Fine '700 indipendentista
Fra il 1796 e il 1815, la Padania è palcoscenico delle Insorgenze, glorioso anticipo di quello che oggi è rappresentato dall'indipendentismo padano-alpino, nonostante qualche furbone cerchi di far passare queste rivolte contro i francesi e i loro collaborazionisti (che già sventolavano il tricolore italiese, nato appunto nel 1797) come un anticipo del 'risorgimento'. Tali tentativi risultano patetici, proprio perchè le popolazioni insorte diedero la propria vita proprio per non dover essere definite "italiane", visto che a fondare il regno-fantoccio d'italia nel 1805 fu l'invasore-capo Napoleone, col sostegno di una minoranza di facoltosi traditori. E contro l'italietta e le "colonne infernali" di una Francia che deteneva il ruolo di braccio armato del mondialismo, si sollevarono immense schiere di padani, decisi a difendere le autonomie negate dagli occupanti e dai (pochi) giacobini locali.
I paralleli col giorno d'oggi sono impressionanti: Washington ha preso il posto di Parigi, i collaborazionisti tricoloruti di allora sono simili agli anti-padanisti di oggi. Son cambiati solo i nostri popoli, che ieri andavano in contro alla morte armati di forconi, dignità e amore per la libertà della propria terra. Le violenze di Vancimuglio o la strage del Cermis non sarebbero passate impunite: ma nel cuore di noi bogianen padani arde ancora la scintilla dell'Insorgente. Tornerà fuoco impetuoso?
Onore dunque ai nostri antenati, caduti contro il tricolore ed il mondialismo
già 200 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza della Padania
(1796-1996): contro una bandiera che dalla sua nascita è stata sinonimo
di morte, sradicamento e sottomissione a interessi extrapadani. L'epopea degli
Insorgenti ha coinvolto ogni angolo e popolo della Padania e non è un
caso che la recente fiction (di produzione franco-itagliana) su Bonaparte abbia
ignorato del tutto questa straordinaria esperienza, repressa in stragi e rappresaglie
inenarrabili. Non lasciamo che il ricordo di Fontanabuona e delle Pasque Veronesi
vada perso o, peggio ancora, venga strumentalizzato da certi italioni che vorrebbero
spacciare queste rivolte proto-padaniste contro il tricolore per delle manifestazioni
pro-itaglia. Purtroppo è attualmente in atto questo genere di mistificazione
da parte di certa propaganda italianizzante, proprio perchè, al contrario
del 'risorgimento', le Insorgenze ebbero una partecipazione popolare senza eguali:
giù le manacce tricolori dalla nostra storia!
INSORGENZA
LOMBARDA
Il 7 maggio 1796 l'Armée d' Italie al
comando del generale Napoleone Bonaparte varca il Po sopra Piacenza, del tutto
incurante di violare così la dichiarata neutralità del duca
di Parma e Piacenza, Ferdinando di Borbone, al quale anzi impone, per sovrappeso,
un pesante contributo di guerra in denaro, cavalli, buoi, frumento e, per giunta,
venti quadri di celebrati artisti. Il 10 i francesi sconfiggono al ponte sull'
Adda gli austriaci del generale Johann-Peter di Beaulieu. Il 14 il generale
Massena (il Bonaparte arriverà solo il mattino seguente, giorno di Pentecoste)
entra in Milano, dove fin dal giorno 11 i giacobini, pur guardati con sospetto
dalla grande maggioranza della popolazione, allarmata per le notizie delle insostenibili
contribuzioni imposte alla piccola città di Lodi, avevano cominciato
a piantare una vera e prorpia selva di alberi della libertà. Negli stessi
giorni l' occupazione si estende all' intera Lombardia austriaca (all' epoca
Brescia, Bergamo e Crema appartenevano alla Repubblica di Venezia, costituendo,
appunto, la cosiddetta Lombardia veneta), suscitando l' entusiasmo dei
non numerosi giacobini e dapprima il sospetto e il timore, poi l'ira della
popolazione, che a Pavia, occupata dalla colonna del generale Augereau,
raggiunge più rapidamente che altrove il limite di saturazione. Già
il giorno 16 se ne hanno le prime avvisaglie con le grida e le beffe per l'
innalzamento dell'albero della libertà avvenuto non senza difficoltà
tanto che l' albero era una prima volta caduto al suolo perdendo la cima, con
le proteste per la distruzione dell' antica statua romana del "Reggisole",
scambiata dagli occupanti (ma forse era solo un pretesto per gli antenati degli
attuali "casseurs" delle manifestazioni parigine) per l'effige di
un qualche imperatore e, quindi, oltraggiosa per i sentimenti dei buoni repubblicani,
e, la sera, in Borgo Ticino, con i primi veri e propri scontri per reazione
agli oltraggi (ultima goccia a fare traboccare un vaso già colmo)
recati alle donne dai soldati, alcuni dei quali finiscono in Po. Un proclama
di Augereau per l' immediata consegna delle armi pena la morte, e l' intervento
del Vescovo, mons. Giuseppe Bertieri, ottengono qualche, momentaneo successo
nel centro urbano, ma non nel contado, dove il 17 insorgono Trivolzio, Casorate,
Binasco e la Lomellina. Ma si è ancora al preambolo. Preceduta, la sera
del 22, da nuovi scontri in Borgo Ticino, il più popolare della città
e, quindi, il più avverso a francesi e giacobini, il 23 esplode in tutto
il suo furore l'Insorgenza cittadina. Il segnale è dato dall'abbattimento
dell'odiatissimo e già malconcio albero in Piazza Piccola. Si grida "Viva
l' Imperatore!" e "Giù le coccarde!" e si procede
all' arresto di chi rifiuta di unirsi a queste grida o di appuntare al
farsetto o al cappello un ramoscello verde, il colore degli imperiali. Vengono
ricercati, prima presso la sede della Società Popolare, poi nelle loro
abitazioni, e arrestati i più noti giacobini o, come allora anche si
diceva, "zelanti dei francesi". La guida delle Insorgenze è
di solito presa o da un nobile, non di rado costrettovi, esattamente copme in
Vandea, dagli stessi insorti, da un sacerdote oppure, più di frequente,
da popolani fino a quel momento anonimi, non solo elevati ad un nuovo ruolo,
ma, per così dire, quasi creati e partoriti dal proprio ventre dalla
massa, che poi li riassorbe nell' anonimità, sempre che non abbiano pagato
con la vita, come il più delle volte avviene, il momento di gloria e
l' obbedienza al comando popolare. A Pavia il compito tocca, per una designazione
inespressa, ma da tutti condivisa, al capomastro trentenne Natale Barbieri.
Questi, consapevole della impossibilità di affrontare i francesi solo
con la forza del numero, ottiene dagli intimoriti rappresentanti municipali,
ancora pencolanti fra il vecchio regime, che li ha nominati, e il nuovo, che
li ha momentaneamente confermati, la consegna delle armi della milizia urbana,
alle quali si aggiungono le altre strappate ai picchetti francesi di guardia
alle porte cittadine, delle quali gli insorti assumono il controllo per facilitare
l' arrivo dei contadini ansiosi, non appena ne hanno avuto notizia dalle campane,
di unirsi alla rivolta. Il giorno seguente il continuo e martellante suono a
storno delle campane riecheggiante di pieve in pieve infiamma l' intero contado
e accresce il numero degli insorti, pieni di entusiasmo, perché convinti
del prossimo arrivo degli austriaci, che si crede abbiano battuto i francesi.
A mettere un minimo d' ordine nella inevitabile confusione si adopera Natale
Barbieri, descritto da un cronista di simpatie francesi "fermo sul suo
cavallo di pelo grigio" (tolto il giorno avanti al generale Honoré-Alexzandre
Haquin, preso prigioniero), "esso parlava con molti, né so di qual
cosa; l'ho veduto di poi più volte scorrere qua e là. Ora egli
portavasi al Castello a parlamentare colla guarnigione, ora volgeva il passo
al Municipio, ora consigliava il popolo da cui veniva con soddisfazione ascoltato,
e mi sovviene di aver in Strada Nuova veduto la moltitudine fargli replicati
evviva, gran battimenti di mano, in attestato della universale approvazione".
Intanto l' Insorgenza si è estesa pressoché all' intera Lombardia,
ma con fenomeni violenti e rapidi come un' acquazzone estivo e, quindi, più
facilmente repressi, anche perché qui gli insorti, avvezzi a nutrire
fiducia sia negli ottimati cittadini, sia, e soprattutto, nei loro pastori spirituali,
si lasciano persuadere alla calma dalle buone parole e dagli ammonimenti
di nobili, parroci e prelati. Così avviene il 23 maggio a Varese
e a Como. In quest' ultima città a riportare un' apparenza di calma è
sufficiente l' intervento del Vescovo, che ricorre, a sproposito, all'
argomento che ogni autorità viene da Dio e, soprattutto, scrive un contemporaneo,
ad "un toccante discorso sempre colle lagrime agli occhi, esortando il
popolo alla quiete per non eccitare ad orrida vendetta il Governo Francese".
Nel tardo pomeriggio di quello stesso 23 un tentativo insurrezionale si verifica
nella stessa Milano con due episodi principali, che tuttavia non riescono a
trovare collegamento e continuità. Il primo, in realtà poco più
di un tafferuglio se ad accrescerne l' importanza non provvedesse la tensione
che tutti sentono vibrare nell' aria, in piazza Duomo, dove i giacobini della
Società popolare, intervenuti a difesa dell' albero minacciato di
abbattimento da un gruppo di ragazzi, rimediano una caterva di bastonate per
l'intervento di furibondi popolani, che hanno preparato la provocazione e l'
agguato. Il secondo, più grave anche perché diretto contro i francesi,
nel popolare quartiere di Porta Ticinese, con un violento assalto ad un
drappello di dragoni. Tuttavia in città vi sono troppe truppe e troppo
bene armate e organizzate per soccombere ad una folla numerosa, ma priva di
vere armi. Non per nulla gli unici caduti della giornata sono due popolani,
ai quali se ne aggiungeranno altri due, il giovane Domenico Pomi e il delegato
di polizia Giuseppe Pacciarini, imprigionati, condannati a morte e fucilati
sulla piazza del mercato fuori di porta Ticinese rispettivamente il 26 maggio
e il 30 giugno. Se la breve Insorgenza milanese è costata quattro morti
e un certo numero di feriti assai peggio vanno le cose a Pavia e nel Pavese.
Qui, dopo una resa concordata la sera precedente con la mediazione dei municipalisti,
sul mezzogiorno del 25 i francesi, decimati dalle fucilate e dagli arresti,
lasciano il castello per essere rinchiusi in una vecchia caserma, accompagnati
da gran numero di nobili e di ecclesiastici, resisi garanti del rispetto delle
loro vite, anche se inutilmente, perché se vi erano stati dei morti negli
scontri, a nessuno dei prigionieri era stata usata violenza. "Andava
innanzi a tutti", scrive il già citato cronista, "quasi
trionfalmente assiso sul suo cavallo il più volte ripetuto Capo Natale
Barbieri, misero! a cui non mancavano più che poche ore a vivere".
In effetti, come accade non di rado in queste Insorgenze popolari, carenti
di organizzazione e prive di qualunque servizio d' informazione, al momento
dell' apparente trionfo segue dappresso quello della sconfitta. Nel caso
dell' Insorgenza pavese già durante la notte fra il 24 e il 25, mentre
i francesi rinchiusi nel castello meditavano se dare seguito ai patti di
resa, i loro compagni provenienti da Milano, condotti in persona dal Bonaparte,
furibondo per l' ostacolo frapposto ai suoi progetti di una rapida campagna
contro gli austriaci da condurre, anche in questo caso nonostante la proclamata
neutralità della Serenissima, in territorio veneto, dopo una disperata
resistenza opposta da circa 700 insorti, soverchiati dal numero quasi triplo
dei nemici e dai loro sei cannoni, hanno preso e dato alle fiamme Binasco,
un incendio destinato a rimanere vivo nel ricordo di Napoleone, che più
volte in futuro o minaccerà di ugual sorte gli oppositori o ordinerà
ai suoi generali di fare come lui a Binasco. Tuttavia il generale ha fretta
e desidera evitare altre perdite di uomini che gli servono per la definitiva
vittoria sul Beaulieu e la conquista della munitissima fortezza di Mantova,
il maggior baluardo imperiale in Italia. Di conseguenza si fa precedere
a Pavia dall' arcivescovo di Milano Filippo Visconti, o "zelante dei
francesi" o semplicemente opportunista, certamente in qualche misura incline
all' eresia giansenista, latore di un ultimatum che promette perdono a
chi deporrà le armi entro ventiquattro ore, la morte agli altri
e la fine di Binasco ai loro paesi. All'arcivescovo, accolto in un primo momento
in trionfo dagli insorti, che, avendo abbattuto a fucilate cinque dei sei
dragoni di scorta alla sua carrozza, credono di averlo liberato dalla
prigionia francese, viene impedito di parlare nonostante i tentativi di persuasione
dei municipalisti e dei notabili non appena rivela l' incarico affidatogli
dal Bonaparte, tanto alte e ripetute e feroci sono le grida di "Viva l'
Imperatore! muoiano tutti i francesi!". Alle parole gli insorti fanno seguire
i fatti. Prima tentano una sortita contro le truppe francesi i cui cannoni hanno
iniziato il bombardamento della città, poi di impedirne l' ingresso
in città, nonostante che i continui colpi di cannone e una fitta fucileria
rendano quasi impossibile trattenersi sulle mura. La lotta prosegue per
le strade della città, dove i dragoni vengono bersagliati, oltre che
da sempre più radi colpi di fucile per la fine del munizionamento, da
sassi, tegole e oggetti di ogni genere lanciati dai tetti. Vinta la resistenza,
il Bonaparte si lascia indurre dalle suppliche del Vescovo e, soprattutto, dalla
notizia, confermatagli subito dopo la liberazione dai diretti interessati,
che i circa seicento prigionieri francesi sono stati trattati bene, a risparmiare
a Pavia il destino di Binasco e ad "accontentarsi" di abbandonarla
al saccheggio delle truppe, alle quali si aggiungono, distinguendosi per
crudeltà e sfrenatezza, alcuni giacobini locali, gli stessi che lì
a poco consegnano ai francesi Natale Barbieri, che, rifiutatosi di seguire i
compagni dispersisi nelle campagne e non volendo raggiungere la propria casa
per la speranza di non coinvolgere i familiari, attendeva l' inevitabile
cattura in una bettola. Il giovane capomastro, dopo essere stato interrogato
personalmente dal Bonaparte, viene rinchiuso in castello, seviziato per
l' intera notte dai soldati, che lo scherniscono chiamandolo "generale
dei villani", e fucilato all' alba del mattino seguente, 26 maggio
1796, nello spiazzo davanti alla fortezza, dove, poiché non si regge
in piedi per le torture patite, viene condotto a braccia. Nuove Insorgenze si
verificano in Lombardia nel 1799 in corrispondenza con l' avanzata delle
truppe austro-russe del generale Suvorov, e, ad intervalli ed in particolare
nelle vallate montane, negli anni 1803-1809 (nel 1809, in corrispondenza
della grande Insorgenza tirolese, è particolarmente attivo Corrado Juvalta
di Teglio in Valtellina, ufficiale e agente imperiale, una sorta di Branda Lucioni
in sedicesimo). Si tratta, come scrive Oscar Sanguinetti, il maggiore storico
dell' Insorgenza lombarda, di una Insorgenza "discontinua e, di fatto,
minore, non paragonabile alla enorme, omogenea e permanente mobilitazione
popolare che caratterizza le regioni centrali e il Mezzogiorno". Le ragioni
sono evidenti. Milano è la capitale prima della Repubblica Cisalpina
poi del Regno d' Italia e la presenza delle truppe d' occupazione vi è
particolarmente forte e pressante fino alla caduta di Napoleone. Inoltre
il ruolo attribuito a Milano determina un largo afflusso di "zelanti
dei francesi" da tutte le regioni d' Italia, mentre gli incarichi
onorifici e gli impieghi offerti dal governo e dalla burocrazia (il Regno
d' Italia napoleonico è uno stato fortemente centralizzato e burocratizzato)
allettano gli ambiziosi, fra i quali non pochi esponenti dell' aristocrazia
e della borghesia benestante. Tuttavia, pur se è difficile e quasi ripugna
trovare, nonostante ogni possibile giustificazione, qualcosa di positivo
in un episodio di criminalità come l'assassinio di un singolo per mano
di molti, il linciaggio, il 20 aprile 1814, ad opera di una folla infuriata,
di Giuseppe Prina, oggetto di particolare odio per il suo incarico di ministro
delle Finanze del Regno Italico, ma anche per il suo particolare attaccamento
a Napoleone e alla causa francese, la dice lunga sui sentimenti popolari. Questi
sentimenti, per altro nella loro versione più moderata, trovano
espressione in una poesia dialettale (se ne riporta solo la prima quartina)
rivolta ai "paracar" (soprannome dato dai milanesi ai soldati francesi)
in fuga di fronte all' avanzata austriaca dal poeta Carlo Porta, che non
solo non è un insorgente, ma è stato quasi un "patriota"
e ha servito in un modesto impiego il governo imperiale e vicereale: "Paracar
che scappee de Lombardia,/ Se ve dan quaj moment de vardà indree,/ Dee
on'oggiada e fee a ment con che legria/ Se festeggia sto voster san Michee".
BRANDA
DE' LUCIONI, UN EROE PADANO
La storia ci ha tramandato le vicende incredibili
di alcuni eroici cavalieri confederati che si erano spinti all’interno
delle linee unioniste. Qualcuno di loro è ancora oggi ricordato con entusiasmo:
uomini come John Mosby, Harry Gilmor, John D. Imboden, John Morgan, sono diventati
eroi popolari celebrati da fumetti, libri e da pellicole cinematografiche. C’è
una storia simile, anche più grandiosa, perché non costituita
da semplici raids ma da una guerra di liberazione portata da un prode coraggioso
e guascone a cui nessuno ha mai dedicato descrizioni avventurose perché
era padano e stava dalla parte sbagliata rispetto alla retorica tricolore.
Pochi
hanno sentito parlare delle gesta di Branda de’ Lucioni. Eppure è
una storia particolarmente significativa perché è una sorta di
paradigma delle nostre aspirazioni comunitarie. Il riferimento è innanzitutto
geografico: tocca tutta la Padania, dal Veneto alla Liguria. E’ anche
geopolitico: era un eroe che si muoveva in un contesto culturale e militare
molto decisamente mitteleuropeo. Di grande significanza è anche il riferimento
ideologico: combatteva contro i Giacobini e a capo di contadini-soldati che
difendevano i propri paesi, le proprie terre e le loro antiche libertà.
Infine perché si trattava di un eroe padanamente spaccone, spavaldo e
rissoso che faceva di testa sua, al di fuori degli schemi più stantii,
spinto dalla voglia di liberare la sua terra.
Oggi quasi nessuno ricorda Branda, non c’è una via dedicata a lui,
non se ne ricordano tanto neanche gli autonomisti. Come tanti altri eroi padani,
anche lui è rimasto vittima di una ben orchestrata congiura del silenzio,
di una "damnatio memoriae" ordita dalla peggiore retorica patriottarda
italiona.
Come nome di battesimo aveva uno strano Branda, di cognome faceva Lucioni ed
era nato nel 1740 a Vimperk nella Boemia meridionale, dove il padre Giuseppe
(originario di Abbiate Guazzone, una frazione di Tradate) era tenente nella
locale guarnigione. Militare imperiale come il padre, Branda sposa a Gallarate
una Maria Teresa di Trezzo d’Adda, si sposta in varie guarnigioni col
reggimento Wurmster, sempre distinguendosi per il suo carattere rissoso e spavaldo.
Nel 1799 la Padania è occupata dai Francesi ma l’annuncio della
ripresa delle ostilità da parte degli Imperiali scatena ovunque l’insorgenza
popolare. Il reggimento Wurmster combatte a Legnago e a Magnano, partecipa alla
liberazione di Mantova e poi, quando il grosso dell’Armata austro-russa
si avvia verso Milano, viene spedito a Modena, poi verso la Liguria, dove assedia
Genova. Il cinquantanovenne Maggiore Lucioni si stacca dal suo reparto, passa
da Parma e da Cremona e si presenta a Milano: gli è stato affidato un
drappello di cavalieri col compito di precedere l’esercito, incalzare
i Francesi e organizzare i rivoltosi. La sua avventura vera inizia con un raid
la mattina del 28 aprile 1799. Parte da Novegro e con un paio di drappelli si
spinge in Milano, ancora francese, si fa vedere spavaldo al caffè "detto
del Mazza" in Piazza Duomo, si fa ricevere dall’arcivescovo, si auto
invita a pranzo dalla municipalità, abbatte l’albero della libertà
e l’immancabile statua di Bruto eretta in Piazza Mercanti. La sua spavalderia
disorienta i Francesi e rianima i Milanesi che insorgono e accolgono il giorno
dopo gli austro-russi che entrano nella città liberata. E’ solo
l’inizio di una incredibile avventura. Branda raccoglie i suoi cavalieri
e, assieme a un numero crescente di volontari padani (che assumeranno il nome
di Massa Cristiana), si dirige su Cuggiono e Boffalora. Il 29 aprile passa il
Ticino e solleva i contadini. In pochi giorni libera Novara, Vercelli e Santhia.
Qui la massa si divide in più colonne. Una si dirige su Biella e poi
su Ivrea e Aosta, che viene liberata nella notte fra il 6 e 7 maggio 1799 dall’assalto
congiunto della Massa e del locale "Regiment des soques". Un’altra
va verso Trino e Chivasso e punta su Torino. Il 5 maggio Branda installa il
suo quartiere generale a Chivasso. Il 14 occupa tutte le località attorno
a Torino che di fatto assedia bloccandovi gli occupanti. Gli alleati arrivano
in città il 24 e vi entrano il 25. La Massa procede allora verso sud
e la Liguria. Libera numerose città e apre la strada all’esercito
regolare. Si scioglie ufficialmente il 5 giugno a Pecetto torinese. La guerra
sembra vinta e tutti, tranne qualche gruppo che continua a operare autonomamente
sull’Appennino ligure, se ne tornano alle loro case. Anche Branda se ne
va in pensione a Vicenza dove morirà il 22 agosto del 1803. L’epopea
segnerà i suoi nemici che erano terrorizzati al punto da trasformare
il nome proprio di Branda in una denominazione di genere con cui indicare tutti
gli insorgenti. "Brandeggiare" diventa addirittura sinonimo di compiere
gesti spavaldi, di "guasconare". Nel dizionario pubblicato nel 1830
da Casimiro Zalli si trova scritto: "Branda, o Brandalucion, ovvero Brandalucionista,
nome originato dal Maggior giubilato Branda de’ Lucioni, il quale l’anno
1799 fece il precursore delle Armate Austro-Russe, quando s’avanzavano
verso il Piemonte. Questi, avendo fatto masse di villani, ed altri realisti
o nemici dei Francesi, furono quindi dall’anno 1800 per disprezzo chiamati
Branda, brandoni, brandalucionisti, tutti li amici della Casa di Savoja, e tutti
quelli, che valevansi calunniar o render sospetti" e più avanti
"Brandé, verbo giusta il predetto significato, contare, o sparger
novelle, o far progetti sfavorevoli al governo francese, "faire le royaliste"".
Al di là della vicenda delle Insorgenze, della loro importanza e delle
azioni militari, e della stravagante e forte personalità dell’autore,
l’avventura del Branda è per noi importante anche per i suoi risvolti
simbolici. Era un lombardo fedele servitore dell’Impero; nato in Boemia
e vissuto sempre fra Padania e Austria, un perfetto prodotto della cultura della
Mitteleuropa; con le sue gesta aveva dimostrato un grande attaccamento alla
Lombardia, intesa nel significato antico di Padania. La sua guerra aveva toccato
l’intera regione: partito dal Veneto, aveva percorso i Ducati emiliani
e poi la Lombardia, il Piemonte, la Valle d’Aosta e la Liguria. Il percorso
della sua avventura è una sorta di filo che lega, anche attraverso la
gloria delle Insorgenze, le varie parti del solido patchwork padano. La rapida
e splendida cavalcata di Branda de’ Lucioni è stata sottratta al
criminale silenzio della storiografia tricolore e di tutti i suoi storici faziosi
da una serie di annotazioni apparse di recente su alcune opere dedicate alle
insorgenze antifrancesi. Ma è soprattutto un documentatissimo libro di
Marco Albera e di Oscar Sanguinetti che oggi ce la descrive in dettaglio. Il
libro (Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Massa cristiana, Libreria Piemontese
Editrice, 1999, 143 pagine) è bello, ben costruito e documentato, solo
appena guastato da una nota stonata nella Premessa, il solito accenno del tutto
fuori luogo a una inesistente identità italiana, a un sentimento che
non esiste, che non ci tocca e che era sicuramente sconosciuto al Branda, lombardo,
mitteleuropeo e padano.