Fine '700 indipendentista

Fra il 1796 e il 1815, la Padania è palcoscenico delle Insorgenze, glorioso anticipo di quello che oggi è rappresentato dall'indipendentismo padano-alpino, nonostante qualche furbone cerchi di far passare queste rivolte contro i francesi e i loro collaborazionisti (che già sventolavano il tricolore italiese, nato appunto nel 1797) come un anticipo del 'risorgimento'. Tali tentativi risultano patetici, proprio perchè le popolazioni insorte diedero la propria vita proprio per non dover essere definite "italiane", visto che a fondare il regno-fantoccio d'italia nel 1805 fu l'invasore-capo Napoleone, col sostegno di una minoranza di facoltosi traditori. E contro l'italietta e le "colonne infernali" di una Francia che deteneva il ruolo di braccio armato del mondialismo, si sollevarono immense schiere di padani, decisi a difendere le autonomie negate dagli occupanti e dai (pochi) giacobini locali.

I paralleli col giorno d'oggi sono impressionanti: Washington ha preso il posto di Parigi, i collaborazionisti tricoloruti di allora sono simili agli anti-padanisti di oggi. Son cambiati solo i nostri popoli, che ieri andavano in contro alla morte armati di forconi, dignità e amore per la libertà della propria terra. Le violenze di Vancimuglio o la strage del Cermis non sarebbero passate impunite: ma nel cuore di noi bogianen padani arde ancora la scintilla dell'Insorgente. Tornerà fuoco impetuoso?

Onore dunque ai nostri antenati, caduti contro il tricolore ed il mondialismo già 200 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza della Padania (1796-1996): contro una bandiera che dalla sua nascita è stata sinonimo di morte, sradicamento e sottomissione a interessi extrapadani. L'epopea degli Insorgenti ha coinvolto ogni angolo e popolo della Padania e non è un caso che la recente fiction (di produzione franco-itagliana) su Bonaparte abbia ignorato del tutto questa straordinaria esperienza, repressa in stragi e rappresaglie inenarrabili. Non lasciamo che il ricordo di Fontanabuona e delle Pasque Veronesi vada perso o, peggio ancora, venga strumentalizzato da certi italioni che vorrebbero spacciare queste rivolte proto-padaniste contro il tricolore per delle manifestazioni pro-itaglia. Purtroppo è attualmente in atto questo genere di mistificazione da parte di certa propaganda italianizzante, proprio perchè, al contrario del 'risorgimento', le Insorgenze ebbero una partecipazione popolare senza eguali: giù le manacce tricolori dalla nostra storia!

INSORGENZA LOMBARDA

Il 7 maggio 1796 l'Armée d' Italie al comando del generale Napoleone Bonaparte varca il Po sopra Piacenza, del tutto incu­rante di violare così la dichiarata neutralità del duca di Par­ma e Piacenza, Ferdinando di Borbone, al quale anzi impone, per sovrappeso, un pesante contributo di guerra in denaro, cavalli, buoi, frumento e, per giunta, venti quadri di celebrati artisti. Il 10 i francesi sconfiggono al ponte sull' Adda gli austriaci del generale Johann-Peter di Beaulieu. Il 14 il generale Massena (il Bonaparte arriverà solo il mattino seguente, giorno di Pente­coste) entra in Milano, dove fin dal giorno 11 i giacobini, pur guardati con sospetto dalla grande maggioranza della popolazione, allarmata per le notizie delle insostenibili contribuzioni impo­ste alla piccola città di Lodi, avevano cominciato a piantare una vera e prorpia selva di alberi della libertà. Negli stessi giorni l' occupazione si estende all' intera Lombardia austriaca (all' epoca Brescia, Bergamo e Crema apparte­nevano alla Repubblica di Venezia, costituendo, appunto, la co­siddetta Lombardia veneta), suscitando l' entusiasmo dei non nu­merosi giacobini e dapprima il sospetto e il timore, poi l'ira della popolazione, che a Pavia, occupata dalla colonna del gene­rale Augereau, raggiunge più rapidamente che altrove il limite di saturazione. Già il giorno 16 se ne hanno le prime avvisaglie con le grida e le beffe per l' innalzamento dell'albero della libertà avvenuto non senza difficoltà tanto che l' albero era una prima volta caduto al suolo perdendo la cima, con le proteste per la distruzione dell' antica statua romana del "Reggisole", scambiata dagli occupanti (ma forse era solo un pretesto per gli antenati degli attuali "casseurs" delle manifestazioni parigine) per l'effige di un qualche imperatore e, quindi, oltraggiosa per i sentimenti dei buoni repubblicani, e, la sera, in Borgo Ticino, con i primi veri e propri scontri per reazione agli oltraggi (ul­tima goccia a fare traboccare un vaso già colmo) recati alle don­ne dai soldati, alcuni dei quali finiscono in Po. Un proclama di Augereau per l' immediata consegna delle armi pena la morte, e l' intervento del Vescovo, mons. Giuseppe Ber­tieri, ottengono qualche, momentaneo successo nel centro urbano, ma non nel contado, dove il 17 insorgono Trivolzio, Casorate, Binasco e la Lomellina. Ma si è ancora al preambolo. Preceduta, la sera del 22, da nuovi scontri in Borgo Ticino, il più popolare della città e, quindi, il più avverso a francesi e giacobini, il 23 esplode in tutto il suo furore l'Insorgenza cittadina. Il segnale è dato dall'abbattimento dell'odiatissimo e già malconcio albero in Piazza Piccola. Si grida "Viva l' Impera­tore!" e "Giù le coccarde!" e si procede all' arresto di chi ri­fiuta di unirsi a queste grida o di appuntare al farsetto o al cappello un ramoscello verde, il colore degli imperiali. Vengono ricercati, prima presso la sede della Società Popolare, poi nelle loro abitazioni, e arrestati i più noti giacobini o, come allora anche si diceva, "zelanti dei francesi". La guida delle Insorgenze è di solito presa o da un nobile, non di rado costrettovi, esattamente copme in Vandea, dagli stes­si insorti, da un sacerdote oppure, più di frequente, da popolani fino a quel momento anonimi, non solo elevati ad un nuovo ruolo, ma, per così dire, quasi creati e partoriti dal proprio ventre dalla massa, che poi li riassorbe nell' anonimità, sempre che non abbiano pagato con la vita, come il più delle volte avviene, il momento di gloria e l' obbedienza al comando popolare. A Pavia il compito tocca, per una designazione inespressa, ma da tutti condivisa, al capomastro trentenne Natale Barbieri. Questi, consapevole della impossibilità di affrontare i francesi solo con la forza del numero, ottiene dagli intimoriti rappresen­tanti municipali, ancora pencolanti fra il vecchio regime, che li ha nominati, e il nuovo, che li ha momentaneamente confermati, la consegna delle armi della milizia urbana, alle quali si aggiungo­no le altre strappate ai picchetti francesi di guardia alle porte cittadine, delle quali gli insorti assumono il controllo per fa­cilitare l' arrivo dei contadini ansiosi, non appena ne hanno avuto notizia dalle campane, di unirsi alla rivolta. Il giorno seguente il continuo e martellante suono a storno delle campane riecheggiante di pieve in pieve infiamma l' intero contado e accresce il numero degli insorti, pieni di entusiasmo, perché convinti del prossimo arrivo degli austriaci, che si crede abbiano battuto i francesi. A mettere un minimo d' ordine nella inevitabile confusione si adopera Natale Barbieri, descritto da un cronista di simpatie francesi "fermo sul suo cavallo di pelo grigio" (tolto il giorno avanti al generale Honoré-Alexzandre Haquin, preso prigioniero), "esso parlava con molti, né so di qual cosa; l'ho veduto di poi più volte scorrere qua e là. Ora egli portavasi al Castello a parlamentare colla guarnigione, ora volgeva il passo al Municipio, ora consigliava il popolo da cui veniva con soddisfazione ascoltato, e mi sovviene di aver in Strada Nuova veduto la moltitudine fargli replicati evviva, gran battimenti di mano, in attestato della universale approvazione". Intanto l' Insorgenza si è estesa pressoché all' intera Lom­bardia, ma con fenomeni violenti e rapidi come un' acquazzone estivo e, quindi, più facilmente repressi, anche perché qui gli insorti, avvezzi a nutrire fiducia sia negli ottimati cittadini, sia, e soprattutto, nei loro pastori spirituali, si lasciano per­suadere alla calma dalle buone parole e dagli ammonimenti di no­bili, parroci e prelati. Così avviene il 23 maggio a Varese e a Como. In quest' ultima città a riportare un' apparenza di calma è sufficiente l' intervento del Vescovo, che ricorre, a sproposi­to, all' argomento che ogni autorità viene da Dio e, soprattutto, scrive un contemporaneo, ad "un toccante discorso sempre colle lagrime agli occhi, esortando il popolo alla quiete per non ecci­tare ad orrida vendetta il Governo Francese". Nel tardo pomeriggio di quello stesso 23 un tentativo insurrezionale si verifica nella stessa Milano con due episodi principali, che tuttavia non riescono a trovare collegamento e continuità. Il primo, in realtà poco più di un tafferuglio se ad accrescerne l' importanza non provvedesse la tensione che tutti sentono vibrare nell' aria, in piazza Duomo, dove i giacobini della Società popolare, intervenuti a difesa dell' albero mi­nacciato di abbattimento da un gruppo di ragazzi, rimediano una caterva di bastonate per l'intervento di furibondi popolani, che hanno preparato la provocazione e l' agguato. Il secondo, più grave anche perché diretto contro i francesi, nel popolare quar­tiere di Porta Ticinese, con un violento assalto ad un drappello di dragoni. Tuttavia in città vi sono troppe truppe e troppo bene armate e organizzate per soccombere ad una folla numerosa, ma priva di vere armi. Non per nulla gli unici caduti della giornata sono due popolani, ai quali se ne aggiungeranno altri due, il giovane Domenico Pomi e il delegato di polizia Giuseppe Paccia­rini, imprigionati, condannati a morte e fucilati sulla piazza del mercato fuori di porta Ticinese rispettivamente il 26 maggio e il 30 giugno. Se la breve Insorgenza milanese è costata quattro morti e un certo numero di feriti assai peggio vanno le cose a Pavia e nel Pavese. Qui, dopo una resa concordata la sera precedente con la mediazione dei municipalisti, sul mezzogiorno del 25 i francesi, decimati dalle fucilate e dagli arresti, lasciano il castello per essere rinchiusi in una vecchia caserma, accompagnati da gran numero di nobili e di ecclesiastici, resisi garanti del rispetto delle loro vite, anche se inutilmente, perché se vi erano stati dei morti negli scontri, a nessuno dei prigionieri era stata usa­ta violenza. "Andava innanzi a tutti", scrive il già citato cro­nista, "quasi trionfalmente assiso sul suo cavallo il più volte ripetuto Capo Natale Barbieri, misero! a cui non mancavano più che poche ore a vivere". In effetti, come accade non di rado in queste Insorgenze po­polari, carenti di organizzazione e prive di qualunque servizio d' informazione, al momento dell' apparente trionfo segue dap­presso quello della sconfitta. Nel caso dell' Insorgenza pavese già durante la notte fra il 24 e il 25, mentre i francesi rin­chiusi nel castello meditavano se dare seguito ai patti di resa, i loro compagni provenienti da Milano, condotti in persona dal Bonaparte, furibondo per l' ostacolo frapposto ai suoi progetti di una rapida campagna contro gli austriaci da condurre, anche in questo caso nonostante la proclamata neutralità della Serenissi­ma, in territorio veneto, dopo una disperata resistenza opposta da circa 700 insorti, soverchiati dal numero quasi triplo dei ne­mici e dai loro sei cannoni, hanno preso e dato alle fiamme Bi­nasco, un incendio destinato a rimanere vivo nel ricordo di Napo­leone, che più volte in futuro o minaccerà di ugual sorte gli op­positori o ordinerà ai suoi generali di fare come lui a Binasco. Tuttavia il generale ha fretta e desidera evitare altre per­dite di uomini che gli servono per la definitiva vittoria sul Beaulieu e la conquista della munitissima fortezza di Mantova, il maggior baluardo imperiale in Italia. Di conseguenza si fa prece­dere a Pavia dall' arcivescovo di Milano Filippo Visconti, o "ze­lante dei francesi" o semplicemente opportunista, certamente in qualche misura incline all' eresia giansenista, latore di un ul­timatum che promette perdono a chi deporrà le armi entro venti­quattro ore, la morte agli altri e la fine di Binasco ai loro paesi. All'arcivescovo, accolto in un primo momento in trionfo da­gli insorti, che, avendo abbattuto a fucilate cinque dei sei dra­goni di scorta alla sua carrozza, credono di averlo liberato dal­la prigionia francese, viene impedito di parlare nonostante i tentativi di persuasione dei municipalisti e dei notabili non ap­pena rivela l' incarico affidatogli dal Bonaparte, tanto alte e ripetute e feroci sono le grida di "Viva l' Imperatore! muoiano tutti i francesi!". Alle parole gli insorti fanno seguire i fatti. Prima tentano una sortita contro le truppe francesi i cui cannoni hanno inizia­to il bombardamento della città, poi di impedirne l' ingresso in città, nonostante che i continui colpi di cannone e una fitta fu­cileria rendano quasi impossibile trattenersi sulle mura. La lot­ta prosegue per le strade della città, dove i dragoni vengono bersagliati, oltre che da sempre più radi colpi di fucile per la fine del munizionamento, da sassi, tegole e oggetti di ogni gene­re lanciati dai tetti. Vinta la resistenza, il Bonaparte si lascia indurre dalle suppliche del Vescovo e, soprattutto, dalla notizia, confermata­gli subito dopo la liberazione dai diretti interessati, che i circa seicento prigionieri francesi sono stati trattati bene, a risparmiare a Pavia il destino di Binasco e ad "accontentarsi" di abbandonarla al saccheggio delle truppe, alle quali si aggiungo­no, distinguendosi per crudeltà e sfrenatezza, alcuni giacobini locali, gli stessi che lì a poco consegnano ai francesi Natale Barbieri, che, rifiutatosi di seguire i compagni dispersisi nelle campagne e non volendo raggiungere la propria casa per la speran­za di non coinvolgere i familiari, attendeva l' inevitabile cat­tura in una bettola. Il giovane capomastro, dopo essere stato interrogato perso­nalmente dal Bonaparte, viene rinchiuso in castello, seviziato per l' intera notte dai soldati, che lo scherniscono chiamandolo "generale dei villani", e fucilato all' alba del mattino se­guente, 26 maggio 1796, nello spiazzo davanti alla fortezza, do­ve, poiché non si regge in piedi per le torture patite, viene condotto a braccia. Nuove Insorgenze si verificano in Lombardia nel 1799 in cor­rispondenza con l' avanzata delle truppe austro-russe del genera­le Suvorov, e, ad intervalli ed in particolare nelle vallate mon­tane, negli anni 1803-1809 (nel 1809, in corrispondenza della grande Insorgenza tirolese, è particolarmente attivo Corrado Ju­valta di Teglio in Valtellina, ufficiale e agente imperiale, una sorta di Branda Lucioni in sedicesimo). Si tratta, come scrive Oscar Sanguinetti, il maggiore storico dell' Insorgenza lombarda, di una Insorgenza "discontinua e, di fatto, minore, non paragona­bile alla enorme, omogenea e permanente mobilitazione popolare che caratterizza le regioni centrali e il Mezzogiorno". Le ra­gioni sono evidenti. Milano è la capitale prima della Repubblica Cisalpina poi del Regno d' Italia e la presenza delle truppe d' occupazione vi è particolarmente forte e pressante fino alla ca­duta di Napoleone. Inoltre il ruolo attribuito a Milano determi­na un largo afflusso di "zelanti dei francesi" da tutte le regio­ni d' Italia, mentre gli incarichi onorifici e gli impieghi of­ferti dal governo e dalla burocrazia (il Regno d' Italia napo­leonico è uno stato fortemente centralizzato e burocratizzato) allettano gli ambiziosi, fra i quali non pochi esponenti dell' aristocrazia e della borghesia benestante. Tuttavia, pur se è difficile e quasi ripugna trovare, nono­stante ogni possibile giustificazione, qualcosa di positivo in un episodio di criminalità come l'assassinio di un singolo per mano di molti, il linciaggio, il 20 aprile 1814, ad opera di una folla infuriata, di Giuseppe Prina, oggetto di particolare odio per il suo incarico di ministro delle Finanze del Regno Italico, ma anche per il suo particolare attaccamento a Napoleone e alla causa francese, la dice lunga sui sentimenti popolari. Questi sentimenti, per altro nella loro versione più modera­ta, trovano espressione in una poesia dialettale (se ne riporta solo la prima quartina) rivolta ai "paracar" (soprannome dato dai milanesi ai soldati francesi) in fuga di fronte all' avanzata au­striaca dal poeta Carlo Porta, che non solo non è un insorgente, ma è stato quasi un "patriota" e ha servito in un modesto impiego il governo imperiale e vicereale: "Paracar che scappee de Lombardia,/ Se ve dan quaj moment de vardà indree,/ Dee on'oggiada e fee a ment con che legria/ Se festeggia sto voster san Michee".

BRANDA DE' LUCIONI, UN EROE PADANO

La storia ci ha tramandato le vicende incredibili di alcuni eroici cavalieri confederati che si erano spinti all’interno delle linee unioniste. Qualcuno di loro è ancora oggi ricordato con entusiasmo: uomini come John Mosby, Harry Gilmor, John D. Imboden, John Morgan, sono diventati eroi popolari celebrati da fumetti, libri e da pellicole cinematografiche. C’è una storia simile, anche più grandiosa, perché non costituita da semplici raids ma da una guerra di liberazione portata da un prode coraggioso e guascone a cui nessuno ha mai dedicato descrizioni avventurose perché era padano e stava dalla parte sbagliata rispetto alla retorica tricolore.

Pochi hanno sentito parlare delle gesta di Branda de’ Lucioni. Eppure è una storia particolarmente significativa perché è una sorta di paradigma delle nostre aspirazioni comunitarie. Il riferimento è innanzitutto geografico: tocca tutta la Padania, dal Veneto alla Liguria. E’ anche geopolitico: era un eroe che si muoveva in un contesto culturale e militare molto decisamente mitteleuropeo. Di grande significanza è anche il riferimento ideologico: combatteva contro i Giacobini e a capo di contadini-soldati che difendevano i propri paesi, le proprie terre e le loro antiche libertà. Infine perché si trattava di un eroe padanamente spaccone, spavaldo e rissoso che faceva di testa sua, al di fuori degli schemi più stantii, spinto dalla voglia di liberare la sua terra.

Oggi quasi nessuno ricorda Branda, non c’è una via dedicata a lui, non se ne ricordano tanto neanche gli autonomisti. Come tanti altri eroi padani, anche lui è rimasto vittima di una ben orchestrata congiura del silenzio, di una "damnatio memoriae" ordita dalla peggiore retorica patriottarda italiona.

Come nome di battesimo aveva uno strano Branda, di cognome faceva Lucioni ed era nato nel 1740 a Vimperk nella Boemia meridionale, dove il padre Giuseppe (originario di Abbiate Guazzone, una frazione di Tradate) era tenente nella locale guarnigione. Militare imperiale come il padre, Branda sposa a Gallarate una Maria Teresa di Trezzo d’Adda, si sposta in varie guarnigioni col reggimento Wurmster, sempre distinguendosi per il suo carattere rissoso e spavaldo. Nel 1799 la Padania è occupata dai Francesi ma l’annuncio della ripresa delle ostilità da parte degli Imperiali scatena ovunque l’insorgenza popolare. Il reggimento Wurmster combatte a Legnago e a Magnano, partecipa alla liberazione di Mantova e poi, quando il grosso dell’Armata austro-russa si avvia verso Milano, viene spedito a Modena, poi verso la Liguria, dove assedia Genova. Il cinquantanovenne Maggiore Lucioni si stacca dal suo reparto, passa da Parma e da Cremona e si presenta a Milano: gli è stato affidato un drappello di cavalieri col compito di precedere l’esercito, incalzare i Francesi e organizzare i rivoltosi. La sua avventura vera inizia con un raid la mattina del 28 aprile 1799. Parte da Novegro e con un paio di drappelli si spinge in Milano, ancora francese, si fa vedere spavaldo al caffè "detto del Mazza" in Piazza Duomo, si fa ricevere dall’arcivescovo, si auto invita a pranzo dalla municipalità, abbatte l’albero della libertà e l’immancabile statua di Bruto eretta in Piazza Mercanti. La sua spavalderia disorienta i Francesi e rianima i Milanesi che insorgono e accolgono il giorno dopo gli austro-russi che entrano nella città liberata. E’ solo l’inizio di una incredibile avventura. Branda raccoglie i suoi cavalieri e, assieme a un numero crescente di volontari padani (che assumeranno il nome di Massa Cristiana), si dirige su Cuggiono e Boffalora. Il 29 aprile passa il Ticino e solleva i contadini. In pochi giorni libera Novara, Vercelli e Santhia. Qui la massa si divide in più colonne. Una si dirige su Biella e poi su Ivrea e Aosta, che viene liberata nella notte fra il 6 e 7 maggio 1799 dall’assalto congiunto della Massa e del locale "Regiment des soques". Un’altra va verso Trino e Chivasso e punta su Torino. Il 5 maggio Branda installa il suo quartiere generale a Chivasso. Il 14 occupa tutte le località attorno a Torino che di fatto assedia bloccandovi gli occupanti. Gli alleati arrivano in città il 24 e vi entrano il 25. La Massa procede allora verso sud e la Liguria. Libera numerose città e apre la strada all’esercito regolare. Si scioglie ufficialmente il 5 giugno a Pecetto torinese. La guerra sembra vinta e tutti, tranne qualche gruppo che continua a operare autonomamente sull’Appennino ligure, se ne tornano alle loro case. Anche Branda se ne va in pensione a Vicenza dove morirà il 22 agosto del 1803. L’epopea segnerà i suoi nemici che erano terrorizzati al punto da trasformare il nome proprio di Branda in una denominazione di genere con cui indicare tutti gli insorgenti. "Brandeggiare" diventa addirittura sinonimo di compiere gesti spavaldi, di "guasconare". Nel dizionario pubblicato nel 1830 da Casimiro Zalli si trova scritto: "Branda, o Brandalucion, ovvero Brandalucionista, nome originato dal Maggior giubilato Branda de’ Lucioni, il quale l’anno 1799 fece il precursore delle Armate Austro-Russe, quando s’avanzavano verso il Piemonte. Questi, avendo fatto masse di villani, ed altri realisti o nemici dei Francesi, furono quindi dall’anno 1800 per disprezzo chiamati Branda, brandoni, brandalucionisti, tutti li amici della Casa di Savoja, e tutti quelli, che valevansi calunniar o render sospetti" e più avanti "Brandé, verbo giusta il predetto significato, contare, o sparger novelle, o far progetti sfavorevoli al governo francese, "faire le royaliste"".

Al di là della vicenda delle Insorgenze, della loro importanza e delle azioni militari, e della stravagante e forte personalità dell’autore, l’avventura del Branda è per noi importante anche per i suoi risvolti simbolici. Era un lombardo fedele servitore dell’Impero; nato in Boemia e vissuto sempre fra Padania e Austria, un perfetto prodotto della cultura della Mitteleuropa; con le sue gesta aveva dimostrato un grande attaccamento alla Lombardia, intesa nel significato antico di Padania. La sua guerra aveva toccato l’intera regione: partito dal Veneto, aveva percorso i Ducati emiliani e poi la Lombardia, il Piemonte, la Valle d’Aosta e la Liguria. Il percorso della sua avventura è una sorta di filo che lega, anche attraverso la gloria delle Insorgenze, le varie parti del solido patchwork padano. La rapida e splendida cavalcata di Branda de’ Lucioni è stata sottratta al criminale silenzio della storiografia tricolore e di tutti i suoi storici faziosi da una serie di annotazioni apparse di recente su alcune opere dedicate alle insorgenze antifrancesi. Ma è soprattutto un documentatissimo libro di Marco Albera e di Oscar Sanguinetti che oggi ce la descrive in dettaglio. Il libro (Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Massa cristiana, Libreria Piemontese Editrice, 1999, 143 pagine) è bello, ben costruito e documentato, solo appena guastato da una nota stonata nella Premessa, il solito accenno del tutto fuori luogo a una inesistente identità italiana, a un sentimento che non esiste, che non ci tocca e che era sicuramente sconosciuto al Branda, lombardo, mitteleuropeo e padano.