concerti erano riti woodoo, la gente spaccava le sedie dei teatri. Ho toccato la violenza che si respirava nei Festival dell'Unità. Ed ero l'unico musicista che suonava nei circuiti dei terroristi. Li ho conosciuti, ho visto la loro violenza, l'incapacità di ascoltare. Ero nelle aule di Roma nei momenti caldi. A Parco Lambro tutto era paradossale. Odiavo quella violenza ma, per certi versi, con la mia musica anch'io ne ero la causa» («La Stampa», 28 settembre 1992).
Anch'io, dice Battiato, con la mia musica, fui una delle cause di quella violenza. Un'autocritica non isolata.
Ha scritto Giulio Savelli, editore di punta della contestazione (pubblicò, oltre a Porci con le ali, anche il mitico La strage di Stato, la controinchiesta sulla bomba di piazza Fontana di cui s'è già fatto cenno):
«Insieme a qualche (raro) buon libro, pubblicammo in quegli anni un mare di paccottiglia, di "robaccia ". (...) Robaccia: attraverso la quale, però, instillammo goccia a goccia nei giovani che ci leggevano un sottile veleno. Sono responsabile anch'io della morte di Calabresi perché ho contribuito a far credere ai giovani di allora che per migliorare la società fosse necessario distruggerla e che tramite la violenza rivoluzionaria sarebbe nata un'organizzazione sociale perfetta (...). Provo davvero vergogna per quegli anni. Sento davvero un grande peso se mi capita di pensare che anche uno solo dei "terroristi" di allora possa essere stato convinto da uno dei libri pubblicati dalla Savelli che predicavano la rivoluzione. Né mi consola il fatto che quella responsabilità è da dividere con tanti; e che tra i tanti ci sono molti più colpevoli di me. E soprattutto più ipocriti, che oggi fingono di essere stati altrove. Le opere di Marx e di Lenin che esaltavano la violenza levatrice della storia sono state pubblicate dalle Edizioni Rinascita prima che dalla Savelli; il disprezzo della democrazia borghese io l'ho imparato a diciannove anni nella sezione del Pci» (articolo sull'«Indipendente» del 12-13 luglio 1992).

IL MITO DEL «CHE»

La contestazione interna si ispirava naturalmente, in gran parte, anche a modelli stranieri. Ed è chiaro che la congiuntura internazionale del periodo rivoluzionò, fra gli italiani, la scelta dei punti di riferimento.
La guerra del Vietnam, con le immagini dei villaggi bombardati più volte trasmesse in tv, incrinò -per la prima volta dalla fine della guerra- il mito dell'America. I vietcong diventarono così il simbolo della lotta per il comunismo e contro l'imperialismo del grande capitale; le marce e gli slogan anti-Usa («Creare uno, due, tre, cento Vietnam») furono una costante soprattutto all'inizio del decennio della contestazione.
L'America, certo, forniva ancora miti ed eroi; che non erano più, però, interpreti del «sogno americano», ma al contrario rappresentanti della rivolta contro quel sistema: gli studenti dei campus occupati, le comuni californiane, la controcultura, il Black Power e Malcolm X.
La grande potenza-modello diventò così la Cina, dove la Rivoluzione culturale del 1966-67 sembrava aver indicato una nuova strada per la costruzione del socialismo: non più l'organizzazione gerarchica e centralistica dell'Unione Sovietica, ma -finalmente- un movimento di massa spontaneo e antiautoritario.
Ma nulla e nessuno colpi l'immaginazione dei giovani come il personaggio di Ernesto Guevara, detto il «Che».
Argentino, nato nel 1928 da Ernesto Guevara Linch (figlio di un'irlandese) e da Cella de La Serna, laureato in medicina a Buenos Aires nel 1953, il «Che» aveva cominciato a costruire la sua leggenda nel 1955, quando si era arruolato nel corpo rivoluzionario cubano di Fidel Castro. Arrestato, liberato, ferito in battaglia, il 31 dicembre 1958 vinse la battaglia (decisiva) di Santa Clara, costringendo alla fuga il leader cubano Batista. Era la vittoria della rivoluzione castrista, e il «Che» divenne prima cittadino cubano, poi ambasciatore, poi capo del dipartimento dell'industrializzazione dell'istituto per la riforma agraria, quindi presidente del Banco Nacional, infine ministro dell'Industria.
Ma anziché godersi poltrone e successo, Che Guevara continuò il suo sogno di rivoluzionario al servizio non di una patria, ma di un'idea: e girò il mondo che riteneva oppresso, dall'America Latina all'Algeria, per organizzare guerriglie e rivolte.
L'8 ottobre 1967 venne ferito e catturato in Bolivia, il cui governo era andato, appunto, a combattere. Interrogato, si rifiutò di rispondere. Il giorno dopo, 9 ottobre 1967, alle 13.10 il sergente Mario Teran lo uccise con una raffica di mitra. Come sempre, morto l'uomo nacque il mito.

«Perché ci piaceva tanto, perché ci piaceva più di tutti?» ha scritto Massimo Fini. «Perché il "Che", con i suoi ideali, con il suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra. (...) Noi, come tutti i giovani, amavamo la violenza, rimpiangevamo la guerra, anche se non potevamo dirlo nemmeno a noi stessi. E il "Che" legittimava se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni e i cubetti di porfido.»
Naturalmente Che Guevara piaceva molto meno alla sinistra ortodossa, quella del Partito comunista e del socialismo reale. Che Guevara era per loro un rompiscatole che avrebbe messo in discussione anche lo status quo raggiunto dopo la rivoluzione, un teorico della trotzkiana «rivolta permanente», un personaggio difficilmente addomesticabile.
Molto tempo dopo, verso la metà degli anni Ottanta, non pochi si sorpresero quando il «Che» venne celebrato anche dalla Nuova Destra. Ma se la sorpresa era giustificata dal fatto che, politicamente, Che Guevara è da collocare fra i nemici, cioè fra i marxisti, per altri versi l'ammirazione che certi elementi della destra estrema hanno nutrito per lui è più che comprensibile. Che Guevara era un paladino di quell'antiamericanismo che è una delle poche cose che uniscono sinistra extraparlamentare con destra radicale; combatteva le odiate plutocrazie, e soprattutto incarnava quel mito dell'eroe, del guerriero romantico tanto celebrato dalla mistica fascista.
La storia gli ha dato torto. Non tanto perché la Cuba di Castro si è rivelata ben diversa da quel paradiso terrestre che i rivoluzionari credevano e volevano far credere. Ma perché Che Guevara rappresenta la massima espressione dell'utopista, di colui che non vuole accettare né l'impossibilità del sistema perfetto né l'ineluttabilità di un lungo e duro lavoro per un lento (e peraltro sempre parziale) miglioramento delle cose. Rappresenta l'utopista che si illude di cambiare tutto con un solo atto risolutivo, e che ritiene, secondo l'insegnamento di Jean-Jacques Rousseau, che cambiato il regime tutti gli uomini diventeranno buoni.
L'illusorio mito dell'«uomo nuovo» è stato spinto alle estreme conseguenze da questo guerrigliero che, una volta constatati i limiti del sistema che lui stesso aveva contribuito a edificare, anziché fermarsi a lavorare per migliorare il regime ha sempre preferito andare alla caccia di altre rivoluzioni, e quindi di altri paradisi terrestri.
Ha scritto l'insospettabile Giulio Savelli nel venticinquesimo anniversario della morte: «Avrei preferito che Guevara, uomo onesto, fosse ancora vivo (avrebbe solo sessantaquattro anni): per spiegarci dove i rivoluzionari cubani avevano sbagliato e per distogliere i giovani dal seguirne l'esempio. Ma fino a questo punto Guevara non ebbe coraggio. Come molti suoi compagni dell'originario gruppo guerrigliero che, per continuare a tacere, hanno preferito togliersi la vita».
Così scrive oggi l'ex editore-rivoluzionario Savelli. Ma per anni il volto del guerrigliero Guevara, con basco e stella rossa, è stato un'icona immancabile nelle case di centinaia di migliaia di giovani.

BENVENUTI ALLUCINOGENI

Ma se una delle anime del Sessantotto fu appunto incarnata dall'ideologo imbottito di fede nel Progresso e nella Ragione, un'altra anima fu, al contrario, quella del «drogato», cioè di chi fugge dalla realtà. Diciamo «drogato» fra virgolette pensando a certi slogan come «l'immaginazione al potere» e al rifiuto di pensare o accettare qualsiasi forma di ordine costituito.
Ma bisogna parlare di droga anche senza usare le virgolette. Perché il decennio del Sessantotto è stato il primo momento in cui la droga, in Occidente, è diventata un fenomeno di massa. Entrando pesantemente nella vita comune di milioni di persone.
E non solo per la formidabile rete distributiva messa a punto da grandi organizzazioni criminali. Già nel Medioevo la droga fu massicciamente importata dall'Oriente. Ma non attecchì, probabilmente perché la cultura popolare espressa dalla cristianità medievale non costituiva un humus fecondo per la sua diffusione. Se alla fine degli anni Sessanta la mafia, e chi per lei, hanno deciso di riconvertire la propria attività passando al narcotraffico, è -invece- perché i tempi erano maturi.
Gli stupefacenti erano infatti visti -agli albori della contestazione- come un mezzo di liberazione personale e persino di emancipazione delle masse. E furono proprio i profeti del pre-Sessantotto a battersi per la loro diffusione.
I Beatles, Graham Greene, illustri cattedratici, intellettuali, attori famosi firmarono nel 1967 sul «Times» una petizione per la liberalizzazione della marijuana: e la richiesta venne appoggiata da un editoriale dell'autorevolissimo quotidiano londinese.
Droghe leggere? No: gli stessi Beatles dedicarono addirittura un inno al micidiale acido lisergico, più noto come Lsd: la canzone si chiamava Lucy in the Sky with Diamonds, e le iniziali delle tre parole principali, come si vede, erano già un messaggio.
L'Lsd, scoperto per caso nel 1943 dal ricercatore Albert Hofmann, che stava tentando di realizzare uno stimolatore cardiovascolare, era un allucinogeno potentissimo, in grado di far compiere, come si dice in questi casi, autentici «viaggi» fuori da sé.
Così lo stesso Hofmann ha raccontato la sua scoperta: «Una goccia, o almeno una traccia lievissima, mi cadde casualmente sulla pelle, che la assorbì. La sensazione fu fortissima, netta: all'improvviso, la percezione del mondo esterno si modificò radicalmente, tutti i miei organi ne furono intensamente stimolati. Ebbi l'impressione di essere diventato una parte del mondo esterno, di non essere più un elemento separato».
Per più di vent'anni l'Lsd fu usato solo in medicina, e con mille cautele; poi cominciò a circolare, negli Usa, in ambienti esclusivi. Fu Cary Grant, con un'intervista a «Life», a farla diventare un «caso», dicendo di aver finalmente risolto, grazie all'Lsd, i suoi problemi sessuali. E la giornalista Jean Dunlap confermò, raccontando in un libro -naturalmente diventato subito un best-seller- non solo di aver vinto la frigidità, ma di vivere, per merito dell'Lsd, straordinarie esperienze erotiche.
Il vero «profeta» di questo allucinogeno fu però un professore di Harvard, Timothy Leary, che sperimentò l'Lsd con i suoi studenti. Lui stesso dice che questa sostanza che permette di vedere forme strane e immagini psichedeliche, di sentirsi senza peso e di «dialogare» con la mente, «ha prodotto la grande controcultura» di quegli anni.

Quella «controcultura», e insomma il clima della contestazione, favorirono l'uso delle droghe, trasformando in fenomeno di massa quello che fino a quel momento era sempre rimasto un vizio d'élite. Ci vollero anni perché una certa sinistra potesse capire il grande errore compiuto alla fine degli anni Sessanta.
Fu proprio Feltrinelli -il più grande, autorevole e combattivo editore della sinistra rivoluzionaria di quegli anni– a pubblicare nel settembre del 1967 il libro Lsd, la droga che dilata la coscienza, affidando l'introduzione proprio a Timothy Leary. Il libro, che segnò non poco una generazione, dava all'uso della droga una valenza ideologica e anche politica. «Per l'uomo moderno» si legge nella quarta di copertina «l'Lsd e droghe analoghe come la psilocibina e la mescalina possono forse rappresentare proprio ciò che per gl'indiani d'America sono stati i funghi e il peyote: delle armi di difesa spirituale, dei mezzi per sopravvivere all'incalzare sempre più alienante della civiltà tecnologica. Forse questi agenti ci abbisognano per preservare la nostra umanità minacciata dalla standardizzazione, per poter penetrare a piacimento in certe regioni del nostro pensiero che sono brutalmente escluse dalla vita di tutti i giorni.»
E nella prefazione il curatore dell'opera, David Solomon, scriveva: «Le droghe psichedeliche... sono in grado di spalancare le "porte della percezione", spesso potenziando una capacità di penetrazione che permette di vedere oltre la miriade di pretese e di illusioni che costituiscono la mitologia della Posizione Sociale. Le sostanze psichedeliche, quindi, nella misura in cui le strutture del potere, per puntellare e stabilizzare le loro egemonie, poggiano sull'accettazione popolare controllata del mito della Posizione Sociale, rappresentano veramente una sorta di minaccia politica.
«Per fortuna, tuttavia, solo la società più statica e repressiva ha motivo di preoccuparsi della sovversione psichedelica. In realtà le sostanze chimiche per la dilatazione della coscienza non costituiscono un pericolo per una struttura orientata in senso democratico, ma anzi le offrono motivi di speranza e di incoraggiamento».
L'Lsd non ebbe vita lunga: ma aprì una strada in cui si infilarono le droghe di massa, lo spinello e la ben più micidiale eroina.

L'UTERO E' MIO

Con il Sessantotto, ma destinata ad andare oltre il Sessantotto, esplose in Italia la questione femminista.
Già discriminate dal sistema economico (nel 1975 i salari delle donne erano in media più bassi del 12 per cento di quelli degli uomini, e i lavori più umili erano affidati per il 67 per cento alle donne e per il 23 per cento ai maschi), e sofferenti per le frustrazioni imposte dalla vita della casalinga, le donne si accorsero che anche il «movimento» dell'estrema sinistra conservava un'impronta maschilista.
Escluse dalle leadership dei gruppi rivoluzionari, e relegate a ruoli di secondo se non di terzo piano nelle assemblee, le donne ritennero di essere state prese in giro, e di essersi trasformate, da «angeli del focolare», in «angeli del ciclostile». Al massimo, insomma, le mettevano a stampare volantini.
A partire dal 1970, soprattutto nelle grosse città, nacquero così i gruppi femministi organizzati, che si differenziarono per la scelta degli obiettivi.
Rivolta femminile si batteva contro quella che chiamava la dominazione del maschio all'interno della famiglia; Lotta femminista lanciò la campagna per «il salario alle casalinghe»; l'Udi, Unione donne italiane, legata al Pci, lavorò per introdurre nella legislazione nuove norme a tutela delle donne nelle fabbriche; il Mld, Movimento di liberazione delle donne italiane, vicinissimo al Partito radicale, fece della battaglia per i diritti civili il suo principale campo d'azione.
Tutti i vari gruppi, poi, ovviamente, si trovarono compatti nell'invocare una legge che depenalizzasse l'aborto. La richiesta femminista era anzi, in materia, la più radicale: aborto libero e gratuito per tutte, senza limiti alcuni. «L'utero è mio e lo gestisco io», era la parola d'ordine.
Fiorirono anche i giornali di area: «Sottosopra», «Differenze», «Nuova dwf-donnawomanfemme», «Quotidiano donna», «Le operaie della casa», «...E siamo tante ...», «Lilith».

Contrariamente ad altri movimenti stranieri, e similmente a quanto accadeva negli Stati Uniti, il femminismo italiano non puntò tanto sull'uguaglianza dei diritti fra uomo e donna, ma sul cosiddetto «separatismo». Diceva il manifesto di Rivolta femminile nel luglio del 1970: «La donna non va definita in rapporto all'uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. L'uomo non è il modello a cui adeguare il processo di scoperta di sé da parte della donna. La donna è l'altro rispetto all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna».
Luoghi di riscatto erano i «collettivi di autocoscienza», e le assemblee femministe, dalle quali gli uomini erano categoricamente esclusi. Lo slogan, mutuato dal gruppo americano «Now», era «Il personale è politico». La rivoluzione, insomma, doveva cominciare nei rapporti con il marito, il fidanzato, i bambini. In questi campi la donna doveva, si diceva, «emanciparsi».
Ancora dal manifesto di Rivolta femminile: «Verginità, castità, fedeltà non sono virtù: ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia... Nel matrimonio la donna, privata del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto fra il padre di lei e il marito... Riconosciamo nel matrimonio l'istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio... La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante».
Il manifesto si concludeva perentoriamente: «Comunichiamo solo con donne». Una decisione che portò a non pochi scontri fra le femministe e gli uomini del movimento. Uno di questi fu il 6 dicembre del 1975, quando un gruppo di maschi di Lotta continua «disturbò» una manifestazione di ventimila femministe per le strade di Roma, tentando di forzare il servizio d'ordine per infilarsi nel corteo. La sera stessa, femministe furenti occuparono per ritorsione la sede nazionale di Lotta continua.
E una delle battaglie principali delle femministe fu la cosiddetta «liberazione sessuale». Le donne si ritenevano usate come oggetti dagli uomini, e impossibilitate a essere «soggetti attivi» persino sotto le lenzuola.
Sempre dal manifesto di Rivolta femminile: «Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità un'alternativa onorevole. Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l'unica scelta soddisfacente è un rapporto libero. Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali».
In piena logica separatista, le femministe fecero una bandiera politica del ricorso alla masturbazione e al rapporto fra lesbiche, in modo da poter dimostrare l'inutilità del maschio. «Col dito/col dito/orgasmo garantito» fu uno degli slogan più urlati nei loro cortei.

LA COPPIA APERTA

La rivoluzione sessuale (forse l'unica rivoluzione di quegli anni ad avere vinto, vista la profonda modificazione, oggi, dell'etica comune in questo campo) era peraltro già stata intrapresa anche da altri, con la teorizzazione della «coppia aperta».
L'utopismo giacobino del tempo aveva portato a ritenere che «l'uomo nuovo» avrebbe debellato anche il «sentimento borghese» della gelosia, e che quindi nessuno avrebbe più sofferto quando il partner si fosse permesso ogni genere di libertà. In realtà, per citare ancora una volta Paul Ginsborg, certo non sospettabile di bigottismo, «in nome della liberazione nascevano nuove forme di oppressione: la più rilevante fu l'obbligo alla libertà sessuale».
E la rivoluzione sessuale, che aveva fra i suoi fini il riscatto di una donna che si sentiva «oggetto», ha portato -viceversa- al massimo della mercificazione della donna. E' di quegli anni l'esplosione, ad esempio, della pornografia. E a far cambiare in senso più «liberale» i costumi non furono estranei uomini di cultura dichiaratamente «di sinistra». Ultimo tango a Parigi, il film plurisequestrato diventato famoso soprattutto per la scena-chiave della sodomizzazione con il burro fra Marlon Brando e Maria Schneider, era del regista Bernardo Bertolucci. E il romanzo erotico Emmanuelle, diventato poi un film di successo, fu tradotto in Italia da Goffredo Fofi, uno degli animatori dei «Quaderni Piacentini» e fra i maitre-à-penser della contestazione. «Sì, l'ho tradotto io, ma me ne vergogno» ha detto Fofi in un'intervista alla «Stampa» del 15 agosto 1992: «Il fatto è che la pornografia ha poi vinto. Quella che sembrava allora una battaglia antiborghese era una guerra finta: la pornografia ha invaso tutto, ha conquistato il mercato, è uno strumento di massificazione».

La stessa distruzione della famiglia, allora teorizzata, viene oggi ripensata criticamente dai più sensibili: e Luciana Castellina (ex Pdup, poi Rifondazione comunista), che in quegli anni aveva definito «prostitutorio» ogni rapporto fra uomo e donna, nel «Corriere della Sera» del 15 settembre 1992 ha definito «molto ingiusta» quell'affermazione, aggiungendo: «Essere casalinga può essere infinitamente più interessante che non andare a massacrarsi in fabbrica. E' più interessante far figli che far mattonelle».
Lo stesso Pier Paolo Pasolini già nel luglio del 1974 aveva avvertito i rischi di una certa mentalità, scrivendo sul «Mondo»: «E' stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita edonistico che ha determinato il trionfo del "no" al referendum sul divorzio». Il «no», lo ricordiamo, stava per «no all'abrogazione della legge sul divorzio», e quindi significava «si al divorzio».
E come non riflettere sul fatto che fu proprio negli anni immediatamente successivi alla «rivoluzione sessuale» che esplose e si diffuse il virus dell'Aids?
Una fonte non sospettabile di vetero-clericalisrno, il fotografo Oliviero Toscani, allora «impegnato» a sinistra e oggi noto soprattutto per le sue scandalose foto pubblicitarie, ha scritto sull'«Europeo» del 12-26 marzo 1993: «Io ricordo gli anni '70 più che altro come il grande laboratorio nel quale è stato pensato e messo a punto il virus dell'Aids: anni di assoluta promiscuità sessuale. (...) Ogni combinazione era lecita, qualsiasi iniziativa incoraggiata».


XIII - VERSO LA FINE

Il 1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia.
Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all'atteggiamento verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario, della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi, del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile.
Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.

LA CRISI DEI GRUPPI

Di questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione.
I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito «movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua.
E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto, si sciolse.
Il 20 giugno c'erano state le elezioni politiche, e i risultati erano stati, per l'estrema sinistra, disastrosi. Democrazia proletaria, l'unica lista che avrebbe dovuto rappresentare gli eredi della contestazione del Sessantotto, aveva preso solo 557.000 voti, l'1,5 per cento, meno della metà di quanti sperava. E i radicali, pur entrando per la prima volta in Parlamento, non erano andati oltre l'1,1 per cento.
Ma più che la constatazione della modestia della propria forza, a deprimere l'area della sinistra rivoluzionaria fu lo straordinario consenso elettorale -e quindi popolare- ancora una volta riscosso dalla Democrazia cristiana, che aveva ottenuto il 38,7 per cento, cioè il 3,7 per cento in più rispetto alle elezioni amministrative dell'anno precedente. Un risultato che smentiva la previsione, più volte espressa, di un ormai imminente crollo della Dc, e che costringeva a un rinvio sine die della rivoluzione.
Certo: aveva guadagnato anche il Pci, in continua crescita, passando dal già rilevantissimo 33 per cento del 15 giugno 1975 al 34,4 per cento del 20 giugno 1976. Ma questo non era, per l'estrema sinistra, una consolazione. Anzi: come ricorda l'ex di Lotta continua Luigi Bobbio, «l'ulteriore rafforzamento del Pci non apre la strada a un'alternativa di potere alla Democrazia cristiana, ma prefigura piuttosto un processo di stabilizzazione giocato su due grossi poli convergenti. Il quadro che esce dal 20 giugno non è quello del "governo delle sinistre"; se mai, è quello del "compromesso storico"» (Storia di Lotta Continua).
Lo smacco fu tale che Adriano Sofri parlò, al Comitato nazionale, di «sconfitta politica» e definì le previsioni elettorali di Lc «l'errore più clamoroso della nostra storia». Ancor più drastico fu Marco Boato, che lasciò intravedere l'ormai prossimo autoscioglimento: «Siamo a una svolta storica in cui si decide della vita e della morte di Lotta continua. Abbiamo sbagliato tutto. Un partito rivoluzionario che sbaglia tutto nella fase che ha definito storica e decisiva della lotta di classe nel nostro Paese non può permettersi di uscirne con qualche aggiustamento di tiro».

EUTANASIA DI LOTTA CONTINUA

La batosta elettorale di Democrazia proletaria non era l'unico grattacapo di Sofri e compagni. All'interno del movimento il dissenso cresceva, anche e soprattutto perché mal si tollerava la scimmiottatura dei partiti tradizionali, che come detto aveva snaturato l'originale spirito movimentista. E' ancora Luigi Bobbio a ricordare: «Il partito... diviene il principale bersaglio dei militanti, non tanto per le scelte compiute, quanto per essersi costituito come autorità superiore e averli quindi trascinati in quell'avventurosa separazione. Il termine "espropriazione" è quello che ricorre di più nelle requisitorie, spesso cariche di recriminazioni, formulate dai compagni della base».
E ad aggravare la situazione interna si aggiunse la questione delle donne e degli operai. Le prime -si era ormai in pieno clima femminista- da un anno avevano preso a riunirsi da sole e a praticare l'«autocoscienza». I secondi rimproveravano al nucleo dirigente di aver smarrito la «centralità operaia». Donne e operai si erano così posti alla testa della rivolta contro la linea dei vertici di Lc.
Fu in questo clima che si aprì a Rimini, il 31 ottobre 1976, il secondo congresso nazionale di Lotta continua, a cui parteciparono un migliaio di militanti. Invano Sofri cercò di ricompattare le forze.
Donne e operai continuarono a riunirsi, anche durante il congresso, in assemblee separate. Sul banco degli imputati, la dirigenza di Lc. La compagna Vichi di Torino intervenne invitando gli operai «a mettersi in discussione a partire dal loro rapporto sessuale e dalla loro vita», e la compagna Laura, anche lei di Torino, dichiarò che «non è possibile nessuna alleanza in questo momento fra operai e donne».
Il congresso finì senza alcun ricompattamento. Il giornale «Lotta continua» lo definì, il giorno dopo la chiusura, una «straordinaria esperienza politica e umana». Il titolo del giornale del 6 novembre 1976 fu: Apriamo ovunque le nostre contraddizioni. Portiamo ovunque la ricchezza del nostro congresso. Ma il destino di Lotta continua era segnato. Pur senza alcun atto ufficiale, il movimento si sciolse. Il comitato nazionale smise di riunirsi, gli organi dirigenti non vennero rinnovati, le federazioni furono abbandonate a se stesse. Rimase in vita il giornale, che continuò a uscire fino al 1982; si videro ancora, nei cortei, gli striscioni con la scritta «Lotta continua». Molti giovani continuarono a rivendicare la propria appartenenza a quel movimento. Ma il movimento, inteso come organizzazione, non c'era più.
Molto si è discusso sul perché della fine di Lotta continua. Certo la struttura, da partito, era rifiutata da gran parte della base. Certo la questione femminista ebbe un peso rilevante.
Ma il fatto che i vertici di Lc non fecero, dopo Rimini, alcun tentativo di salvare il movimento, e anzi lo lasciarono deliberatamente morire, dà credito alla versione secondo cui il vero motivo dell'autoscioglimento di Lotta continua sta nell'inquietudine di molti militanti che «spingevano» affinché si passasse decisamente alla lotta armata. Sofri, già da tempo drasticamente risoluto nel condannare la scelta delle Brigate rosse, cercò di frenare queste pulsioni, tentò di isolare coloro che chiedevano di trasformare Lc in un gruppo clandestino terroristico. Ma non ci riuscì. E allora sciolse il movimento.
E' una versione, questa, mai ufficializzata, e anzi smentita dai capi di Lc, che associano sempre la fine dei movimento alla «questione femminista». A dimostrare però che la spinta verso la lotta armata c'era, sta il fatto che gran parte dei componenti della nascente Prima linea veniva da Lotta continua.

PROLIFERA IL PARTITO ARMATO

Non era un problema solo di Lotta continua. Il partito armato stava facendo proseliti un po' dappertutto, ed ebbe la sua parte nello sfaldamento dei vari movimenti. Pareva non avesse più senso, infatti, chiamarsi «gruppi rivoluzionari», distinguendosi dai partiti della sinistra tradizionale, e non fare la rivoluzione. Sembrava più logica una scelta netta: o di qua, con il Pci, o di là, con le Brigate rosse. E infatti, in quello stesso 1976 in cui i gruppi si sciolsero, crebbero sia il Pci che le azioni dei terroristi di sinistra.
Costoro avevano subito un duro colpo, all'inizio dell'anno, con la cattura (a Milano) di Renato Curcio e Nadia Mantovani. Ma avevano in quegli stessi mesi ingrossato le file, proprio attingendo nel grande mare dei «delusi» dai gruppi tipo Lotta continua. Fra le azioni più importanti compiute nel '76, una serie di attentati alle fabbriche (il più grave fu forse l'incendio alla Fiat Mirafiori, 3 aprile, un miliardo di danni di allora), che indussero gli operai di molte aziende a trascorrere la Pasqua negli stabilimenti per organizzare dei «presidi volontari». E poi l'uccisione, ad opera di militanti dell'Autonomia che stavano per costituire Prima linea, del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi (29 aprile); l'omicidio del procuratore generale di Genova Francesco Coco e dei due carabinieri della scorta, compiuto dalle Brigate rosse a Genova l'8 giugno; l'omicidio, il 1° settembre a Biella, del vicequestore Francesco Cusano, anche lui vittima delle Br; l'agguato dei Nap al capo del nucleo antiterrorismo del Lazio Alfonso Noce (a Roma, il 14 dicembre) che finì in una sparatoria in cui rimasero uccisi l'agente Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichitella; l'altra tragica sparatoria, il giorno dopo a Sesto San Giovanni, in cui il brigatista Walter Alasia uccise il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, prima di rimanere a sua volta fulminato dai poliziotti.
Il partito armato -e in particolare le Br, decisamente passate sotto la guida di Mario Moretti- stava preparando il «salto di qualità» che lo avrebbe più volte portato, negli anni successivi, a mettere in ginocchio lo Stato.

BERLINGUER E IL COMUNISMO MODERATO

Proprio mentre i gruppi rivoluzionari dichiaravano la bancarotta e le Br diventavano sempre più efficienti, il Partito comunista si trovò vicino alla presa del potere come mai era stato in precedenza, e come mai più accadde in seguito.
Le elezioni del 1975, oltre a far compiere al Pci un balzo di 6 punti e mezzo in percentuale (rispetto alle amministrative del 1970), avevano portato i comunisti al governo di Lombardia, Piemonte e Liguria, oltre che a quello di regioni già «rosse» come l'Emilia Romagna, la Toscana e l'Umbria. Non solo: tutte le grandi città italiane, ad eccezione di Palermo e Bari, erano passate sotto la guida di giunte di sinistra.
A favorire questo grande balzo del Pci aveva contribuito in modo sensibile la linea politica del suo segretario, Enrico Berlinguer, che si era conquistato la benevolenza di una discreta parte dei ceti borghesi, rinnegando esplicitamente il socialismo reale e dichiarandosi disponibile a una collaborazione con i cattolici.
Già nell'ottobre del 1973, con un articolo su «Rinascita», Berlinguer aveva proposto il «compromesso storico» fra le due forze popolari del Paese, quella della sinistra e quella appunto cattolica. Un'idea maturata dopo il colpo di Stato che in Cile aveva spazzato via il governo socialista di Salvador Allende: Berlinguer era convinto che il golpe era stato favorito dalla mancata unità dei partiti democratici. L'articolo su «Rinascita» si intitolava appunto Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile.
E a questa proposta di abbraccio con la Dc, Berlinguer fece seguire, insieme con i segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo, la creazione dell'«eurocomunismo», ossia di una via occidentale al socialismo, nettamente diversa dalle spietate dittature dell'Est. Il documento che i segretari comunisti italiano e spagnolo firmarono insieme il 12 luglio 1975 era un'autentica apostasia del marxismo-leninismo.

Ma se in Italia parte della borghesia smise di associare il Pci allo spauracchio dell'Armata Rossa, negli Stati Uniti l'eurocomunismo non venne accolto bene. Anzi, fu ritenuto pericolosissimo e destabilizzante. Il 14 giugno 1976, a pochi giorni dalle elezioni politiche, il prestigioso settimanale americano «Time» pubblicò in copertina una foto di Berlinguer e il significativo titolo: Italia: la minaccia rossa.
Berlinguer si diede subito da fare per tranquillizzare gli italiani, e il giorno dopo rilasciò a Giampaolo Pansa, sul «Corriere della Sera», un'intervista in cui si impegnava, in caso di vittoria elettorale, a mantenere l'Italia all'interno della Nato. «Mi sento più sicuro stando di qua» disse. Un'affermazione storica per il segretario di un partito comunista.
La tradizionale avversione degli italiani al comunismo rimaneva tuttavia molto forte, e se è vero che da un lato una certa parte della borghesia credette che il Pci fosse ormai un partito socialdemocratico, dall'altra si fece muro contro il «pericolo rosso». La Dc fu ritenuta da tutti la barriera più efficace, anzi la sola barriera possibile: e anche grazie alla campagna promossa dal laico Indro Montanelli («Queste non sono elezioni, sono un referendum: turiamoci il naso e votiamo Dc» scrisse sul «Giornale»), alla mobilitazione dei cattolici di Comunione e liberazione e al travaso di voti dall'estrema destra (il Msi perse un 3 per cento che affluì, evidentemente, alle liste democristiane), la Dc riuscì a contenere l'avanzata del Pci e a restare saldamente il partito di maggioranza relativa.
Nonostante la sfida elettorale, subito dopo si aprì la stagione della collaborazione fra democristiani e comunisti, che culminò nei vari governi della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale»: esecutivi a guida Dc a cui il Pci diede un appoggio esterno.

ARRIVA L'AUTONOMIA

Dopo la fine dei gruppi organizzati la sinistra, come abbiamo visto, si era divisa in due: da una parte il Pci, ormai ben inserito nel potere grazie alla conquista di gran parte delle amministrazioni locali e alla collaborazione di governo con la Dc; dall'altra il partito armato.
Ma la distanza fra Pci e Br era troppo grande, e in mezzo restava comunque un vuoto. Un vuoto in cui si infilò la cosiddetta autonomia, un'area molto complessa e in realtà spesso contigua alle formazioni terroristiche vere e proprie. Rispetto alle Br, l'autonomia non faceva un'esplicita scelta di lotta armata, non era costretta alla clandestinità e poteva agire alla luce del sole. Era però, come si diceva allora, «l'acqua dove nuotano i pesci»: l'ambiente, insomma, dove il partito armato poteva reclutare i suoi militanti e ottenere importanti appoggi e coperture.
Secondo alcuni osservatori, l'incubatrice dell'autonomia fu l'occupazione della Fiat Mirafiori del 1973: sia perché sfuggì totalmente alla guida del sindacato e del Pci, sia perché a gestirla furono, più che i tradizionali operai Fiat emigrati dal Sud, giovani della «cintura» torinese protagonisti, cinque anni prima, del Sessantotto nelle scuole. «Le urla senza senso, senza più slogan, senza più minacce né promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato intorno alla fronte, i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano che una nuova stagione si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia. Una fase senza ideologie progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna affezione per il sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti della rivoluzione proletaria, mostrava le sue prospettive. Fu in questo mutamento di scenario che prese forma il nuovo fenomeno politico-culturale dell'autonomia operaia» hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni.
Un altro sintomo premonitore dello stile dell'autonomia furono forme di protesta tipo l'«autoriduzione» e gli «espropri proletari».
L'autoriduzione nacque nell'agosto del 1974 su iniziativa di alcuni operai della Fiat Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono alla società dei trasporti pubblici l'equivalente dei vecchi abbonamenti, e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman si passò all'autoriduzione delle bollette della luce e del telefono. Questa pratica si estese poi alle altre città, diventando spesso un puro pretesto per non pagare il biglietto: non solo sugli autobus, ma anche, ad esempio, al cinema, dove gruppi di estremisti assistevano alle prime visioni pagando 500 lire, e i gestori delle sale lasciavano correre temendo ritorsioni dai danni ben più gravi. Così come gli «espropri proletari» ai danni dei negozianti (qualcuno arrivò a chiamarli «riappropriazioni») furono in realtà autentici furti, o addirittura rapine quando compiuti con minacce e violenze.

Fare una mappa dell'area autonoma è ben più difficile che non fare quella dei gruppi nati dopo il 1968. Anzi, è un'impresa impossibile, essendo gli autonomi per loro stessa definizione sganciati da qualsiasi organizzazione.
Si possono tuttavia, schematizzando, ricordare tre filoni.
Il primo è quello cosiddetto «creativo», «spontaneo», alieno da ogni forma di gerarchia. Di questo filone, gli elementi più rappresentativi furono gli «indiani metropolitani», giovani che si dipingevano il viso, appunto, come i pellerossa, e che rifiutavano, fra le tante etichette, anche quella di essere «di sinistra».
Il secondo filone è quello delle teste d'uovo: intellettuali che teorizzarono il nuovo messaggio, e che erano concentrati soprattutto all'Università di Padova e in una serie di librerie nelle maggiori città.
Il terzo filone è quello che fa capo all'Autonomia operaia organizzata (con la A maiuscola; quando scriviamo autonomia con l'iniziale minuscola intendiamo invece tutta l'area che stava in mezzo fra Pci e Br; l'area, insomma, che comprende tutti e tre i filoni di cui stiamo parlando). L'Autonomia operaia organizzata conservò una linea leninista e militarista, esplicitamente favorevole alla cultura della violenza e all'organizzazione della «battaglia contro lo Stato». Questo terzo filone, strettamente legato al secondo, aveva come leader ex esponenti di Potere operaio, quali il docente universitario Toni Negri e Oreste Scalzone.
A sua volta, l'Autonomia operaia organizzata aveva varie sfumature al suo interno, che si esprimevano in un'incontrollabile quantità di correnti, fra le quali ricordiamo i Comitati autonomi romani; i Comitati comunisti rivoluzionari; le Assemblee autonome operaie; i Cps, Collettivi politici studenteschi; i Collettivi autonomi, presenti nelle grandi città (famoso quello di via dei Volsci a Roma).
L'area dell'autonomia produsse anche una miriade di giornali: alcuni di fabbrica come «Senza Padroni» all'Alfa Romeo, «Lavoro Zero» a Porto Marghera, «Mirafiori Rossa» a Torino; e altri di maggiore diffusione come «Aut Aut», «Primo Maggio», «Rosso» e «Senza Tregua» a Milano, «Potere Operaio per il Comunismo» (poi trasformato in «Autonomia») in Veneto, «Rivolta di Classe» (poi diventato «I Volsci»), «Metropoli» e «Pre-print» a Roma. Quello che ebbe maggiore fortuna fu «A/traverso», fatto a Bologna dal gruppo di Francesco Berardi detto «Bifo», che nel '77 arriverà alle 20.000 copie.
Questa nascente area dell'autonomia si poneva in forte contrasto con il Pci, cui rimproverava di essere ormai «sistema».
La sinistra si spaccò fra «garantiti» e «non garantiti», cioè fra coloro che nelle fabbriche potevano contare sull'«ombrello» del Pci e i giovani che, viceversa, non trovavano lavoro o perdevano quello che avevano appena trovato. Arrivato ormai nel «palazzo», il Pci non volle, o non poté, cavalcare la protesta dei «non garantiti», e anzi passò al pugno di ferro contro questi nuovi contestatori: ad esempio, schierandosi a favore del rinnovo di quella legge Reale sull'ordine pubblico contro la quale aveva invece nel 1975 votato «no».
Lo scontro fra autonomi e Pci esploderà drammaticamente nel 1977, e risulterà, alla fine, ancora più grave e più violento di quello fra lo stesso Partito comunista e i sessantottini.


XIV - IL SETTANTASETTE

Mentre sono ormai consuete, alle ricorrenze canoniche, le rievocazioni del Sessantotto, quasi mai si ricorda il movimento del 1977.
Eppure, quello fu l'anno più burrascoso del decennio. Le occupazioni delle scuole e delle università tornarono a un ritmo molto vicino a quello del 1968; e, rispetto al 1968, le manifestazioni di piazza furono molto più violente: basti pensare che, alla fine dell'anno, ci furono quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati e decine di morti e feriti.
Autonomi e indiani metropolitani si sentivano tagliati fuori da tutto e da tutti. Non solo dal Pci, che aveva coniato lo slogan «la classe operaia si fa Stato» e che poteva offrire ai suoi iscritti la tutela del posto di lavoro; ma anche dai sessantottini, visti come patetici reduci che s'appuntavano sul petto medaglie di una rivoluzione mai fatta, e che ormai beneficiavano a loro volta del nuovo sistema. All'Università Statale di Milano il Movimento lavoratori per il socialismo, nato dalle ceneri del Movimento studentesco, aveva acquisito posizioni importanti in termini di potere ma anche di posti di lavoro, essendosi assicurata la gestione della libreria e della cooperativa universitaria. E' solo un esempio, per far capire come i «settantasettini» si sentissero dimenticati e traditi non solo dallo Stato, ma anche da quella sinistra -Pci e gruppi del '68- che aveva promesso il cambiamento e che si era invece limitata, ai loro occhi, a guadagnare posizioni all'interno dell'odiato «regime».
Per questo la loro rabbia esplose violentissima.

LA CACCIATA DI LAMA

La recrudescenza degli scontri di piazza del '77 aveva avuto un prologo il 7 dicembre del '76 a Milano, quando i Circoli proletari giovanili e i Circoli giovanili (il lettore non pensi a un errore: erano proprio due formazioni diverse) avevano boicottato la tradizionale «prima» della Scala.
Come otto anni prima, si voleva contestare lo spreco di denaro dell'alta borghesia milanese, che in piena crisi occupazionale si permetteva centomila lire -di allora- per un biglietto dello spettacolo di inizio stagione (questa volta era di scena l'Otello), e chissà quant'altro denaro per le spese di sartoria. Questa volta, però, i contestatori di Sant'Ambrogio non si limitarono al tutto sommato innocuo lancio di uova di Capanna e compagni; questa volta fu una guerriglia, che impegnò cinquemila fra poliziotti e carabinieri, e che si concluse con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti e decine di tram e di automobili incendiate.

Nel '77 la tensione si spostò però soprattutto a Roma e a Bologna.
A Roma, il l° febbraio era stata occupata l'Università. Il pretesto era una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti, democristiano, che vietava agli studenti universitari di sostenere più esami nella stessa materia. Che di un pretesto si trattasse, lo dimostra il fatto che l'occupazione continuò anche dopo il ritiro della circolare da parte dello stesso Malfatti.
Gli occupanti non erano però uniti. Pci, Democrazia proletaria e Avanguardia operaia contestavano la linea dell'Autonomia, protagonista di scontri in città con estremisti di destra e polizia. Ma era proprio l'Autonomia ad avere in pugno la gestione dell'occupazione. Il 9 febbraio, il movimento del '77 fece il suo esordio con un corteo, per le strade di Roma, di trentamila studenti. «Il Manifesto» criticò («Gli autonomi sono la faccia più negativa, e vecchia, della nuova sinistra»), la Cgil e il Pci organizzarono un comizio di Luciano Lama, per il giorno 17, all'interno dell'Università, nel tentativo di riprendere in mano la situazione.
Ma Lama, il 17, non riuscì praticamente a parlare. Gli autonomi glielo impedirono, ingaggiando una furiosa battaglia con il servizio d'ordine del Pci, al grido «Via, via, la nuova polizia». Alla fine di scontri violentissimi, con decine e decine di feriti, i comunisti dovettero abbandonare l'Università. La manovra del Pci era fallita, gli autonomi si erano rivelati «ingestibili»: per i vertici di Botteghe Oscure, erano «i nuovi squadristi».
La cacciata di Lama dall'Università aveva così dato vigore al movimento degli autonomi, che alla fine di febbraio si era già diffuso in molte città italiane, in particolare a Padova, dove l'Università era stata occupata.
Il 5 marzo il movimento diede una prova di forza scatenando per le strade di Roma quattro ore di guerriglia, per protesta contro la condanna di Fabrizio Panzieri per l'omicidio dello studente missino Mikis Mantakas. I raid degli estremisti furono coordinati da un'emittente privata, Radio Città Futura, che inaugurò così una strategia destinata a più d'una replica nel corso dell'anno. Grazie alla radio, gli autonomi sapevano dov'era la polizia, dove potevano raggiungere i compagni, dove conveniva organizzare barricate e mettere fuori uso i semafori.

GUERRIGLIA A BOLOGNA

E guerriglia ancora più grave fu quella scoppiata l'11 marzo a Bologna.
All'istituto di anatomia dell'Università era in programma un'assemblea dei cattolici di Comunione e liberazione. Fatto assolutamente intollerabile, per un movimento che si riempiva la bocca con la parola «democrazia» ma che non ammetteva altre manifestazioni di pensiero al di fuori della propria.
E infatti i ciellini furono assediati e costretti a barricarsi all'interno dell'istituto. Ancora oggi circola la versione secondo cui gli incidenti sarebbero scoppiati perché i ciellini avrebbero malmenato alcuni studenti del movimento che si erano semplicemente presentati all'ingresso dell'aula dov'era in corso l'assemblea. Ma per male che si possa o si voglia dire dei ciellini, non s'è mai sentito di pestaggi da loro compiuti. Valga il volantino diffuso lo stesso pomeriggio dal Pci e dalla Fgci, che parlava di «un'inammissibile decisione di un gruppo della cosiddetta Autonomia di impedire l'assemblea di CL».
E comunque la realtà fu quella: i ciellini barricati in un'aula, e fuori gli studenti del movimento, armati e ben più numerosi, a sferrare l'attacco. Inevitabile l'intervento dei carabinieri, contro i quali gli autonomi lanciarono parecchie molotov, a dimostrazione del fatto che all'Università non erano giunti impreparati. La battaglia si allargò, e alla fine negli scontri rimase ucciso il giovane di Lotta continua Francesco Lorusso.
Cominciò così il «sacco» del centro di Bologna. Gli autonomi, che oltre alle molotov avevano già le famigerate pistole «P38», ingaggiarono sparatorie ovunque; distrussero decine di negozi, innalzarono barricate, appiccarono incendi. Fu occupata la stazione ferroviaria; furono assaltati due commissariati di polizia, la redazione del «Resto del Carlino» e la sede provinciale della Dc; fu devastata la libreria di CL «Terra Promessa». I guerriglieri si sfamarono, ed evidentemente non male, al «Cantunzein», uno dei più noti ristoranti della città, le cui riserve furono ripulite con un «esproprio» proletario. Anche qui gli incidenti furono coordinati via etere: e la magistratura ordinò l'arresto di Francesco Berardi detto «Bifo», il ventottenne insegnante di lettere animatore di Radio Alice. Era stato lui, attraverso i microfoni, a guidare assalti e distruzioni, sosteneva la procura della Repubblica. Radio Alice venne chiusa, ma Bifo riuscì a sfuggire all'arresto e a rifugiarsi a Parigi.
Il saccheggio di Bologna durò tre giorni, e per ristabilire l'ordine dovettero intervenire -cosa mai successa neppure nel '68- i mezzi blindati, con tremila uomini a presidiare il centro. Alla fine di quei tre giorni di guerra si contarono 131 arresti. Fu uno smacco storico per il Pci, che vantava la «sua» Bologna come fiore all'occhiello, come dimostrazione di città comunista, efficiente, ordinata e felice.
Il 12 marzo, giorno successivo alla morte di Lorusso, anche Roma divenne un campo di battaglia: gli autonomi saccheggiarono due armerie e partirono all'assalto della città. Attaccarono l'ambasciata cilena in Vaticano, la sede del quotidiano democristiano «Il Popolo», la caserma dei carabinieri di piazza del Popolo, la sede della Gulf, una concessionaria della Fiat, alcune banche. Centinaia di vetrine di negozi vennero abbattute. Sparatorie e incendi si protrassero fino a notte. E, nello stesso 12 marzo, incidenti gravi scoppiarono anche a Napoli, Padova, Firenze, Palermo e Milano, dove a colpi di P38 furono mandate in frantumi le vetrate dell'Assolombarda, la sede regionale degli industriali.

UN PROBLEMA PER LA SINISTRA

Il clima era tale che il 16 marzo l'Università di Roma, quando riaprì, restò presidiata dalla polizia. L'attività poteva comunque riprendere regolarmente. Ma gli studenti del movimento vollero imporre le loro condizioni: immediato allontanamento degli agenti, università aperta dalle 8 alle 22, libera scelta dell'argomento da portare all'esame e 27 trentesimi come voto minimo garantito.
Di fronte allo scontato «no» che fu opposto a queste richieste, gli autonomi rioccuparono l'Università. Il 21 aprile la polizia intervenne e riuscì a sgomberarla, in mattinata, senza particolari incidenti. Nel pomeriggio, però, gli autonomi passarono al contrattacco. Assaltarono l'Università armati di molotov e di P38, uccisero un agente di polizia -Settimio Passamonti, ventitré anni- e ne ferirono gravemente altri due. Il giorno dopo, vista l'eccezionale gravità della situazione dell'ordine pubblico, il governo proibì ogni manifestazione pubblica, a Roma, per un mese.
Incuranti del divieto, i radicali organizzarono proprio a Roma, per il 12 maggio, una manifestazione pubblica per il terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. La polizia intervenne e furono altri scontri, fino a tarda sera: e a cadere, uccisa da un colpo di pistola sparato da un agente, questa volta fu una dimostrante, Giorgiana Masi, vent'anni, simpatizzante radicale.
Due giorni dopo a Milano, durante un corteo di protesta per l'arresto di due avvocati di Soccorso rosso, gli autonomi uccisero in via De Amicis il brigadiere di polizia Antonino Custrà. Fu in quell'occasione che un dilettante scattò la fotografia divenuta l'immagine-simbolo degli anni di piombo: un giovane autonomo, con il volto coperto, sparava impugnando la pistola con entrambe le mani.
L'Autonomia era ormai un problema grave anche per i gruppi alla sinistra del Pci. «Di Autonomia operaia e non solo delle sue violenze ultime occorre liberarsi» scrisse Rossana Rossanda sul «Manifesto» del 17 maggio. E Luca Cafiero, segretario nazionale del Mls: «Noi toglieremo le pistole agli autonomi e gliele faremo ingoiare».

AL BAR SI MUORE

Che il 1977 sia stato un anno di guerra lo testimoniano, oltre al numero degli scontri di piazza, anche le azioni delle Brigate rosse e delle altre formazioni clandestine, che in quell'anno si erano fatte ancor più efficienti e spietate. Il 28 aprile, a Torino, le Br uccisero il presidente dell'Ordine degli avvocati Fulvio Croce: un omicidio-avvertimento nel più classico stile mafioso, perché Croce avrebbe dovuto designare i difensori d'ufficio al processo contro Curcio e altri terroristi; si volle in questo modo intimidire avvocati e giudici popolari, e infatti questi ultimi, il 31 maggio, rifiutarono l'incarico, provocando il rinvio del processo.
Anche i giornalisti finirono nel mirino delle Br. Nel mese di giugno ne furono feriti alle gambe dodici, fra cui Indro Montanelli, il direttore del Tg 1 Emilio Rossi e il vicedirettore del «Secolo XIX» di Genova Vittorio Bruno. E il 16 novembre, a Torino, ancora le Br uccisero il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno, definito un «servo dello Stato».
Quanto alle fabbriche, i dirigenti e i capireparto «gambizzati» in quell'anno furono decine.
Ma per dare un'idea di quanto questa guerra fosse una minaccia costante per tutti, si pensi che il pericolo poteva raggiungere chiunque e ovunque. Come dimostrano la morte di Roberto Crescenzio e i sette feriti del bar di largo Porto di Classe.
L'assalto al bar di largo Porto di Classe a Milano, zona Città Studi, fu opera di commando di Avanguardia operaia e dei Caf, i comitati antifascisti. Scattò il 31 marzo 1976, alle sei di sera.
Il bar era ritenuto un covo di «neri». Quella sera, però, di fascisti all'interno del locale non ce n'era neanche uno.
Gli estremisti -in buona parte erano gli stessi che un anno prima avevano ucciso Ramelli- incendiarono il bar lanciando bottiglie molotov, e sprangarono gli avventori in fuga. In sette rimasero feriti in modo grave, e tre di loro portano ancora oggi i segni del pestaggio. Un atto tanto vile da provocare, nei giorni seguenti, una discussione interna che fu uno dei primi sintomi della crisi di Avanguardia operaia.
Massimo Bogni, uno dei responsabili dell'assalto, in seguito convertitosi al cattolicesimo e sinceramente pentito (si presentò spontaneamente al giudice istruttore), ha raccontato al processo, celebrato nell'87: «Emulavamo gli eroi, Garibaldi e Guevara, e poi eravamo vigliacchi».

Anche Roberto Crescenzio non era un fascista. Aveva ventidue anni, ed era un perito chimico disoccupato. Ebbe la tragica sfortuna di trovarsi, il l° ottobre 1977, al bar l'«Angelo azzurro» di Torino.
Quel giorno Torino, come Roma e altre città italiane, fu sconvolta da nuovi, furibondi scontri fra la polizia e i giovani di estrema sinistra, inferociti per l'uccisione avvenuta il giorno prima a Roma, ad opera di neofascisti, del militante di Lotta continua Walter Rossi.
A un certo punto il corteo passò vicino all'«Angelo azzurro» e qualcuno riferì di aver visto, al liceo Gioberti, una scritta secondo cui quel bar era un punto di ritrovo dei fascisti. Tanto bastò per scatenare l'attacco.
Il locale fu incendiato e gli avventori costretti a fuggire all'esterno. Un bimbo di tre anni e la sua baby-sitter sedicenne rimasero semiasfissiati e furono portati in ospedale.
Roberto Crescenzio restò intrappolato nella toilette. Quando, con le ultime energie, riuscì a spalancare l'uscio, ad attraversare la sala del bar, a sfondare una vetrata e a gettarsi sull'asfalto, all'aperto, il suo corpo era ormai devastato dal fuoco. Ed era troppo tardi.
Anche in questo caso la morte di un innocente (ammesso che altri possano essere considerati colpevoli) provocò una crisi all'interno del movimento. Proprio pochi giorni dopo il rogo dell'«Angelo azzurro» in corso Valdocco qualcuno tracciò su un muro una grande scritta: «E' un momentaccio». Un piccolo, ma non insignificante indizio di un travaglio che i più sensibili cominciavano ad avvertire, e che avrebbe portato, di lì a poco, a un ripensamento da parte di tutti. In fondo non solo la gente comune, ma anche la maggioranza dei giovani che andavano in corteo cominciava a essere stanca di tanto sangue e di tanti lutti.

GLI INTELLETTUALI E LA REPRESSIONE

Ma, contrariamente alla gente comune, gli intellettuali -o almeno certi intellettuali- rimanevano convinti che tutta quella violenza fosse frutto della repressione organizzata da un sistema che andava sempre più assumendo la sostanza di una nuova dittatura.
Così pensavano, ad esempio, Nanni Balestrini ed Elvio Facchinelli, i quali chiesero, polemicamente, che un padiglione della Biennale di Venezia venisse riservato al dissenso in Italia. E altri uomini di cultura, fra cui Leonardo Sciascia, si mantennero in una posizione che il comunista Giorgio Amendola, con un duro articolo sull'«Unità», definì ambigua.
Ma fu da Parigi, dove l'intellighenzia italiana cerca solitamente la propria consacrazione, che venne l'attacco più duro contro il nuovo «regime» Dc-Pci.
L'8 luglio, proprio a Parigi, era stato arrestato Bifo, l'animatore di Radio Alice e delle riviste «A/traverso» e «Zut», accusato, come abbiamo visto, di avere incitato e promosso, via radio, gli incidenti dell'11 marzo a Bologna («Ammazzate, ammazzate, abbiamo bisogno di cadaveri», una delle frasi che gli furono contestate).
A Parigi, dov'era scappato per sottrarsi al mandato di cattura firmato dal tribunale di Bologna, Bifo aveva trovato alloggio nientemeno che a casa del professor Felix Guattari, lo psicanalista direttore della rivista «Recherches» e autore, con il filosofo Gilles Deleuze, dell'Anti-Edipo.
L'8 luglio, come detto, fu arrestato. Poco importava che solo tre giorni dopo le autorità francesi l'avessero rimesso in libertà, negando l'estradizione alla giustizia italiana e imponendo all'imputato l'unico vincolo della firma da apporre, ogni quindici giorni, su un registro al palazzo della prefettura di polizia di Parigi. Il mandato di cattura contro Bifo convinse un gruppo di intellettuali francesi a inviare a Belgrado, dov'era in corso una conferenza Est-Ovest, un «appello contro la repressione in Italia».
«Noi vogliamo attirare l'attenzione» era scritto nell'appello «sui gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e, più particolarmente, sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti intellettuali in lotta contro il compromesso storico.
«In queste condizioni» proseguiva l'appello «che vuol dire oggi, in Italia, "compromesso storico"? Il "socialismo dal volto umano" ha, negli ultimi mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato giovanile che rifiutano di pagare il prezzo della crisi; dall'altro, progetto di spartizione dello Stato con la Dc (banche ed esercito alla Dc; polizia, controllo sociale e territoriale al Pci) per mezzo di un reale partito "unico"; è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. (...)
«I sottoscritti» terminava poi l'appello «esigono la liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale proclamando la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto inchiesta.»
Seguivano le firme di Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Felix Guattari, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Philippe Sollers, François Chatelet, Claude Mauriac, Pierre Clementi, Maria Antonietta Macciocchi e in seguito anche Dario Fo e altre personalità della cultura e dello spettacolo.
L'appello fu commentato molto duramente in Italia. Il «Corriere della Sera» osservò: «Immaginare [alla Biennale di Venezia, n.d.a.] un padiglione del dissenso italiano, magari a due passi da quello sovietico, è assurdo. Mandar petizioni alla conferenza di Belgrado, dove il problema maggiore è quello di ridurre il numero degli internati negli asili psichiatrici e di impedire che l'Urss metta a tacere una volta per sempre la voce di Sacharov, rivela una miopia libresca che non giova a chi se ne fa promotore».
Ma anche i giornali comunisti, «l'Unità» e «Paese Sera», furono durissimi; e pure «il Manifesto» ebbe parole severe. Il fatto è che il Pci, entrando nella gestione dello Stato, aveva dovuto per forza di cose abbassare la voce della protesta, moderarne i toni, distinguere fra ciò che era possibile conquistare subito e ciò che andava rinviato e atteso con pazienza. E alla sua sinistra s'era creato lo spazio per rivendicazioni libertarie e utopistiche.

IL CONVEGNO DI BOLOGNA

Proprio Guattari e gli altri intellettuali, comunque, erano riusciti a dare il la a quello che si rivelò poi l'ultimo grande avvenimento della stagione della contestazione: il convegno di Bologna sulla repressione.
Il 23, 24 e 25 settembre nel capoluogo emiliano calarono chi dice cento, chi dice cinquanta, chi dice venticinquemila giovani provenienti da tutta Italia e in piccola parte anche dall'estero. C'erano ovviamente gli autonomi e gli indiani metropolitani; ma anche ciò che restava dei gruppi organizzati. E non mancavano -lo accerteranno poi diverse inchieste giudiziarie- «osservatori» delle Br e di altre formazioni, venuti a caccia di nuove reclute.
Il Pci accettò la sfida: «Bologna è la città più libera del mondo» disse il sindaco comunista Renato Zangheri. Ma è ovvio che la paura di una replica della guerriglia di marzo era enorme. Proprio in quei giorni, fra l'altro, Berlinguer gettò benzina sul fuoco definendo gli autonomi «poveri untorelli».
Bologna fu invasa anche da polizia e carabinieri. Ma non ci fu, contrariamente ai timori, alcun incidente. I tre giorni trascorsero fra bivacchi e spettacoli nelle piazze e le assemblee al Palazzetto dello Sport. Ecco, le uniche violenze furono proprio lì dentro, al Palazzetto dello Sport, dove si trovarono a convivere decine di posizioni diverse, a volte radicalmente diverse: dall'ideologia ancora impregnata di marxismo-leninismo dei vecchi gruppi alla tematica del «rifiuto del lavoro» degli autonomi e degli indiani metropolitani. Divergenze che si manifestarono spesso con botte da orbi, a colpi di sedia in testa, per strapparsi il microfono. Alla fine, l'Autonomia operaia organizzata riuscì a prendere in mano il controllo dell'assemblea, dalla quale furono espulsi, nell'ordine, prima il Mls, poi Avanguardia operaia e infine Lotta continua.
Tutti quanti, poi, si ritrovarono insieme nel grande corteo (trentacinquemila persone, secondo la stima della questura) che il giorno 25 concluse il convegno. C'erano tutti, e quelli dei gruppi tentarono, in realtà senza riuscirci troppo, di tenere gli autonomi al centro del corteo, per controllarli meglio. Comunque, non ci furono incidenti. E gli stessi slogan urlati in quell'occasione mostrarono l'eterogeneità del corteo. C'erano quelli che agitavano le mani con le dita a pistola e gridavano «Con la P38 / ti spunta un foro in bocca», «Lotta armata / per la rivoluzione», «Per il comunismo / per la rivoluzione», «Carabiniere, basco nero / il tuo posto è al cimitero». Quelli che cercavano la satira: «Carabiniere levati il cappello / e fumati con noi uno spinello». Le femministe che pensavano soprattutto alle proprie rivendicazioni: «Nelle case e nelle galere / siamo sempre prigioniere». Gli omosessuali che avevano trovato la formula per vincere la rivoluzione: «Coito anale / abbatte il capitale».
Nonostante la straordinaria massa numerica, il convegno di Bologna non rappresentò una vittoria del movimento, ma una sconfitta. L'ultima sconfitta, quella decisiva.
Il movimento aveva radunato centinaia di voci di rifiuto, di dissenso, di rivolta, ma non era riuscito a coagularle. Era emersa, in modo ancor più netto che in passato, l'impossibilità di un'azione unitaria. I nouveaux philosophes francesi che erano venuti a cavalcare la rivolta fecero la misera figura degli opportunisti, e non trovarono alcun seguito fra quei giovani che avevano cercato di blandire. Anche l'intervento che Bifo aveva inviato dalla sua latitanza di Parigi, e che fu letto durante l'assemblea al Palasport, venne sonoramente fischiato.
Privo di una guida, privo di unità ma ancor più privo di fondamenta veramente solide, il movimento si sciolse. E il Sessantotto finì veramente lì, quel 25 settembre 1977.


EPILOGO

S'è detto che, contrariamente ai moti del 1968, quelli del 1977 raramente hanno diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e negli stessi libri di storia.
Forse, la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il primo fu un fenomeno mondiale, e il secondo quasi esclusivamente italiano, e come tale meno importante.
Ma forse c'è anche, da parte di molti, una sorta di tentativo di rimozione. Il movimento del 1977 non ha goduto -a parte le snobistiche prese di posizione di certi intellettuali- della benevolenza e degli ammiccamenti che erano stati elargiti, nove anni prima, ai sessantottini; i suoi protagonisti erano dei «veri» proletari, e non figli della borghesia come furono, nella stragrande maggioranza, gli universitari del '68; per certi versi la protesta del '77 era, come vedremo, più giustificata; e a cavalcarla non c'era più, non poteva più esserci quel Pci ormai entrato nel Palazzo, e ben più risoluto nel chiedere le maniere forti contro i «sediziosi» di quanto non fossero stati, in precedenza, i vari presidenti del Consiglio e ministri democristiani.
Gli autonomi e gli indiani metropolitani del 1977 vengono rimossi anche perché la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del peggiore brigatismo, è un fantasma ingombrante per una sinistra che prima ha predicato la lotta di classe e la rivoluzione (chi stando nel partito, chi stando nei salotti) e poi ha detto che la rivoluzione non andava fatta più (chi perché ormai arrivato dentro il sistema, chi perché ancora ben inserito nei salotti). Per buona parte della sinistra, gli autonomi e gli indiani metropolitani sono quindi figli, o nipoti, con cui non si vuole avere nulla a che fare, e che è meglio disconoscere.
E non è un caso che si tenti sempre di scindere i due fenomeni, e dire che il Sessantotto è una cosa, il Settantasette un'altra. Pur nelle loro differenze, le due proteste sono invece strettamente legate fra loro, anzi sono l'inizio e la fine del medesimo avvenimento. Come ha scritto Toni Negri: "In Italia il '77 è la seconda fase del '68. (...). Il '77 è l'ultima data dentro la quale questo processo [quello iniziato nel '68, n.d.a.] viene complendosi, un processo perciò di rottura ma soprattutto di continuità, work in progress".
Del Sessantotto, i «settantasettini» hanno pagato gli errori più evidenti: se Capanna e soci avevano trovato una scuola vecchia e imbalsamata, loro ne hanno trovata una inesistente, trasformata grazie alla logica tutta sessantottina del «sei politico» e degli esami di gruppo in una fabbrica di disoccupati. Posti di fronte a una crisi economica più grave di quella di nove anni prima, i giovani proletari del 1977 faticavano a trovare lavoro, e si accorgevano che nemmeno impegnandosi a fondo in un'università ormai a pezzi potevano sperare di emanciparsi.
Ma c'è un altro motivo -più profondo, anche se forse meno evidente- per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli, sono stati i veri «fregati» dal Sessantotto.
Del Sessantotto hanno infatti ereditato la sconfitta più grave, e cioè il nulla con cui si cercò di colmare un vuoto esistanziale. A una generazione che non si accontentava degli idoli offerti dal mondo borghese -una «posizione», una bella macchina, un'amante- il Sessantotto ha offerto altri idoli, non meno fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso, ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica delle «feste» quale arma contro l'alienazione. In realtà il giovane del '77 -nonostante la regia delle solite teste d'uovo marxiste-leniniste- nei cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro il compromesso storico, ma, più tragicamente, contro la sua noia e la sua disperazione. Si leggano le molte lettere giunte in quell'anno a quella specie di confessionale pubblico che era diventato il quotidiano «Lotta continua». In una di queste lettere, pubblicata il 29 ottobre 1977 e firmata «Antonella, una quattordicenne stanca di vivere», è scritto: «Sono arrivata al punto di non poter più uscire da questa tremenda sensazione quale è la solitudine. Questo mi ha fatto pensare al suicidio, ma forse ho paura di aver paura di morire. Personalmente lotterò finché questa mia lunga vita non si fermerà. Saluti rivoluzionari».
Ha scritto allora Mino Monicelli (L'ultrasinistra in Italia): «La nuova etica purtroppo non è nata; e poiché quella vecchia, dello studio, del lavoro, della famiglia, della militanza è sempre più rifiutata, passa solo l'etica della morte. Siccome ‘la vita non ha alcun valore e non me ne frega niente' si è disposti anche a rischiarla. Questa è l'elaborazione teorica che oggi esprimono settori importanti del movimento: una specie di etica del negativo che coinvolge, in modo più o meno serio, molti giovani, dalla base della Fgci all'Autonomia».
Non è un caso se i giovani eroinomani siano passati, in Italia, dai diecimila del 1976 ai settantamila del 1978. Non è un caso se fu proprio in quel 1977 che nacquero, prima in Inghilterra e poi un pò ovunque, quei movimenti dei «punk», dei «dark», degli «skin» che (fra l'altro con una singolare liturgia funerea, evidentissima già nell'abbigliamento e nei simboli) incarnano il disagio sprofondando nel più totale nichilismo.
Passato il convegno sulla repressione di Bologna, il movimento del '77 si dissolverà. Dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo di uomini che continueranno a credere nella rivoluzione.
Ma nelle strade e nelle piazze, più niente.
E i ventenni del 1968 saranno i quarantenni che gestiranno, negli anni Ottanta, la più spietatamente egoistica ed edonistica delle società, quella del «reaganismo» e dello «yuppismo» rampante. Una contraddizione? Del resto, l'eredità del Sessantotto pare tutta contraddire le attese di chi fu protagonista di quella protesta.
Il Sessantotto -parliamo del nocciolo, dell'essenza dell'ideologia del Sessantotto- voleva spazzare via il capitalismo ed edificare un uomo nuovo e una società giusta ed egualitaria. Voleva, con la rivoluzione sessuale, mettere finalmente sullo stesso piano i rapporti fra uomo e donna. Voleva, rivendicando il diritto di ciascuno di fare ciò che vuole purché non danneggi gli altri, portare finalmente alla felicità una gioventù che si sentiva sgomenta di fronte alla prospettiva di una vita borghese.
Ma per ottenere tutto questo ha sbaraccato quei residui valori tradizionali che, forse, erano proprio l'ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore del capitalismo.
La messa in liquidazione di una certa religiosità, di un prevalere del trascendente sul materiale e, non ultimo, di un certo senso della parsimonia e della rinuncia, hanno consentito l'esplosione del consumismo più sfrenato. Il crollo di quelli che venivano chiamati «tabù sessuali» ha portato a un'espansione senza precedenti del mercato della pornografia e a un'impennata dei reati di stupro, cioè a quanto di meno rispettoso della dignità della donna. La caduta di quel saggio senso di autodifesa che veniva considerato una barriera contro il proprio piacere, ha indotto una generazione disperatamente alla ricerca della felicità a cadere nella schiavitù della droga.
Sembra insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo contrario.
Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi dell'uomo di stabilire lui cosa sia il bene e cosa sia il male, e di costruire in terra il suo paradiso. Tentativi di cui la storia è piena, e che sono sempre, misteriosamente ma implacabilmente, falliti.