Il De bello Gallico:
un autentico genocidio
Siamo
diventati troppo umani per non dover sentire ripugnanza ai trionfi di Cesare»,
aveva già scritto Goethe, quando non c'era stato ancora il Secolo Breve,
con i suoi stermini, e il vecchio mondo non era stato ancora insanguinato dalla
pulizia etnica seguita al crollo dei due grandi imperi multietnici eredi dell'impero
romano, poi bizantino: prima quello ottomano e poi quello sovietico. Un milione
e 200mila morti è il bilancio della guerra condotta in Gallia da Giulio
Cesare stando al settimo libro della “Storia naturale” di Plinio
il Vecchio: quello che Luciano Canfora ha chiamato «il libro nero della
campagna gallica». Cesare realizzò con la violenza e lo sterminio
etnico il suo duplice e infinitamente discutibile contributo alla storia dell'umanità:
la romanizzazione dell'Europa celtica; la creazione, dopo il passaggio del Rubicone,
della monarchia universale.
«Io non posso mettere tra i suoi titoli di gloria un oltraggio così
grave da lui arrecato al genere umano», scrive Plinio. Catone denunciò
Cesare in senato per violazione del diritto delle genti ai danni delle popolazioni
galliche. In effetti l'immissione del mondo celtico nel circuito della «civiltà»
romana comportò non solo un tremendo genocidio, ma la cancellazione dell'antica
religione druidica e l'interruzione di una civiltà grande e complessa,
confermata tale da scavi recenti come quelli di Bibracte. L'enorme sforzo bellico
del futuro «dittatore democratico» era lungimirante e funzionale,
certo, al suo disegno politico. Ma i politici contemporanei, anche i più
filocesariani, non considerarono mai la guerra gallica come quel grande atto
di «esportazione della civiltà», se non della democrazia,
che gli storici successivi, fino al grande Mommsen, vollero vedervi.
Certo, la romanizzazione dei celti si può considerare l'evento cruciale
nella formazione dell'Europa medievale e poi moderna. Ma quale Europa avremmo
avuto se non ci fosse stato Cesare? e, soprattutto, quale versione della sua
storia, se, come si è domandata Simone Weil nei suoi saggi su Hitler
e la politica estera romana, avessero potuto scriverla storici di etnia gallica?
Il massacro fu raccontato, invece, dal suo autore. Ma talmente bene, con un
modo di esporre così «elegante, brillante e in un certo senso anche
magnifico e generoso», per usare le parole di Cicerone, da sedurre gli
intellettuali di tutti i tempi. La chiave stilistica dei “Commentarii”
di Cesare avrebbe trovato grandi imitatori. Dai “Commentarii” di
Pio II fino al “Mémorial de Sainte-Hélène”
di Bonaparte, l'uso della terza persona, l'asciuttezza, la modernità
del periodare di Cesare avrebbero fatto scuola.
L'importanza e il fascino del “De bello gallico” stanno proprio
in questo, nell'incontro tra l'animale politico e un animale letterario dal
senso estetico sovrasviluppato e talvolta efferato. Concetto Marchesi notava
che lo sguardo di Cesare, nella carneficina dei belgi, «vede più
la giornata di sole che la giornata di sangue».
Non esiste documento sulla storia che ne restituisca così limpidamente
il lato nero. Non esiste prosa altrettanto rivelatrice dell'intreccio di cecità
e genialità di chi fa la storia, o crede di farla e ne è strumento.